La Batracomiomachia di Omero
La Battaglia delle Rane e dei Topi Tradotta da Antonio Jerocades (1817)
DISSERTAZIONE SOPRA LA BATRACOMIOMACHIA D'OMERO
Rimane, che diciam due parole sulla Batracomiomachia, che contiene una guerra di Rane e di Sorci. Questo è un Poemetto grazioso e leggiadro, da molti attribuito ad Omero. Non può negarsi, ch'è antico, e tanto basta a rilevarne il suo pregio. Di molti antichi Poemi se ne ignora l'Autore; ma per comodo di chi parla, e di chi scrive sogliono o fingersi i nomi, o cambiarsi, come si fa nelle scene. Ma sia di chiunque, egli è commentevole per se stesso. L'argomento del Poema è il più spiritoso e galante, e il più grazioso ancora e piacevole. Si crede, che sia un argomento bernesco, come è quel della Secchia rapita del Tassoni, del Riccio rapito di Pope, del Lettorino di Boileau, del Ver-Vert di Gresset, della Moscheide del Coccajo, della Galeomiomachia, del Quacquero Rapito, e di qualche altro. Se si vuole rintracciare l'Allegoria, si può dire indovinando, ch'ei contiene una burla faceta dell'Iliade, o di altro Poema, o pure è un argomento originale di qualche festivo ingegno poetico, che scrisse in Roma ne'tempi del basso Impero, quando fiorivano e Gramatici, e Retori, e Sofisti, e si cercava il favor della Corte con simili Poemetti di greco argomento, de'quali se n'è fatta Raccolta. Ma di ciò vedi Fabrizio B. G. de Homeri scriptis, dove vi è chi preferisce questo a tutti gli altri Poemi d'Omero. Non può negarsi però, che l'argomento è Poetico, e che lo stile sia sostenuto colla maestà di Apolline. L'invenzione è nobile e greca, l'ordine è armonico; vi è l'unità e semplicità dell'azione, che non dura, che un giorno, e questa azione si può tutta e quanta vedere in un luogo, ch'è la riviera del lago. Ne'Numi, che disputano sull'interesse della guerra, e poi si fanno spettatori, si mostra un'invenzione Omerica. La spedizione de'Granchi non è nell'Iliade, nè se ne vede chiaro l'Allegoria. Vi ha dei versi d'Omero, e lo stile è quasi di lui, e per la facile sublimità, e per l'armoniosa cadenza. Questo Poemetto si è da molti variamente tradotto. A noi è piaciuto di tradurlo in ottava rima, seguendo ancora l'esempio del Sig. D. Antonio Migliarese, Cavaliere e Poeta Tropeano. Vi abbiamo aggiunta qualche cosa di nuovo, per dargli un'aria Italiana, quanto per noi si è potuto, e non abbiam voluto cangiare i nomi delle Rane, e de'Sorci, che sono nomi proprj, come Achille ed Ulisse. Ma restando sempre salvo l'onor del vero a fronte del nostro studio e della nostra fatica, preghiamo caldamente i lettori a leggere sempre le opere originali e a stimare le nostre vere copie, fatte per sollievo dell'animo, e per occupazione del tempo, che ci avanza dalle cure maggiori, potendo con ragione dir di noi ciò che Fedro diceva di sè:
ARGOMENTO
Il Re de'Sorci, chiamato Psicarpago, fuggendo la persecuzione d'un Gatto, corse assetato ad un Lago. Ivi, dopo aver bevuto dell'acque, da un Ranocchio, per nome Limnocaro, (che poi si scopre il Re delle Rane sotto il nome di Fisignato) domandato chi è, e donde viene, e qual'è la sua stirpe; narra la sua origine con molta superbia, ed esalta la sua condizione a segno, che deprimento quella delle Rane, muove a giusta indignazione il Ranocchio. Questi per vendicarsi, parla in prima modestamente de'suoi, di se; e quindi, fingendo amicizia, invita il forastiero ad andare a casa sua, dove, vedendo cogli occhi suoi il Regno delle Rane, avrebbe ancora goduto de'doni ospitali. Il Sorce accetta l'invito, e già monta sulle spalle del Ranocchio, che subito salta nell'acque, e va a nuoto col passaggiero per l'onde. Ma tra per l'acque, ond'è bagnato, e perchè alla vista d'una Serpe, che sorte dal fondo, Limnocaro sen fugge impaurito; il misero Psicarpago resta abbandonato e solo nel Lago, dove dopo vane querele e lagrime l'infelice si affonda. Era nel lido un altro Sorce, chiamato Leccopinago, il quale veduto questo spettacolo, corre a tutta briglia, e ne reca a'Sorci l'annunzio. Allora si raduna il Consiglio di Guerra, e dopo una lamentevole perorazione di Trossarto, ch'era il Padre dell'annegato e, si conchiude a pieni voti per la guerra; si spedisce alle Rane l'Araldo; ed essi intanto vanno ad armarsi, e a preparare l'armata. A questo annunzio improvviso si sparge tra le Rane il turbamento e il tumulto, dicendosi, che questa guerra si era dichiarata per l'infedeltà di Fisignato. Ma il Re nel Consiglio di Guerra difende la sua causa; imputa all'audacia del Sorce la morte di lui; e conchiude, che si debbe accettare la guerra, non solo per respingere l'armata nemica; ma per vendicare eziandio e il disprezzo di Psicarpago, che senza essere Anfibio, volea scherzare fra l'onde; e la nera calunnia, che si era tramata al suo nome. Al parere del Re si accorda il parere di tutto il suo popolo, e già l'armata delle Rane, composta della più brava soldatesca, si arma, e scende nel campo. Era il campo nelle rive del Lago, dove a Fisignato, che prese in mano il sovrano comando dell'armi, piacque di farsi un'imboscata; e di già il poderoso drappello, che attende il nemico, s'imbosca, e negli aguati si siede. Viene intanto l'Armata nemica de'Sorci, spirando furore e vendetta, e datosi il ferale segno della sanguinosa battaglia, s'incomincia pertinacemente l'attacco. Prima di venirsi alle mani, Giove chiama i Numi al Consiglio, e manifestando loro la nuova guerra, che si facea da'mortali a guisa di quella de'Giganti e de'Centauri, propone a Marte e a Pallade, qual partito vogliano seguitare. Ma questi, sdegnati e de'Topi, e delle Rane, risolvono di mantenere la neutralità; e allora tutta la Corte Celeste si dichiara spettatrice indolente del campo. Ecco già al suon delle trombe delle stridenti Zanzare le due nemiche Armate nel campo, dove il pertinace e crudele combattimento, che prima è dubbio ed eguale, si dichiara finalmente pe'Sorci, poichè Meridarpago minaccia di voler distruggere interamente le Rane. Allora Giove, mosso a pietà de'Ranocchi, la cui razza e' non vuole, che perisca del tutto, tuona e lampeggia, e quindi spedisce un Reggimento di Granchi, i quali mettono in fuga l'Armata de'Sorci, e la memoranda battaglia incomincia e finisce in un giorno. I Generali delle Armate fuorono, Teossarto de'Sorci, e Fisignato delle Rane, i quali vanno a perire nel Lago. I Sorci, e Ranocchi, di cui vi è il nome nel Poema, sono trentasei, come si può vedere nella Lista seguente.
Lista de'Sorci e de'Ranocchi nominati nel Poema, secondo l'interpretazione del Salvini, e del Ricci
I NOMI DE'SORCI
Di questi Sorci quindici solamente sono nel campo; poichè Psicarpago morì annegato nel lago; Lichomile è la sua Madre; e Artepibulo è nominato come Padre di Meridarpago, ch'è l'ultimo della Scena, e probabilmente fu ammazzato da'Granchi. Questi, e le Zanzare, (che danno il segno della battaglia) e l'Idra, non hanno nomi proprj.
I NOMI DELLE RANE
1. Physignatus, Fisignato, Gonfiagote, o Dongonfione. Questi è il Re delle Rane, e il General dell'Armata; figlio di Peleo e d'Idromedusa, cioè del fango e dell'acqua. E', come privato, si chiama ancora Limnocaro Polifemo, cioè il Ranocchio insigne e capo degli altri, come il capo de' Ciclopi fu detto Polifemo, cioè il più rinomato, e il più chiaro. Il Governo de'Sorci e delle Rane sembra elettivo, e dipendente dal Senato e dal Popolo; ma le Famiglie regnanti vantano una stirpe reale. 2. Limnocharis, Limnocaro, Paludoso, o Paludano. Questo è nome comune, e particolar d'una Rana. 3. Peleus, Peleo, Fanco: il Padre ancora di Achille. 4. Hydromedusa, Idromedusa, Regina dell'acque, la stessa forse che Teti, Madre d'Achille. 5. Hypsiboas, Ipsiboa, Gridalto, Strillaforte. Questi fu il primo a dare l'attacco. 6. Peleon, Peleone, Fanghino, o Fangacco. 7. Scutleus, Scutleo, Bietolajo. 8. Polyphonus, Polifono, Buonavoce, o Moltavoce, o Granvoce. Questi era come Stentore nell'Iliade. 9. Grambophagus, Grambofago, Mangicavoli. 10. Limnesius, Limnesio, Pantanello, o Paludano. 11. Calaminthius, Calamintio, Cannucciaro. 12. Hydrocharis, Idrocari, Godilacqua, o Stanellacqua. 13. Borborocetes, Borborocete, Dorminelloto, Dorminelfango. 14. Prassophagus, Prassofago, Mangiaporri. 15. Pelusius, Pelusio, Fangajo. 16. Palobates, Pelobate, Vappelfango. 17. Craugasides, Graugaside, Gracidante, Gracchione. 18. Prassaeus, Prassaeus, Porrajo.
Di questi Ranocchi sedici sono nel campo, perchè Peleo e Idromedusa sono nominati come il Padre e la Madre del Re Fisignato. Nel campo delle Rane non vi ha nomi duplicati, come nel campo de'Sorci. Se si annovera Psicarpago, il Re de'Topi soffogato, sono uguali di numero. Si avverta, che tra i morti e feriti non sono compresi i Generali del Campo; e che il Re Fisignato, Gonfiagote, si trova per caso somigliante a Don Gonfione, ch'è l'Eroe del Quacquero Rapito Poemetto di bernesco argomento, (come il Riccio, e la Secchia) stampato in Marsiglia l'an. 1771 dal Mossy al Parco.
Si annega il Re de'Sorci, e ognun sospetta, Che dal Re de'Ranocchi e' fu tradito. Arde la guerra, e la feral vendetta Scende d'un lago abattagliar dul lito. Tal vista in prima e Giove, e i Numi alletta; Ma quando e' vede alfin, che un Topo ardito Vuol sfar le Rane, e' manda i Granchi, e allora Fuggono i Sorci, e fugge il giorno ancora.
1. MUSE Olimpie, scendete, e il vostro Core Venga, e inspiri al mio cor lo sdegno e il pianto Ch'io già la cetra eburnea, e il plettro d'oro, Già del Vote Smirneo mi usurpo il vanto. Del fiero Marte il più feral lavoro. Le atroci imprese, e l'armi orrende io canto; Canto de'Sorci, e delle Rane ardite L'immensa guerra, e l'implacabil lite.
2. Mi ascolta, o mio Filandro. I carmi miei, Ch'io fo per sentir meno il caldo e il gelo Ti offro in dono: e se cheto e attento sei, Oh quai miseri a tuoi bei lumi io svelo! Tu ne' Topi vedrai gli empi Flegrei Animati a pugnar incontro al cielo; Vedrai da'Granchi alfin di Marte il foco Spento, e servir la guerra a'Dei di gioco.
3. Ma il principio dov'è? Dov'è la fine Dell'infinita e memoranda impresa? Numi eterni, io mi perdo. Ah tu, che il crine M'infiori, ah scendi, o Febo, in mia difesa. Ecco già si apre il Ciel. Fra balze alpine Qual chi erra fuor di via, se scorge accesa Lampa da lungi, là si addrizza; anch'io D'Apollo a'rai comincio il canto mio.
4. Già il terzo dì volgea che un Sorce ardito Fuggia da un Gatto a tutta briglia, e ansante Cercava un buco, ove ficcarvi un dito, E porre in salvo il corpo suo tremante. Ma già col piede suo vie più spedito Va dal nemico un lungo tratto innante, E giunto d'ampio Lago all'alte sponde Vuol l'arse habbia imbrodolar fra l'onde.
5. Scende in riva al pantano, e il molle mento Sporge, e assorbisce il licor fresco e chiaro; E, o licor, dice, che nel mio tormento Quanto ti bramo più, tanto sei caro! Lascia, ch'io ti tranghiotta a mio talento Che per la sete mia sei scarso e raro. Se arriva il Gatto, nel tuo vasto seno M'immergo, e crepo abbeverato almeno.
6. Così lambendo e' dice, e l'altra riva Risona a'detti suoi. Quando ecco appare Fuor del Lago un Ranocchio, e questi arriva Là dov'e' torbe l'onde e fresche e chiare. Limnocaro questi era, a cui la viva Voce stridea dal monte insino al mare. E' superbo si appressa, e in alto grido Parla al Topo, che ancor bevea dal lido.
7. Stranier, chi sei? Donde quì vieni? E' quale E' la tua stirpe? E di chi mai sei figlio? Dimmi il vero però; che fia mortale Altrimenti il tuo fallo, e il tuo periglio. Ma se verace sei, se sei leale, Com'è il mio voto, e com'è il mio consiglio Ti porto alla mia Reggia, e quì di doni Ospitali ti colmo, e molti, e buoni.
8. Fisignato son io, Signor del Lago, Re delle Rane, e Imperator sovrano. Dell'altrui bene ho il cor contento e pago, Ch'io reggo altrui col senno e colla mano. Ma se il mio sangue di saper sei vago, Peleo e' mio Padre. E d'amor casto e sano Acceso, strinse Idomedusa, e questa In riva al Pò mi espose in pompa e festa.
9. Ma tu ben mostri ancora in tuo contegno, Che sei figlio di Re, germe d'Eroi; Tu sei forte di man, saggio d'ingegno, Hai scettro e brando, e sei sembiante a noi, Deh qual è il popol tuo, qual il tuo regno, Quai sono i cavalieri, e i fanti tuoi? Sei Prece, e sei Guerrier. Dunque ragiona, E a me del sangue tuo contezza or dona.
10. Disse, e si tacque; e il Topo allor sdegnato Di tal domanda, in modo tal rispose. Che? non sai tu ch'io sono? A te lo stato, E l'alto mio legnaggio il ciel nascose? Ignorante che sei! Qual aspro fato Te dell'oblio nelle ombre cieche espose? Qual uom, qual dio, qual augellin, qual fiore Ignora la mia stirpe, e il mio valore?
11. Psicarpago son io, di pregi adorno, Figlio a Trossarto, c'ha cor forte e saggio. Leccomilla è mia Madre, e a questa il giorno Dié Pternotrotto, un Re d'alto coraggio. Fu la mia culla un tronco, a cui d'intorno Giacea prostrato al suolo il pino e il faggio. Fu il primo cibo mio la noce e il fico, E ciò che mai produce il campo aprico.
12. Or queste è il mio Natal. In queste vene Questo sangue serpeggia. E tu mi chiami Parente tuo? Ma donde mai ti viene L'ardir di estimar tuo ciò che brami? Tu traggi i dì tra le acque e tra le arene: Il vorace desir non mai tu sfami. All'uso io vivo, e il sai, del germe umano: E mi vuoi tuo parente, e tuo germano?
13. Or senti chi son io. Sù mensa eletta Fuma di bianco pan cesto rotondo. Quì la sfogliata, che a mangiar mi alletta. Col suo sapor d'ogni sapor fecondo. Quì del prosciutto il tronco, e quì la fetta, E il fegatello, e il cacio, e il mel giocondo Grato a'Numi, e qui quanto il dotto Cuoco A'mortali apparecchia all'acqua e al fuoco.
14. Quando poi Marte invita i Duci al campo Dell'alta tromba al rauco suon guerriero, Non fuggo io, no, di mille spade al lampo, Ma men vo innanzi a chi è più prode e fiero. Nè tremo nel cimento, o nell'inciampo, L'uom, c'ha barbaro il cor, c'ha il corpo altero; Ch'io al letto suo men vo, gli mordo il piede, E non mi ode nel sonno, e non mi vede.
15. Dell'Uom non ho timor, non l'ho del Dio; E bravo l'aspra sorte, e il reo destino. Ma sai chi fanno il duolo e il pianto mio Sparviero, e Gatto, onde son io meschino, Della Trappola ancor servo son io, Che non ha mai pietà di un cor tapino. Ma il Gatto io più pavento, il Gatto audace, Che al buco attende a tormi o vita, o pace.
16. Nel resto i giorni miei nel gaudio io meno; Mangio e bevo a mia posta e a mio talento Nè di rafani, o d'erbe io mi empio il seno; Nè a biete, nè a cocozze ho il labbro attento. Tai cibi neppur gusto allor ch'io ceno Fan questi di voi Rane il bel contento; Che nelle arene sterili e palustri Non son dolci bevande, o cibi illustri.
17. Così disse Sicarpo, e il guarda, e ride Fisignato, e in tal modo a lui risponde. Temerario che sei! Chi mai si vide, Che tanto alte mensogne altrui profonde; Sì detto non avria quel grande Alcide, Del cui grido son pieni i monti e l'onde. E pur la gloria tua tutta si aggira Nel ventre, ov'hai la mente, ov'hai la mira.
18. Ma credi tu, che noi siam sì meschine, Qua'ci apprezzi! Han le Rane e Tempio, e Regno, Dove son le campagne, e le marine: Ed han corpo leggiadro, e chiaro ingegno. Giove, del mondo il gran principio, e il fine, Che formò l'Universo al suo disegno, Doppia vita a noi diè, perchè fra l'onde Viver possiamo, e fra l'erbose sponde.
19. Quante ha dovizie l'acqua, e quante il suolo, Sono in nostro poter. Nell'onde a nuoto Or c'immergiam, quali augelletti a volo, E si equilibra il Lago al nostro moto. Or poi per alterar il bel consolo, Saltiamo in terra, ove ogni ben ci è noto; E per tutto viviam, quai sommi Numi, per fonti e valli, e per riviere e fiumi.
20. Ma mi credi orgoglioso, o pur mendace? Vieni, e vedi, e il saprai, saper se il vuoi. Vedrai, se son modesto e son verace, E se posso appagar gli affetti tuoi. Sù, coraggio: la sorte ha in man l'audace. Se ciò brami saper, saper lo puoi. Vieni al mio dorso, e tienti forte, ch'io Ti porto a salvamento al Regno mio.
21. Disse, e gli diè le spalle; e lieto e desto Que' con salto veloce omai vi ascende, E vi si adatta in guisa tal, che presto Con tutte e due le braccia il collo apprende. Spicca un salto la Rana, e col piè lesto Calca l'onde spumanti, e spinge, e fende. Gode del nuoto il passaggiero, e il viso Volge per l'ampio Lago in festa e riso.
22. Quanto è bello, e'dicea, sull'altrui spalle Varcar l'onde, e veder, che fugge un lido, E l'altro si avvicina al nostro calle, E mentre Sesto va, si appressa Abido! Quì non monte aspro, o diruposa valle, Nè d'orso, o lupo il paventevol grida Quì non guerra, e non lite e là nel fondo Vive altra gente, e regna un altro mondo.
23. Ma oimè, che sento? Ahi lasso! io son bagnato Da capo a piè; l'acqua m'inonda, e spesso Chiuder deggio il mio labbro. Oimè beffato; Oimè deluso! Oimè dall'onde oppresso! Così presto cangiò l'avverso fato? Da cui sottrarmi, oh Ciel! non mi è concesso. Ahi che mi sbatte il cor! L'acqua m'inonda, E il Ranocchio or m'innalza, ed or mi affonda.
24. Ferma, deh ferma, o volgi indietro il corso, Ospite mio crudel. Pietà, se mai Nell'onde vi è pietà. Da te soccorso, Da te favor io dunque invan sperai? Alza, ti salvi il Ciel, dall'acque il dorso. Rana, amica, a chi parlo? A chi fidai, O stolto, la mia vita? Ahi pianto, ahi duolo! Non vi è pietà per me, non vi è consolo.
25. Vai, Dei del Ciel, nel cui celeste seno La pietà nacque innanzi al giusto sdegno, Pietà di me meschin sentite almeno, Che de' vostri favori un Sorce è degno. Ma invan le labbra a'prieghi, a'pianti io sfreno Le ciglia invan. De' Numi accolti al Regno Non sono i Sorci, e di trastullo e gioco Siam solo a Giove in ogni tempo e loco.
26. O voi, Compagni, almen sentite il pianto Del vostro amico. O Padre, ah vedi il figlio, Che corre al suo naufragio. A corre intanto, O madre, e salva me da mio periglio. Misero peregrin! La morte accanto; Fugge la vita, e manca il lume al ciglio. Tutto orror è per me, tutto è spavento, E accresce il mio dolor il mio lamento.
27. Ma forse qual'Europa al lido io torno, Ed è la Rana mia di Creta il Toro? Fia il dorso mio di regal manto adorna, E avrò scettro d'avorio, e serto d'oro? Lo speri invan, mio cor. L'estremo giorno Si appressa omai. Già van l'Erinni il coro A preparar. Già d'urli il ciel rimbomba, E illacrimato il Lago avrò per tomba.
28. Si dice, e piange, e del Ranocchio afferra Il ventre colle gambe, e a tutta lena Con ambe le sue braccia il collo serra Fra la vana speranza, e l'aspra pena. Ma non si appressa più per lui la terra, E si ode sol romoreggiar l'arena. Quando ecco all'improvviso un'Idra, e questa Alza dall'onde la superba testa.
29. Trema a tal vista, e impallidisce, e geme Fisignato, e si ficca in fondo all'acque; Nè dell'ospite suo si affligge, o teme, Che abbandonato al Lago, e sol si giacque. Que'fugge e l'aspra morte, e il fondo preme Col corpo; e questi più si afflisse, e tacque. Pur si sforza a natar, e or s'immerge Nell'onde, or sorge in alto, or cade, or si erge.
30. Ma già grondan le chiome, e gravi, e molli Il traggon giù, qual sasso. E' brama ancora La vita, e i desir suoi son vani e folli, Ch'e'già piomba nel fondo, e grida allora. Sventurato Sicarpo! E a chi mai volti Fidar mia vita? Ah fia mestier, ch'i mora, E' spacciata per me. Del nero inganno Son preda, e questo è il mio più grave affanno.
31. Ma che? La colpa mai non resta ascosa, Fisignato infedel, a' sommi Dei. Vi è Giove in Ciel, che vegghia, e non riposa, Per dar mercede a' giusti, e pesa a' rei. Alma infida, alma ingrata, alma schifosa, Vendicheranno i numi i torti miei. Fuggi, ti ascondi: ovunque andar ten vuoi, Sempre con te verranno i falli tuoi.
32. Perfido ingannator, qual pietra, oh Dio! Tu mi sbalzasti in mezzo all'onde oscure. Oh il Vafrin che tu fosti! Il braccio mio Ti avria dato nel suol le ree sventure. Perciò mi traggi (oh Ciel, che furbo e rio!) Nel Lago, ov'hai tue forze, ov'hai tue cure; Che in terra al corso, e alla palestra avria Dato a Ninferno un'alma infame e ria.
33. Ma potrai tu fuggir l'eterno fato. Che pesa in sua bilancia il fallo e il merto? Guarda, che vedi in Cielo? In soglio aurato Un Dio c'ha un occhio giusto, è sempre aperto; Un Dio, che or è tranquillo, or è sdegnato, Che mai non vibra il colpo iniquo, o incerto. A questo Dio tu pagherai, crudele, L'orrende colpe tue, le mie querele.
34. Disse, e spirò nell'acque. Il caso avverso Leccopino mirò dal lido erboso, Ov'era al fresco, e l'infelice immerso Pianse con pianto e grido assai pietoso. Tosto d'immonda arena il capo asperso, Perchè non resto invendicato e ascoso Il fallo, e' corre, e il narra al gran Consiglio De'Topi, e d'astro pianto inonda il ciglio.
35. Come il caso si udì tremendo e aflitto, Pianse il Senato, ed arse ancor di sdegno, E tosto a vendicare il gran delitto Si concepisce, approva il gran disegno Il sacro patto fin col sangue scritto Da'Congiurati, e già per tutto il Regno Va l'Araldo a intimar con bando espresso In casa di Trossarto il gran Congresso.
36. Era già l'alba, e il Sol co'suoi destrieri A rimenarne il dì dal mar sorgea; E i sorci audaci, e infelloniti, e altieri Givano all'intimata alta Assemblea. Spressi eran nella fronte i lor pensieri, Che ognun di sdegno e di vendetta ardea. Ma più di tutti il Padre apparve in vista Terribile e pietosa, atroce e trista.
37. Discinto il crin, e impolverato appare Nell'Assemblea Trossarto. Il mesto ciglio Lagrime di dolor acerbe e amare Versa, e desta a pietà tutto il Consiglio. Son rotte le sue voci, e basse, e rare, Che sì le tempre l'aspro duol del figlio, Che insepolto si giace, ed ha per tetto L'immenso Lago, e sulla sabbia il letto.
38. Alfin, dal fondo del suo cor che langue Sgorga la voce in mezzo a'rei sospiri, Dicendo: o mio bel figlio, o mio bel sangue, Dove, bell'ombra oh Dio, dove or ti aggiri Chi quel mostro crudel, chi fu quell'angue, Che a te rea morte, e a me diè rei martiri? Rana, Rana infedel, tu fosti, oh Dio, Che fra i gorghi immergesti il figlio mio.
39. Amici, or che faremo? E' ver, ch'io solo Il figlio mio (che pena? oh Ciel!) perdei; Ma il fato eterno ha fabbricato il duolo A tutti i Sorci per la man de'rei. E pietà non ho più, non più consolo Il danno a riparar de'figli miei, Tre figli avea, tre figli, ahi che martiro! E tutti, ingiusto ciel! tutti periro.
40. D'un gatto cade nel rapace artiglio Il primo, e fuor del buco è posto a morte. L'altro in un legno va senza consiglio, E la fatal v'incontra e acerba sorte. Ah l'uomo ancora in questo infame esiglio Contro di noi si mostra o furbo, o forte! E il terzo? O ciel, quanti nemici: All'onda La Rana li tragge, e quivi, ahi duol, l'affonda.
41. Fisignato crudel, il più bel pegno Di duo fidi consorti ah traggi al fondo. Madre infelice, il duolo è giunto al segno, Che nella vita un dì non hai giocondo. Ed io padre meschino? Il duol, lo sdegno, La pietà, la vendetta in un confondo. Ho mille furie in seno, e udir già parmi Rombo orrendo, ch'esclama: all'armi, all'armi.
42. All'armi, all'armi. A vendicar l'oltraggio Armiamci, o prodi, e usciamo in campo armati. Si accenda ognun di forza e di coraggio, Nè pietà si usi inverso i mostri ingrati. S'a nostro Duce chi è più forte e saggio; Ma se furo i rei danni a me recati, Io che or vi agito il sen col mio consiglio. Vi son Duce nel merto e nel periglio.
43. Sì disse, e a pieni voti il gran Senato La guerra approva, e d'alto ardir s'accende, Ecco Marte dal ciel, di sdegno armato, Che a preparargli il campo al suol discende. Si apre il tempio di Giano, e a tutti è dato L'arredo militar, che cuopre, e offende. Nel mondo Armata tal non mai si vide, Dove ogni Eroe rassembra un altro Alcide.
44. Musa, quai l'armi furo, e quai le schiere De' Topi? Ah tu mel dì, che dir mel puoi. Tu vedesti ondeggiar l'alte bandiere, Quando sceser nel campo i sommi Eroi. Pone alle gambe in pria le sue gambiere Di verdi fave rotte, a cui fu poi Tolto il guscio: e serbato a miglior uopo, E incomincia ad armarsi in campo il Topo.
45. Di pelli avvolte nella verde paglia, Ch'eran le spoglie l'una gatta estinta, Fa la corazza, in cui non chiodo, o maglia, Ma splende a'rai del Sol nel sangue intinta. Lo scudo poi, che giova in rea bataglia, Perchè la forza altrui sta ben respinta, Della lucerna è quel bellico, in cui Arde il lucignolin ne'tempi bui.
46. Un ago lungo è la sua lancia, e questa Tempra è di fino acciar più bel dell'oro; Vibrata sì, che ben si pone in resta, Ed è del truce Dio studio e lavoro. Di elmo lucente alfin cinge la testa, E compie d'un guerrier l'alto decoro; E' d'un guscio di noce il forte elmetto, Che fa più vago il suo feroce aspetto.
47. Così si armano i Sorci; e allor la fama Scuote l'agili piume, e si erge a volo; Le cento voci sue spande e dirama, E si alza il grido dalla terra al polo. Leva il capo dal fondo, e saper brama, Perchè in campo si armò l'avverso stuolo, Sbigottito il Ranocchio, e al gran Congresso Ne va da tema e da spavento oppresso.
48. Intanto ignora ognun l'alta cagione Del reo tumulto, e dell'armata atroce. Molto si pensa, e nulla ancor si espone, Che il dubbio stringe in mezzo al cor la voce. Ecco Araldo ne vien, del gran campione Tiroglifo figliuol, l'alto e feroce Embasichitto, con lo scettro in mano, Che si favella in stil sommo e sovrano.
49. Il Re de' Topi, o Rane, e il mio Signore, Guerra per me v'intima, e stragge, e morte; Ch'e' con gran pianto intese, e gran dolore Di Sicarpo meschin l'orrenda sorte. Il vostro Re l'immerse, il traditore Fisignato. Or di voi chi è saggio e forte Si armi, e soffra de' Topi il giusto sdegno, Che l'onor vanno a vendicar del Regno.
50. Disse, e sgombrò, qual nebbia, a cui percote Il dorso Febo co' suoi rai dal Cielo. All'annunzio feral cade alle gote Delle Rane il pallor, e al petto il gielo. Rivolte al Re son le lor fronti immote, Che il credon reo; quand'e' tessendo il velo Della Menzogna, dice: o prodi, e quando Non sostenni l'onor del regio brando?
51. Io quel Sorcio sommersi? E quando il vidi Perir nell'onde? Ah che l'audace e stolto Per beffarci saltò ne' flutti infidi, E alfin restò dal cieco error sepolto. Sen venne un dì schernendo a' nostri lidi, Superbo in petto e rigoglioso in volto, E disse: Io noto anch'io. Ma cadde il prode Nel fondo e senza esequie, e senza lode.
52. Qual colpa ho io della sua morte? E' questo Il modo d'intimar la giusta guerra? Ah ne mente il fellone. Il Topo infesto Colle sue truppe andrà disfatto a terra. La calunnia discerno, e il reo pretesto, Compagni, e il vostro Re non mente, od erra, Giacchè vonno pugnar, la pugna anch'io Voglio, e udite, o miei fidi, il pensier mio.
53. Armiamoci sù da capo a piè; ma pria Chiediam forza dal Ciel, che i cor ravviva. Quindi usciamo a battaglia, e il campo sia Del nostro Lago la pendente riva. Noi dalle insidie sulla truppa ria, Quando alle sponde del pantano arriva, Cadremo inferociti, e all'improvviso L'esercito infedele andrà conquiso.
54. La Rana allora assalta il Topo, e il prende Per l'elmo, e il tragge a viva forza al lago; E' che notar non sa, la morte attende, E spettacolo a noi dà vario e vago. La nostra armata allor nulla si offende, E l'altrui serve a noi di bella imago Dello sdegno del Ciel, che affoga il reo, E a posteri ne lascio il gran trofeo.
55. Disse, e approvar le Rane il suo pensiero, Ed ecco all'armi, all'armi il campo esclama. Della tromba di Marte il suon guerriero Stride, e il furor nelle alme lor richiama. Voi, Muse, che ascoltaste il caso intero, (E dove mai non giunse allor la fama?) Voi l'armi lor mi suggerite intanto, Che l'ira atroce de' Ranocchi io canto,
56. Di malva in pria le gambe e i piè coprire, Perchè leggier fosse il coturno al corso; Di verdi biete il petto indi vestito, Che l'usbergo alle offese è un gran soccorso. Quindi il cavolo avvolto in ampio giro Servì di scudo al petto, al ventre, al dorso. L'acuto giunco all'asta, e al capo altero La chiocciola servì d'alto cimiero.
57. Così ne vanno armati, e in loro usanza S'imboscan del pantano in sulle sponde. Ebbri quivi d'orgoglio e di speranza Attendon l'oste a strascinarla all'onde. Guarda dal Ciel tal guerra, e tal baldanza Il sommo Giove, a cui nulla si asconde, E chiama i Numi alla sua Reggia, e scioglie La lingua, e parla dall'empiree soglie.
58. Che guerra, o Numi, e che conflitto orrendo Si apparecchia da'Sorci, e dalle Rane! Odo il romor, e il calpestio tremendo, Veggio le schiere armate, e l'alme insano. Che aste, che scudi, o Dei? Ciarle non vendo, Nè son le mie parole o false, o vane. Tal de'Centauri, e de'Giganti un giorno Ne gìa lo stuol del mio gran Nume a scorno.
59. Disse, e sorrise il Genitor de' Numi, Nel rimembrar quel memorando esempio, Che finchè han luce gli astri, e corso i fiumi, Serve l'audacia a raffrenar dell'empio. Quindi volti a Minerva i suoi be' lumi, Figlia, le dice, or sai, che al tuo bel Tempio Giugner può l'ira del gran campo, e allora Non più nel mondo il nume tuo si adora?
60. Nelle guerre mortali i Sommi Dei Seguon di questo, o quel l'alto partito, E sempre i vinti son gl'ingiusti e i rei, E il vincitor è al mondo, e al ciel gradito Qual vi aggrada ajutar, saper vorrei; La Rana paludosa, o il Topo ardito? E te, Palla, che fai? Se' tuoi divoti Adempi le speranze, e appaga i voti.
61. Pur son tuoi i Sorci, e notte e giorno Saltan nel Tempio tuo. Nel sacro altare, Che di vittime elette è sempre adorno, Menan danze e carole, e vaghe, e rare. Vanno all'ostie fumanti ognor d'intorno, Nè son de'Preti tuoi le destre avare. Del Nume tuo Ministri anch'essi sono, E tu lor nieghi il tuo soccorso in dono?
62. Or Palla senza culla, e senza madre, Che nacque con lo scudo e l'asta in braccio, Dal cervello di Giove, o mio gran Padre. Disse, col reo pensier da me discaccio. Io de'Topi ajutar l'ardenti squadre, Che vorrei tutti strangolati a un laccio? De'sorci io protettrice? Ah tu non sai Gl'insulti, che mi han fatto, e quanti, e quai.
63. Corona io più non ho, che da' lor denti Non sia corrosa, e sfrantumata, e lorda; Nè mai poss'io veder lucerne ardenti, Che il ghiotto Topo o non rivolga, o morda! Le sacre fiamme allor disperse a'venti, Tutto l'olio si bee la razza ingorda. Fra l'orror della notte allor si resta La gonna mia confusa; e la mia testa.
64. Ma quel che più mi accende in cor la bile, E' il santo peplo mio da'rei bucato. Di trama il feci e stame assai sottile, Era mia quella tela, e quel filato. Il Sarto, a cui la diedi, avaro e vile, Perch'io nel tempo suo non gli ho pagato Il suo risarcimento, or vuol l'usura, E questo accresce, oimè, la mia sventura.
65. Or quelle robe, ond'in poi feci il velo Non ho da dar a chi me l'ha prestate, E resto esposta al caldo, esposta al gelo, Nel pigro inverno, e nella lenta estate. E tu, Dio della terra; e Re del cielo, Vuoi, ch'io renda soccorso a genti ingrate? Ah non abbian più forza, e più consiglio, Vadan di Pluto al tenebroso esiglio.
66. Nè creder poi, che delle Rane io vegna Con l'asta, e con lo scudo a far difesa. Ah razza maledetta, ah razza indegra, Che cangia mentre allor, che cangia impresa! E che con queste ree non mai si sdegna, Se a tutti danno oltraggio, e fanno offesa? Obblio de'mali è il sonno, e questo obblio Sempre turba il Ranocchio avverso e rio.
67. Ah mel rammento (e oh rimembranza!) allora, Che dal campo tornai stanca e dolente, Cercando il sonno, che ogni cor ristora, E l'alma rinnovella egra e languente! E venne il sonno; ma sen venne ancora La Rana rigogliosa e irriverente, E tanto chiasso fe, ch'io non potei Chiudere al dolce obblio questi occhi miei.
68. Scorsa era ormai la notte, e il bruno ammanto Incominciava a ricomporsi al seno, Quando inquieta udii del gallo il canto, E vidi all'Oriente il ciel sereno. Mi volgo, e mi rivolgo, e il capo intanto Privo è di sonno, e di dolor è pieno. Alfin mi alzo del suolo, e sì stordita Deggio tutto quel di passar la vita.
69. Ma perchè dobbiam noi, Numi immortali, Lasciare il Ciel, e rilegarci in terra? Soffran le genti ree quegli aspri mali, A cui gli astringe il cor, che ignora, od erra, Nascon, Padre, lo sai, gli egri mortali A sostener mai sempre o lite, o guerra. Moto è la vita, e senza moto alfine Ricade il mondo nelle sue ruine.
70. Non ti ricorda allor, che il Frigio, e il Greco Per Elena pugnar per ben dieci anni, Ch'io fui ferita? E la ferita io reco, Aspra memoria de'miei lunghi affanni. Pugnò l'Olimpo ancor, e al grido, e all'eco La fama aprì le cento bocche, e i vanni. Ah Troja cadde alfine, e il Cielo allora Poco mancò, che non cadesse ancora.
71. Enea me trasse dall'ardente foco, Ed io n'andai con lui per terre e mari. Or che mi ha fatto un Tempio in altro loco, Non vo tentar i fati acerbi e amari. Sia la guerra del mondo a noi di gioco, Salvi siam noi da'colpi spessi, o rari Sia Teatro la terra, e d'ogni pena. De'mortali facciam la nostra scena.
72. Così parlò Minerva, e saggio, e giusto Parve il suo ragionar al sommo Giove. Il Senato de' Numi e santo e augusto Vuol, che la guerra almen da lui si approve; Altrimenti un conflitto è sempre ingiusto, Ove il Ciel non applauda, e non rimuove I patti della guerra. E già fermato Il gran consiglio, il sottoscrisse il Fato.
73. Quindi raccolti in loco i Dei n'andaro, Onde la pugna si vedea distinta. Ma già si avvicinava il tempo amaro, E ogn'alma si era alla tenzone accinta, Ecco intanto due Araldi in gesto raro Venir con asta di atro sangue intinta; Questi intiman la pugna, è a questo segno Ecco l'ira di Marte, ecco lo sdegno.
74. Intanto le Zanzare al suon di tromba Van ripetendo il segno al campo ostile, E l'uno e l'altro polo allor rimbomba, E l'ode il Gange, e il Tago, e Battro, e Tile Freme il mar, urla il suol, l'etra arde e romba, A chi vien lo spavento, a chi la bile; E l'Eco, che ribatte i bronzi e i marmi, Non cessa di gridar; all'armi, all'armi.
75. Marcian le Schiere armate, e in alta fronte Vanno I Topi a incontrar l'oste nemica. Lesta è a'colpi la man, la lingua all'onte, E l'alma attenta a la crudel fatica. Freme intanto ogni nube, e il lago, e il monte Ripete il suono alla campagna aprica. Giove dà il segno dell'attacco, e scende L'ira del Ciel, che le battaglie accende.
76. Ecco a fronte le truppe, e al primo assalto Issibonde a Lichenor si avventa. Vibra l'asta ferale allor dall'alto, E al fegato nel ventre il colpo intenta, In due gliel parte, e spicca audace il salto, Lieto del colpo; e que'la mano rallenta, Cade boccon sul suolo, e in sozza polve La gentil chioma sua s'imbratta e involve.
77. Ma vibra l'asta Troglodite, e forte L'immerge a Peleone in mezzo al core. Cade il meschino, e nell'acerba morte Spiega appena il suo duolo, e il suo furore. Già fugge l'alma, e di Pluton le porte L'apron in preda de'cani, e degli augelli, Renda al fango natio l'ossa e le pelli.
78. Ecco il fiero Seutleo, che il cor trafigge D'Embasichitro, e questi al suol si giace. Artofago la lancia al ventre figge Di Polifon, che al suo morir si tace. Vola l'alma dal busto, e vanne a Stige, Ov'è dell'ombre il Regnator fallace. Limmocaro, che trarsi a morte il mira, Sente acceso il suo cor di sdegno e d'ira.
79. Di mola in guisa e' prende un sasso, e il vibra Di Troglodite alla cervice altera. Questi piomba stordito, e il cor si sfibra, E i lumi ingombra oscura nube e nera. Un colpo allor coll'asta al cor gli libra, Che il manda tosto di sua vita a sera; E dal letargo suo giunge alle porte Dall'Orco, e neppur sa, cosa è la morte.
80. Crambofago a tal vista il cor da tema Sente percosso, e in mesti omei si strugge. E' corre per le rivem e suda, e trema, Che il pensier della morte il cor gli adugge; Ma invan del suo destino all'ora estrema Precipita nel fondo; e invano e' fugge Il suo nemico, che l'incalza, e il fiede Sì, che a saltar sul lido e'più non riede.
81. Ma torna afflitto il corpo allor sul lito A far del sangue suo l'onda vermiglia. Ecco il Lago purpureo e colorito, Spettacol vago ad inarcare le ciglia. L'infelice galleggia, e il ventre empito Dall'erba, che inghiotti, si sgrava e figlia. D'intestini e di sangue il Lago è tinto, E giace in riva il cavaliere estinto.
82. Limnesio intanto vien dalla palude A vendicar del socio suo le spoglie; E colmo di bravura e di virtude A Tiroglifo i rai del dì già coglie. Questi trafitto esala l'alma, e chiude I lumi al pianto, e il cor all'aspre doglie; Or son nulla per lui, che giace al suolo, La speranza e il timor, la gioja e il duolo.
83. Ma Pternoglifo arriva, e allor che scorge Calamintio venir dall'altra banda; Colla sua destra un colpo tal gli porge, Che tosto in fuga a tutta briglia il manda. Fugge questi nel lago, e non si accorge, Se il nemico l'insegue, e non dimanda; Gitta lo scudo, e trova il suo riposo Nell'onde, ov'e'si giace ancor nascoso.
84. Pternofago, che va col serto al crine, Col brando al fianco, e collo scettro in mano, In un sasso incontrò le sue ruine, Ond'ebbe rotto il gozzo, e cadde al piano. Idrocaro il vibrò, che gonfio alfine Ne va, come uccisor d'un Re sovrano, Dal cui naso distilla il suo cervello, E se ne imbratta il suol, pria verde e bello.
85. Leccopinago la sua lancia acuta del buon Borborocere al fianco immerge. Giace il corpo nel fango, e l'alma muta Fugge, e d'umor Lateo tutta si asperge. Prassofago, che i porri ormai non fiuta, Gnissodiotte pel piè tragge, e sommerge Nell'onde, e il collo sì gli afferra, e il tiene, Che affogato si giaccia in sulle arene.
86. Era nel campo altro Sicarpo, e questi Nel nome, e nel valor divenne erede Di que' che chiuse al lago i dì funesti. E' giura, e serba la giurata fede Di vendicar de'Topi i torti infesti, E trar le Rane alla tartarea sede. E il dice, e il fa; ch'e'di Pelasio il petto Trafigge, e il cor gli strappa a suo dispetto.
87. Fugge l'alma sdegnosa, e all'ombre in braccia Cade di Stige a soggiornar nel Regno. Pelobate l'osserva, e il loto in faccia Sparse al nemico, ed accecò l'indegno. Ma questi colla destra un sasso imbraccia, Che al suol giaceva, e d'implacabil sdegno Ardendo, a Pelobate il vibra, e al piano Vanne la gamba destra a brano a brano.
88. A tal tragedia Crangaside è pieno Di dolor, di pietà, d'aspra vendetta. Ecco che scioglie al grave sdegno il freno, E a vendicarsi del fellon si affretta. Vibra il suo giunco acuto, e il figge al seno Di Sicarpo, e trafitto al suol lo getta; Poi trae del sen la lancia, e sparse, ahi duolo! Van le viscere estratte in mezzo al suolo.
89. Sitofago, che più del grano ha voglia, Che della gloria militar, dal campo Zoppicando sen fugge, e il cor non spoglia D'ogni timor del periglioso inciampo. E fugge, e trema, come verde foglia; E benchè si ritrova asilo e scampo In un gran fosso, ivi l'idea lo preme Del periglio che schifa, e spera, e teme.
90. Ma si avvicina ormai del reo periglio L'ora fatale, e della rea tenzone. Trossarto incontra l'uccisor del figlio, E ferma, esclama, ah ferma, o reo fellone. Volgi, se forte sei, volgi il tuo ciglio, Vieni, e pugna con me, se sei campione. Disse, e l'asta vibrò; ma il colpo giunse Nella punta del piede, e appena il punse,
91. Fisignato alla fuga il piè rivolse, E semivivo, e sbalordito al fondo Si attuffò nel pantano, e il corpo avvolse Sì, che accorto l'ascose a tutto il mondo. Mira Trossarto, che non ben lo colse Il colpo, e infellonito, e furibondo L'incalza, e va nel lago, e brama almeno D'accompagnarlo all'Acheronte in seno.
92. Mira il suo Re Prasseo nel gran cimento, E vuol trarlo, se può, dal fier nemico. Già va tra i primi, e vibra il giunco al vento, E n'empie del fracasso il lago aprico. Ma il suo colpo sol dà tema e spavento, E lascia i combattenti in quell'intrico; Batte l'asta lo scudo, e nella punta Ripercossa, sul suol si piega e spunta.
93. Mentre del campo è dubbia ancor la sorte, Nè si diciara il Ciel: ecco si vede Venir Meridarpago, audace e forte, Del bravo Artepibul figlio ed erede. E' che brava il destin, sprezza la morte, Senza Dio, senza legge, e senza fede, A lancia corta pugna, e nelle membra, E nel valor dell'armi il Dio rassembra.
94. Fra le schiere de'Topi e'sol si vanta, C'ha sovrano valor, c'ha gran coraggio; Dice, che il Regno delle Rane e' spianta, Pria che vada nel mar di Febo il raggio, Del Lago in riva e' tosto allor si pianta, E già si accinge al minacciato oltraggio; Stende il braccio alla pugna, il labbro all'onte, E così parla con superba fronte.
95. Venite, o Rane imbelli, in queste sponde A provar del mio brando il colpo altero. Qual reo timor in quel pantan vi asconde, Di cui vantare indarno il sommo impero? Sorgete. o Rane imbelli, ormai dall'onde, Venite tutte innanzi a un sol guerriero: Io solo alla tenzon vi sfido, io solo Vol farvi polve ed ombra in questo suolo.
96. Disse, e l'intese il Dio, che il mondo regge, E aggira il tutto all'aggirar del ciglio. E' che alle Rane ancor dà norma e legge, Vorria salvarle alfin col suo consiglio. Già guarda il fiero Duce, e guarda il gregge Della palude esposto al gran periglio, E scrolla il capo, e volge intorno i numi, Mentre così favella a'sommi Numi.
97. Poffar del Mondo! E che battaglia è questa Non vista, e non udita? Il Prence audace Meridarpago il campo assorda e infesta, E ruota del furor l'ardente face. Ah l'alma mia non regge a tal funesta Tragedia, che il pantan distrugge e sface. Va, Palla, e Marte, e salva il buon drappello Dallo sdegno feral di quel rubello.
98. Ei minaccia di sfar la razza intera Delle Ranocchie, e spopolar quel Lago. Pugni il mondo; ma tutto al fin non pera, Tal che ne resti in ciel la vota imago. Sia la gente nemica, e sia guerriera; Pugni in cima del Tauro, o in riva al Tago; Ma non sì, che si strugga, e io perdi allora Chi qual suo Nume, e qual suo Re mi adora.
99. Lo so pur io, che senza lite e guerra Cessa il Dio, cessa il Re, la legge, e l'armi, E nell'ozio mortal langue la terra, Restando nella polve i bronzi, e i marmi. ma se non vive il Mondo, e se non erra, Di chi son Nume e Re; Chi voti e carmi Mi offre; Ah basta così. Miei figli, andate, E soccorso alle Rane omai recate.
100. Così Giove parlò. Ma Marte a'detti Sciolse la lingua, e sì gli disse: o Padre, E qual soccorso ormai da noi ti aspetti, Che vaglia a ristorar le afflitte squadre? Non basto io, no, nè Palla, i truci aspetti De Topi a rintuzzar; nè l'alme ladre, E inferocite a mitigare a segno, Che cessi l'ira in lor, cessi lo sdegno.
101. O scendiam tutti i Dei nel campo aprico, A sollevar le Rane oppresse e dome; O pur col fulmin tuo lo stuol nemico Atterra, e sol di lui ne resti il nome. Tu così deprimesti al tempo antico De'rei Giganti le superbe chiome; E imprigionasti l'insensato orgoglio, Che minacciò di torti e vita e soglio.
102. Ecco Encelado là, che fuma, e romba, E romper tenta invan le sue catene, Dov'è, dov'è, Tifeo; L'asta, e la tromba. Giaccion sepolte fra le sparse arene. Or a tal fama, che alto in Ciel rimbomba, Tal'altra aggiungi. Alta le mani, e piene Di fiamme, le saetta, e al tuono, e al lampo Vedrai da Topi abbandonato il campo.
103. Disse il Nume dell'armi; e l'igneo telo Giove scagliò colla sua man rovente. Tuona, e da'cardin suoi traballa il Cielo, E va precipitoso il dardo ardente. Trema la Rana e il Topo, e il cor di gielo S'indura, e di timor si empie la mente; E crede ognun di Giove al lampo e al tuono, Ch'egli ha l'impero in terra, e in cielo il trono.
104. Ma del Sorce non cessa ancor la voglia Di trar le Rane nell'estremo affanno; E va membrando l'ira, e l'aspra doglia Del crudo scempio, e dell'infame inganno Il Nume allor, che dall'empirea soglia Il tutto vede e ascolta, all'alto danno Vuol dar riparo; e già spedisce in terra Gli Ausiliarj a terminar la guerra.
105. Ecco in campo i Campioni. Han questi il dorso D'incudi a guisa, e l'unghie curve e forti; Han due tanaglie in bocca a farne il morso Aspro e arrabbiato, e i piedi a sghembo e storti; Hanno otto gambe, e pur son tardi al corso; Essi han due teste, e non son saggi e accorti; Son senza mani, e son rapaci; e in petto Han gli occhi, e nelle spalle hanno l'aspetto.
106. Son balbi e tendinosi, ed han la schiena Luccicante, e le spalle e larghe e dure. Questi Granchj son detti, e sull'arena Van de'Topi a fiaccar l'altra bravura. D'orgoglio l'alma loro, e sdegno è piena, D'ogni periglio, e di ogni mal sicura. Ed ecco in pria de'Topi andar sul piano, Tagliati in pezzi, e piede, e coda, e mano.
107. All'assalto improvviso il Topo ardito Si volse, e intima lor guerra e battaglia. Accetta il Granchio il temerario invito, E que' la lancia tosto al sen gli scaglia. Ma si ammacca la lancia; e allor stordito Messi del Ciel gli crede, e non la sbaglia Il Sorce spaventato, e tosto il piede Sprona alla fuga, e al campo più non riede.
108. Febo intanto sbrigliava i suoi destrieri, E sepellia nell'onde i raggi suoi. E' mirò con piacer gli alti Guerrieri, Dacchè spuntò col dì da'lidi Eoi. Or che ha corsi del Ciel tutti i sentieri, Di Teti in casa attende i sommi Eroi Alla cena, al riposo, al dolce obblio, Che la Guerra in un dì nacque e morìo.
I L F I N E