L'ULTIMA PRIGIONIA DI ANTONIO JEROCADES
di Pasquale Russo
UNA VITA ESAUSTA L'abate Jerocades non aveva la vocazione al martirio e tuttavia la sua vita inquieta è stata vissuta nella lotta, una opposizione ideologica contro i potenti e una tuonante avversione al mondo clericale. Il terremoto del Capo, questa operetta indiavolata, come la definisce Tigani Sava, ci dà la misura di quanti fossero i suoi nemici, ma anche di quanto egli sapesse usare la lingua e la parola per colpire, offendere, insultare. La parola fu la grande arma che Jerocades usò per illuminare le menti, per eccitare i cuori, per aggredire chi lo contrastava, per lottare i suoi numerosi nemici. Dotato di grande facilità di parola, scriveva e verseggiava con facilità e spesso dava alle stampe i suoi scritti senza rileggerli. L'ultima prigionia a Tropea, nella casa dei Redentoristi, fa pensare a Daniele nella fossa dei leoni. Ma l'accostamento biblico ci richiama anche altri protagonisti calabresi di utopie religiose e politiche: penso a Gioacchino da Fiore, a Tommaso Campanella, profeti perseguitati per i loro sogni di libertà. Con uno spessore certamente diverso, ma con un'ansia di fondo che ha una matrice comune nella natura rivoluzionaria del cristianesimo. Credo sia opportuna una riflessione sulla condizione ecclesiastica di Antonio Jerocades e sulla sua formazione, perchè ci consente di cogliere elementi di approfondimento in lui come anche nelle figure più rilevanti del giansenismo, del protestantesimo, del giacobinismo, della massoneria: tutti più o meno di provenienza culturale e ambientale non solo cattolica, ma specificamente ecclesiastica (si pensi a Salvi, Aracri, Serrao, Padula, Angherà, Nudi o altri meno noti). Il valore culturale, etico, sociale di queste personalità e della loro opera in Calabria e fuori, osserva Maria Mariotti, e stato messo in rilievo da studi seri ed accurati, "che tuttavia non sempre superano del tutto la tendenza ad interpretare illuministicamente l'aspetto contestativo soprattutto in chiave di apertura alle novità, al progresso contro l'ignoranza, l'arretratezza, il bigottismo degli ambienti ecclesiastici. Pare sia più maturo un ripensamento, almeno su alcune complesse personalità: anche per capire meglio il dramma umano, religioso, morale di questi uomini, spesso condizionati dal disagio di una vocazione non autentica, talora esasperati da situazioni realmente invivibili; e per cogliere, al di qua dell'asprezza delle manifestazioni, la radice autenticamente cristiana e cattolica di certe esigenze e critiche, nello spirito in cui oggi leggiamo e accettiamo i rilievi al loro tempo sospetti, di Ludovico Antonio Muratori sulla Regolata devozione dei cristiani, di Antonio Rosmini su Le cinque piaghe della chiesa." Penso che, leggendo l'ancora inedita Orazione per l'apertura della Scuola di Economia e Commercio nell'Università di Napoli, detta da Antonio Jerocades, questa riflessione si riveli quanto mai opportuna. Egli, rievocando gli anni della giovinezza, ricorda: "... Nato in un ignoto villaggio dell'estrema Calabria da parenti oscurissimi, applicati alla pesca, alla navigazione, al commercio, respirai le prime aure di vita, tra i remi e le reti, nè mi sentia fremer d'intorno di altro il linguaggio che del dolore, dell'opera, della fatica, i tre compagni primieri de' dolenti, operosi e travagliati mortali, nè di altre immagini la mia mente bambina poteva ricolmarsi giammai, che di povertà libera e di libertà bisognosa... piacque a mio padre di ascrivermi tra l'ordine clericale e gà cominciai pur io, e ben per tempo, a menar la vita tra i Salmi e gli Inni, imparando, ed insegnando ogni giorno le Christiane dottrine... Chiuso il Seminario vidi e conobbi i primi elementi dell'umano e divino sapere, e mosso dalla fama del Martorelli e del Genovesi venni a Napoli ad ammirare quei due valenti e in filologia e in filosofia, e con essi loro mi strinsi in familiare e soave amicizia." E' altrettanto importante annotare che la preoccupazione per il seminario rappresenta per i vescovi calabresi nella seconda metà del '700 la volenterosa disponibilità di attuare una delle poche veramente innovative prescrizioni tridentine. Ma in realtà molti seminari furono semplici convitti, che potevano influire su una percentuale ristretta del clero, in quanto spesso surrogavano i collegi per i laici, mentre i chierici in genere erano formati con un'infarinatura di morale e di cerimonie dai parroci di campagna. Una circolare del 3.XI.1802 per la diocesi di Tropea ritiene validi 10 giorni di ritiro come preparazione all'ordinazione sacerdotale di coloro che erano stati presentati dai parroci. Si trattava di una preparazione intensiva, che era tutto ed era poco! Il clero che proveniva dai seminari invece si qualificò più per gli aspetti culturali che per quelli pastorali. Per molti lo stato ecclesiastico rappresentava soltanto una carriera ambita. In un ambito di cristianità il prete era il notabile, circondato da uno steccato di privilegi. La vocazione era pertanto nella linea delle pressioni sociali. Moltissimi erano i preti al di fuori di ogni quadro pastorale: gli abati oziosi, i preti altaristi, i pedagoghi, gli eruditi, i commercianti, i sensali, i selvaggi, i preti coniugati, gli eremiti. I sinodi sono pieni di richiami agli abusi di questo clero che, privo di forti ideali, dopo aver "strapazzato" la messa e l'ufficio, si dava all'ozio, agli spettacoli, al cicisbeismo. Del resto va notato che il Concilio di Trento aveva obbligato i vescovi a fondare i seminari, non i candidati agli ordini ad entrarvi. La cura animarum suprema lex era molto disattesa, pur essendo un principio fondamentale del Tridentino che aveva posto come capisaldi della vita diocesana le visite pastorali, i sinodi e i seminari. Ma anche i sinodi nel '700 diventano sempre più radi: a Tropea l'ultimo sinodo celebrato è stato di Ibanez nel 1702: nessun altro sinodo verrà celebrato nel corso del settecento e fino al vescovo Vaccari nel 1883. La preoccupazione per il seminario appare sempre viva e addirittura appare quasi ossessiva in un vescovo latitante come Gerardo Gregorio Mele nella corrispondenza col suo vicario don A. Meligrana. Questo vescovo fu l'ultimo a reggere la diocesi di Tropea prima della sua unione con Nicotera nel 1818. Durante il suo episcopato avvennero fenomeni che hanno cambiato il corso della storia, ma egli riuscì (e non fu per nulla il solo!) a rimanere fermamente legato alla tradizione; durante il suo episcopato morì a Tropea Antonio Jerocades. Sugli anni compresi tra il 1799 e il 1803 sembra prevalere un grande silenzio su Jerocades nei documenti vescovili o comunque tropeani. Mentre il Martuscelli, primo biografo del Jerocades, ci riporta con alquanta dovizia di particolari l'ultimo periodo di vita dell'abate (cfr. Accatatis, Uomini illustri della Calabria, vol. III, p. 181 e ss, Cosenza, 1877), le notizie che abbiamo di lui dai contemporanei locali sono molto scarne e tendenziose (Vito Capialbi, Memorie per servire alla storia della santa chiesa tropeana, Napoli, 1852; Michele Paladini, Notizie storiche sulla città di Tropea, Catania 1930 - ed. anastatica a cura di S. Di Bella). Quasi irreperibili nell'archivio vescovile di Tropea. Quello che ci lascia interdetti è la mancanza di fonti 'tropeane', degli uomini di cultura suoi contemporanei o quasi: Galluppi, ad esempio, o Politi, o Scrugli, o Melograni... Gli archivi locali, sia quelli ecclesiastici che quelli privati, sono molto avari di notizie. Nell'archivio vescovile di Tropea è assente il suo nome, se si eccettua un documento di dispensa dall'età canonica per l'ordinazione sacerdotale e di annotazioni sulla sua assenza da Parghelia nelle visite pastorali: 20.03.1784 - Visita Paù: nell'elenco dei preti di Parghelia manca Jerocades; 17.03.1794 - Visita Monteforte: adsunt extra patriam... D. A. Jerocadi; 09.09.1795 - Visita Monforte: absens...: A. Jerocadi; 05.05.1799 - Visita Mele: D. Antonius Jerocadi absens. Negli archivi privati si è trovata qualche piccola traccia del suo passaggio nell'archivio Meligrana di Parghelia: una lettera di Vito Capialbi, datata Monteleone 8 Nov. 1837 a Don Giuseppe Meligrana ricorda che "le cose di Jerocades [per lui trascritte] non sono che ordinarissime composizioni, ma di un autore così celebre ogni cosuccia è buona". E più avanti ricorda ancora di aver avuto in regalo dal nipote di Jerocades (Raffaele) "un autografo in francese e in italiano di suo zio". Da Parghelia, attraverso don G. Meligrana, Vito Capialbi ha avuto molti testi di Jerocades, che dice di conservare nella sua biblioteca (Cfr. Memorie, cit.). L'archivio più fornito dovrebbe essere quello dei Jerocades-Colace che allo stato attuale risulta pittosto disperso, diversamente da come era stato rilevato da Tigani Sava nel 1977, relativamente alla produzione di Jerocades (Cfr. il contributo bibliografico più completo - pur se con qualche piccola carenza - di Francesco Tagani Sava in La Calabria dalle riforme alla restaurazione, S. E. Meridionale, 1981, pp. 635-713). Il silenzio delle fonti tropeane del periodo che corrisponde agli ultimi anni di vita di Jerocades sta ad indicare la sua emarginazione, dovuta a una avversione profonda, soprattutto da parte del clero tropeano, che, nel Terremoto del Capo, era stato oggetto di derisione e di gravi accuse di immoralità, ma anche del mondo laico che non condivideva le idee giacobine dell'abate, anche se alle logge massoniche da lui fondate, o che, come dice Gaetano Cingari, certamente influenzò, a Parghelia e a Tropea, in molti avevano dato la loro adesione. Tanto meno fanno menzione di lui gli accademici degli Affaticati. Jerocades viene ignorato, sia perchè è scomodo, sia perchè è ostile e pericoloso politicamente, sia infine perchè ha usato la parola come arma che ha colpito duramente. Forse non e esagerato pensare che si aspettava il momento giusto per presentargli il conto.
LA SOLITUDINE DELLA MORTE Il Martuscelli racconta con dovizia di particolari gli ultimi anni della vita di Antonio Jerocades e la sua morte. "Nel 1799 fu mandato in Francia", egli scrive: in realtà, più precisamente, fu esiliato con altri 500, mentre Colace e Mazzitelli erano stati uccisi. Il Jerocades figura tra gli esiliati a Marsiglia per i fatti del 1799 e, nell'elenco dei condannati dalla Suprema Giunta di Stato, si fa anche una descrizione fisica dell'abate. A Marsiglia scrive tra l'altro l'orazione funebre per Vincenzo suo fratello. Nel mese di agosto 1801, dopo la pace di Firenze, rientra in Italia a Civitavecchia con la nave e da lì a Roma dove 'si ammalò mortalmente'; riavutosi andò a Napoli e da lì giunse a Parghelia il 4 Novembre 1801. Dopo dieci mesi (settembre 1802) "fu mandato nella casa del PP. Liguorini di Tropea, e dissesi che ciò fu per correggerlo di quanto avea scritto nell'elogio funebre di suo fratello Vincenzo", denunziato da Giuseppe Costanzo per vilipendio in quanto nella detta orazione aveva parlato male del cardinale Ruffo. L'ordine era di tenerlo segregato. E all'inizio l'abate "viveva nella quiete", scrive il Paladini, che fu testimone oculare della sua prigionia; il quale aggiunge che, cominciando (il Jerocades) al suo solito a satirizzare, perdè la confidenza dei religiosi". In realtà la situazione appare più complessa, come risulta dalla lettera del P. Giacomo Migliaccio, successore del Pappaona, inviata al vescovo Gerardo Gregorio Mele il 3 agosto 1803, e conservata a Tropea nell'archivio Toraldo Di Francia:
Ecc. Rev.ma con ven.ta carta del dì 21 del passato giugno V. E. Rev.ma partecipò al mio antecessore che il sig. Preside della Provincia, col parere del sig. Av.to F.te D. Luigi Calenda le avea scritto che il superiore di questa casa, quante volte i medici ne conoscano la necessità, potrà far uscire a camminare il sac. D. Antonio Jerocadi di Reale ordine qui detenuto, in compagnia degli individui di questa Comunità. E' il detto mio antecessore subito, con più di buon core che di considerazione, le risposte che avrebb'eseguiti gli ordini. Ora io mi dò l'onore di rappresentarle, che essendo nei principi del passato luglio venuto da quella di Catanzaro a governar questa Casa, ho trovato che non si era potuto eseguire quanto di buon cuore si era mostrato di voler eseguire; imperciocchè essendo qui una piccola Comunità, e vivendosi, come si vive tra noi, ritirati nelle proprie stanze, ci parliamo un poco dopo pranzo e dopo cena; e quando poi si esce un po' a camminare, ch'è un par di volte la settimana, allora ci comunichiamo insieme i nostri sentimenti o il nostro approfittamento nelle lettere, o nello spirito; e sarebbe anzi una noia uscire in compagnia di persona, con cui non si ha confidenza. Ma questo è poco. I Reali ordini rispetto al predetto sacerdote sono di non farlo uscire, nè trattare con nessuno; e di ciò il Sig. Ud.re Perrotta ne volle firmato un obbligo dal passato Superiore. Ormai il Sig. Preside dice: quante volte i medici conoscano la necessità di farlo uscire, il superiore potrà permetterlo, ma in compagnia degl'individui di casa. Resterebbe dunque a carico del superiore la verità della cognizione dei Medici, e la necessità del Jerocadi. Cotesta risponsabilità non si vuol'aver'affatto. Risponderà ogn'individuo della propria condotta; ma non potrà rispondere di quella degli altri. Il superiore passato non dovea pur firmare quell'obbligo; ch'egli non era fatto castellano nè carceriere. La M.S. si confidava della di lui religione; ed egli, ed ogni successore si facea un pregio di custodirlo, e di rappresentare subito ogni trasgressione, che mai ci fossa stata. Per le quali ragioni, e per altre, che non è necessario di esporre, non è eseguibile di farlo uscire in compagnia degl'individui di casa. All'incontro il Jerocadi fa delle premure presso di me, rappresentando i suoi mali, e 'l male dei mali, ch'è la sua vecchiaia, o amara decrepitezza. Ma io non vedo altra via da poter'esser'abilitato, se non che, se il Sig. Preside, per compassione dei mali di questo infelice, si assicuri egli della cognizione dei medici e delle necessità del Jerocadei, e così lo abiliti a uscire a camminare in compagnia di altro sacerdote secolare ben visto all'E.V.Rev:ma. E pien di rispetto le bacio le sacre mani, e chiedo la paterna benedizione. Collegio di Tropea 3 Agosto 1803
U.mo e obblg.mo servitor vero e suddito Giacomo Migliaccio del S.mo Red.re
Di V.E.Rev.ma Mons. Mele Vescovo di Tropea
"In quel soggiorno - scrive ancora il Martuscelli - molto si indebolì la sua salute - pur nondimeno scrisse molte cantate, sonetti, molte orazioni sacre, novene di alcuni santi, tradusse il salterio. Finalmente logoro dai disagi e dalla improba applicazione allo studio munito dei santi sacramenti nei sensi della vera pietà rese l'anima a Dio... Da colà fu il suo corpo trasportato nella patria, e depositato nella sepoltura dei sacerdoti". Muore il 19 Nov. 1803 e non il 18 nov. 1805 come scrive il Martuscelli e dopo di lui tutti gli studiosi di Jerocades. L'atto di morte si conserva nel registro della parrocchia di S. Demetrio di Tropea ed è stato trascritto anche in quello della parrocchia di Parghelia. Li riporto entrambi, oltre che per precisare e definire la data di morte, anche per farvi notare delle coincidenze e delle differenze:
Anno 1803 - Parghelia - Parrocchia di S. Andrea Apostolo Atto di morte Rev. Sacerdos D. Antonius Jerocades, annum sextum ac sexagesimum cum attigisset, sacramentis opportunis rite munitus, die decima nona dicti novembris obiit Tropeae, in domo Patrum SS.mi Redemptoris; cuius cadaver in hoc casale delatum in Eccl.ia Archipresbiterali S. Andreae Ap.li in sepultura sacerdotum tumulatum fuit. A. arch. Taccone
TROPEA - Parrocchia di S. Demetrio - Anno 1803 Atto di morte Sacerdos Antonius Jerocades casalis Pargheliae hujus Diocesis utriusque juris atque sac. Theologiae Doctor. Professor publicus in Universitate Neapolis, sexaginta quatuor fere annis natus, munitus sacramentis poenitentiae et Eucharistiae postea subita morte peremptus, animam exspiravit, eiusque cadaver in ecclesia archipresbiterali casalis Pargheliae tumulatum fuit. Franciscus Antonius Grillo
Vito Capialbi, precisando che Jerocades fu sacerdote, che "dopo varie, che diresti romanzesche vicissitudini, involuto nelle tristissime vicende dal 1793 al 1799, e fino al 1802 andonne ramingo in Francia, ed in altri Regni d'Europa; e già era rientrato nella patria in seguito del trattato di Firenze del 1802. Finalmente, stando nella casa de' PP del SS. Redentore di Tropea, morissi ai 18 novembre 1805". Per concludere che "più copiose notizie di questo vasto, e stravagante ingegno si riferiranno nelle nostre Centurie degli scrittori calabresi". Di questo periodo della vita esausta dell'abate Jerocades sono state dette certamente delle esagerazioni (il tetro carcere - la cella - le punizioni - le torture... il veleno - cfr Didier), non suffragate da alcuna documentazione, ma solo ampiando voci e dicerie, ma tante altre cose sono state taciute. Stupisce però che il vescovo Mele, nella visita ad limina del 1804, presenti una visione idilliaca del clero e della diocesi, mentre nella visita pastorale del 1808 e in altri documenti conservati nell'Archivio storico di Tropea tuoni contro la disobbedienza e l'ingovernabilità del clero e contro l'immoralità dilagante: nessuna nota abbiamo potuto rintracciare relativa al caso Jerocades, tranne tracce indirette nell'Archivio Meligrana di Parghelia e la lettera del P. Migliaccio al vescovo Mele... Nell'archivio dei PP Redentoristi della casa provinciale spero possa essere trovato del materiale documentario che già lascia intravvedere il P. Giuseppe Orlandi, storico dell'ordine, il quale in Specimen Historicum CSSR-A.XLII.1994.FI "I Redentoristi napoletani tra ricoluzione e restaurazione" dedica pagine interessanti all'abate Jerocades. Era comune che le autorità inviassero dei condannati al soggiorno abbligato a scontare la loro pena in qualcuna delle case della Congregazione. "Per quelle calabresi - scrive Orlandi - si trattava di un compito assegnatogli dal dispaccio regio del 22 marzo 1790: 'Qualora i vescovi diocesani o vicini per correzione volessero mandare dei preti o chierici a fare gli esercisi spirituali nelle loro case, dovranno sempre riceverli, con esigere anche per compensare del loro incommodo quell'oblazione che non venga eccedere il tarino al giorno, pel tempo della dimora che da quei preti o chierici si sia fatta presso di loro' "". L'ordine reale veniva poi eseguito dai vescoli. Pertanto i Redentoristi "si trovavano nell'impossibilità di sottrarsi a questo forzato esercizio dell'ospitalità, che tra l'altro non era sempre immune da rischi, come nel caso Jerocades." Nella lettera del P. Migliaccio si afferma con forza: " Il superiore passato non dovea pure firmare quell'obbligo, ch'egli non era fatto castellano, o carceriero". Il Padre Giuseppe Orlandi, storico dei Redentoristi, riporta un passo di Giuseppe Capasso (Un abate massone del secolo XVIII, Parma, 1884). "Che in questa nuova relegazione il Jerocades abbia continuato a mostrarsi secondo i casi massone e rivoluzionario, si può facilmente ammettere, anche perchè è certo che non cessò mai dallo scrivere ed improvvisare al modo antico. Ma l'esilio, quantunque raddolcito dalle cure di chi l'assisteva, diè l'ultimo crollo al suo cervello, di già a bastanza indebolito". Naturalmente, se a Jerocades era sgradito soggiornare a Tropea, ai Redentoristi lo era ancor più il doverlo ospitare: "Durava da un anno quello stato di cose, quando il Ierocades ottenne di poter passeggiare fuori clausura, accompagnato da uno di quei frati. Ma, proprio il giorno in cui cominciava a fruire di tale concessione, intavolato col compagno una discussione di teologia, non essendo contento delle risposte dell'altro, passò dagli argomenti alle impertinenze, e poi "usando dell'estro poetico", sepellì il frate sotto una valanga di contumelie. Ricorse perfino al bastone, e buon per il frate che riuscì a scansarlo". La lettera del padre Migliaccio sopra riportata conferma quanto scrive il Capasso. Il padre Orlandi conclude che "invano i Redentoristi ricorsero ripetutamente alla corte per essere liberati dalla sgradita presenza di Jerocades che rimase a Tropea fino alla morte". Il teologo Raffaele Paladini ci lascia una testimonianza di prima mano. Dopo un giudizio fortemente negativo: "Fiorì soprattutto a' suoi tempi [del vescovo Monforte] D. Antonio Jerocades di Parghelia noto nella repubblica letteraria per talenti e cognizioni; non sempre tuttavia seppe scriver bene soprattutto nella prosa; volle poi trovare per tutto i delirii massonici; e fu traditore degli stessi sedotti da lui; in breve il suo stile fu imperfetto, la sua scienza non retta, la sua morale non buona". Il teologo ci lascia questo racconto della morte di Jerocades: "Morì ai suoi tempi [del vescovo Mele] D. Antonio Jerocades. Questi, ritornato dalla Francia dov'era stato in esilio dopo il 1799, fu denunziato da Giuseppe Costanzo, da Parghelia quale autore di autore di una orazione funebre di un suo fratello, dove parlava male del Cardinale Ruffa ricuperatore di questo regno; quindi fu chiuso dal Ministro Pirrotta tra i Padri del Santissimo Redentore di Tropea sotto il rettore Pappaona. Ivi sulle prime viveva nella quiete, ma, cominciando al suo solito a satirizzare, perdé la confidenza de' religiosi. Caduto infine in delirio malinconico, e dubitandosi di sua vita, il Vescovo delegò tre membri del Capitolo, cioè l'Arciprete e il Penitenziere Mazzitelli e il Teologo Paladini a ricevere la sua professione di fede. Egli, invitato a ciò, diè segno di approvazione, come il diè in tutta la lettura di detta professione. Richiesto a sottoscrivere, prese la penna, e scrisse le due prime lettere del suo nome A ed n, ma poi invece di seguire a scrivere il t col resto, scrisse g. Allora il padre Migliaccio gli rimproverò forte ch'ei volea dirsi Angelus, con fargli altresì delle minacce per questa e per quella vita: per lo contrario il Teologo disse: o egli in questo momento è nel delirio, ed a chi parliamo noi? o è in retta ragione e sarebbe meglio prima indurlo al dovere con convincerlo, con pregarlo ecc. Intanto l'ammalato proseguì la sottoscrizione col rimaner sempre il g, ma col fare il r e tutt'altro, come gli dettarono i tre delegati. Munito poi de' sacramenti dal Parroco, morì e fu trasportato ad essere seppellito in Parghelia." Questo racconto ci fa intravedere quali fossero le preoccupazioni del vescovo Mele (solo formali e... di salvare un'anima!) e quali fossero i sentimenti del Paladini, il cui zio Gaetano l'abate aveva fortemente fustigato e vilipeso nel Terremoto del Capo. Sul versante laico il racconto di Charles Didier (1805-1864) in L'Italie pittoresque, Pigoreau, Paris, 1835, appare assai ricco di anticlericalismo e di spirito romantico: Jerocades, autore della Lira focense "fu crudelmente perseguitato. Relagato nella sua città natale nel 1815 (sic!), ebbe per prigione un convento in cui i monaci, razza fanatica, ritenendolo ateo e giocobino, si resero compiacenti esecutori delle vendette reazionarie dei Borboni di Napoli. Investiti da questo ministero poco cristiano, l'esercitarono con una barbarie meticolosa e veramente monacale. Non vi sono torture che essi non inflissero al carbonaro poeta: il povero prigioniero morì presto, e colui che gridava, in uno slancio di benedizione, "Vita, dono del ciel, sei bella, ti amo. Perchè ti so...", vide i suoi giorni spegnersi nella prigionia oscura, silenziosa d'un chiostro fanatico e persecutore. La salma del martire riposa a Tropea in attesa del Pantheon riparatore che riunirà in un solo altare tutti i martiri dispersi della libertà italiana. La terra sia loro leggera fino al giorno prossimo delle riabilitazioni!" La fonte del Didier era certamente legata allo spirito patriottico che aveva bisogno di creare i martiri. Questo spiega anche la data errata del 1815 e il riferimento alla salma che riposa a Tropea mentre sappiamo che Jerocades fu seppellito a Parghelia. Nella prefazione alla Lira Focense pubblicata a Cosenza nel 1812, Francesco Migliaccio accentua il carattere persecutorio: "fu dalle calunnie, dalle persecuzioni e da mille disastri assalito ed oppresso. Credette farsi schermo e difese [...] negli occulti recessi della sua patria. Ma per la malvagità dei tempi... fu nella sua veneranda vecchiezza rinchiuso nella casa di Missionarj di Tropea. Quivi nella indigenza, schiacciato dalla ferrea mano che l'oprimeva chiuse i suoi giorni". A parte i comprensibili toni romantici del Didier e di Francesco Migliaccio, l'abate Jerocades chiuse i suoi giorni nell'abbandono e nella solitudine, senza un'ombra di affetto o di pietà. Neppure la visita del Pepe a Tropea potè dare ristoro al vecchio poeta, che non trovava più motivi al suo canto. La sua voce, un tempo bellissima e ammirata, adesso era solo il lamento di un uomo finito che vedeva stroncarsi senza rimedio il suo cocente anelito alla libertà. La morte improvvisa che lo colse dopo aver ricevuto i sacramenti della penitenza e dell'Eucarestia ha trovato un uomo distrutto e che nelle parole del salmo 50 da lui amato ha trovato l'ultimo motivo per affidare alla forza della parola l'anelito del cuore.
UN DIGNITOSO CONGEDO Non fu una morte normale quella di Jerocades: nella sua inquietudine non bastò la famiglia dei liberi muratori, non soccorse l'avventura giacobina, diede sofferenza la chiesa alla quale apparteneva. Nella post-fazione dedicatoria l'abate Jerocades ricorda che alcune poesie che formano la Lira focense sono sacre e ricavate dai libri cristiani e ne dà una spiegazione storica; ma a me sembra che egli voglia darci atto di non aver mai abbandonato la certezza cristiana come in questa Salve piena di affetto e di fiducia.
O Regina, il Ciel ti salvi. Di Dio madre, e sposa, e figlia, Volgi, ah volgi a noi le ciglia, Bella madre di pietà.
Mostra vita, e nostro bene, Nostra speme, e nostro amore, Volgi a noi quel tuo bel core, Ch'è la stessa carità.
Figli di Eva, abbandonati, Dell'esiglio a' lunghi affanni, Dal furor dei rei tiranni Chi ci salvi, oh Dio! non c'è.
Senti il grido, ascolta il pianto Di chi giace in ree catene, Bella Madre, in tante pene Ci volgiamo afflitti a te.
Dunque o nostra Protettrice, Volgi a noi quel tuo bel ciglio; Mostra a noi quel tuo bel figlio, Quando ha fine il lungo error.
Tu sei madre assai pietosa, Bella Vergine Maria; Tu sei dolce, e tu sei pia, Tutta pace, e tutta amor.
E mi appare persino commovente la Novena alla Madonna di Portosalvo, che l'abate Jerocades dedica a Raffaele suo nipote, figlio del fratello Vincenzo: "Nel Castello dell'Ovo, villa un dì di Lucullo, ove fui tre anni prigioniero di stato dopo tre anni di esilio e in altri prigioni e in altri esili, dopo Dio non ho altro obbiettivo delle nie cure e delle mie preci che la Madre di Dio. Serbando fede alla patria, l'ho sempre invocata col nome di Madonna di Porto Salvo, e questo conveniva ancora al mio stato perchè nelle tempeste si cerca un porto e nelle battaglie si cerca un asilo, impaziente di altra dimora: "Ch'io son vivo al desir, morto alla spema". Gravato d'anni e d'affanni, ho scritto questa Novena che a voi, caro nipote, offro e consacro qual dono e qual debito. Io ve la consacro qual dono poichè è frutto dei miei studi e dei miei talenti. Sono povero di fortuna e quel che mi ha dato la natura, spetta anche a voi quando non disdegnaste di dirvi mio nipote". A me quest'ultima frase appare commovente per la carica emotiva che sottende. Ma c'è dell'altro che Antonio Jerocades dice ancora come credente e come sacerdote: "Chi sono i testimoni della fede? I vecchi. Io, che vecchio pur sono, così presbitero, qual attestato maggiore di questo donarvi della religione e fede di Cristo? A te, Raffaele, e all'eredità del padre e dell'avo aggiungerete la mia. A te, e nella Chiesa di Porto Salvo fra i suoi monumenti della pietà dell'avo e del padre appenderete ancora s'è degna questa Novena, in cui leggerete le grazie e le glorie di Maria, da noi venerata sotto il nome di Madonna di Porto Salvo". Il senso di verecondia che traspare da queste parole non ci rivela forse il dramma di un uomo, di un credente, di un sacerdote che, guardando indietro alla sua vita tormentata fa un bilancio coraggioso e definitivo? "Dopo Dio non ho altro obietto delle mie cure e delle mie preci che la Madre di Dio".