(S. Libertino) Nella tornata di gennaio 2008, TropeaMagazine ha dedicato un nutrito numero unico all'abate Antonio Jerocades, che nella sua attività poetica di grecista ha tradotto nell'idioma volgare la 'Battaglia delle Rane e dei Topi' di Omero. Nelle note di prefazione il poeta pargheliese fa cenno di un'antecedente traduzione ad opera del tropeano Antonio Migliarese, di cui esprime una profonda ammirazione, dichiarando, con singolare onestà intellettuale, di voler basare il modulo metrico della propria traduzione su quello operato dal 'Sig. D. Antonio Migliarese, Cavaliere e Poeta Tropeano', compresi i nomi dei personaggi, sia essi Rane sia essi Topi. La traduzione del Migliarese si trova nel libro 'Le favole di Fedro e d'Aviano e la Batracomiomachia di Omero' dello stesso autore pubblicata a Napoli nel 1763 presso la Stamperia Abbaziana. Le traduzioni del simpatico e grazioso componimento dei due calabresi sono state quindi fra le prime ad alimentare sul tema il panorama letterario mondiale. Lo stesso Giacomo Leopardi nel suo 'Discorso sulla Batracomiomachia' da cenno (vedere nella nota n. 40) della traduzione del tropeano Migliarese. Di questo autore si sa pochissimo, quasi nulla. La genealogia della nobiltà tropeana di Felice Toraldo ci dice che era figlio di Domenico e Maddalena Vitale, che la famiglia era ascritta al Ruolo nel 1704, che aveva sposato Felicia Fazzari e che era padre dell'unico figlio Ciro nato il 12 settembre 1735. Si potrebbe allora evincere che il matrimonio sia avvenuto intorno al 1732 e la data della nascita intorno al 1700. Il Toraldo aggiunge che il Migliarese 'fu uomo molto dotto, rinnovatore dell'Accademia degli Affaticati e noto nella repubblica letteraria per le traduzioni di Fedro, Aviano e della Batracomiomachia di Omero, molto lodata in quel tempo'. Luigi Aliquò Lenzi riporta nel suo dizionario che un suo sonetto rivolto a Carlo III si trova fra i componimenti raccolti da Niccolò Giovio (Nap. 1747) in occasione dell'apertura della Biblioteca Spinelli. Ho rinvenuto di recente l'opera 'Le favole di Fedro liberto di Augusto' tradotte in versi volgari dal canonico Giovanni Crisostomo Trombelli, dall'accademico Antonio Migliarese, dal marchese Azzolino Malaspina, da un anonimo e dallo stesso autore/curatore che vuole rimanere ignoto il quale compara commentandole le varie traduzioni delle singole favole. L'opera è stata pubblicata a Napoli nel 1787 presso Luigi Migliaccio.
La Batracomiomachia di Omero
La Battaglia delle Rane e dei Topi Tradotta da Antonio Migliarese Patrizio, ed Accademico di TROPEA (1763)
IL TRADUTTORE A CHI LEGGE di Antonio Migliarese
Io non credo d'andar lungi dal vero, se tra i diversi modi da'saggi Uomini con lode praticati, di portare da una in un'altra lingua le opere, specialmente poetiche, più da commendare io reputo quello, in cui per rappresentare il carattere dell'Autore, che si traduce, non le cose dette soltanto, ma la maniera eziandio, con cui dette sono, venga spiegato: siccome tanto migliore si giudica comunemente il ritratto di qualche personaggio, quanto più in ciascuna sua parte, e alle fattezze, ed a'vestimenti all'originale somiglia. Or perciò un tal modo a me piacque di seguitare nella Traduzione, che impresi parecchi anni sono delle Favolette di Fedro, e di Aviano, ingegnandomi d'imitarne lo stile, ed essere in quello più familiare, ed alquanto più poetico in questo, e servendomi nell'uno del verso endecasillabo sdrucciolo, che a capello rappresenta il Senario Jambico de'Latini, e nell'altro della terza Rima, che più d'ogn'altra maniera di verso è acconcia ad esprimere l'Elegiaco, e ritenendo nell'uno, e nell'altro, per quanto mi fu possibile, senza offendere il genio della nostra lingua, nelle strettezze, in cui volontariamente mi posi, e le stesse parole, e le frasi, amando meglio di peccar forse in questa parte del troppo, che dilungandomi dal Testo, come con risparmiar tempo, e fatica avrei potuto fare, sformar per così dire, l'Autore, e renderlo un'altro. Io certamente non presumo d'esser riuscito di ben rappresentare gli Autori Latini, posso bensì dire d'aver cercato a tutto potere di farlo. Tradussi in ottava Rima la Batracomiomachia, ed in istile Eroicomico, perchè alla materia più adatto, ma volli uscire qualche volta dal Testo, aggiugnervi delle cosette, e ciò particolarmente per ispiegare il significato de'nomi delle Rane, e de'Topi, che di lasciare tali, quali sono nell'idioma greco mi piacque. So che molti diranno, che trattandosi di Traduzione, in cui conviene le altrui vestigie seguitare, ed in ispezialtà nel modo della Traduzione, da me trascelto, in cui bisogna farlo scrupolosamente, con poco giudizio in Fedro (lasciamo stare di legarmi in Aviano alla Rima) io mi posi per così dire a'piedi troppo strette pastoje, obbligandomi, oltre allo sdrucciolo, che pure non è facil cosa, a chi non si voglia servir sovente di parole latine, e farla da Fidenzio, a restringere il numero de' versi volgari a quello de'latini, quando questi sogliono esser più lunghi, e la nostra lingua nella brevità così la latina ha il disavvantaggio degli articoli, de'vicecasi, e de'vicetempi, come osserva il Davanzati, eccellentissimo Traduttore di Tacito, ed è Fedro nel dire brevissimo al riflettere dell'Hoogostratano nelle annotazioni alla favola quattordicesima del terzo libro, imperocchè non potendo camminare a mio senno, forse diedi, e non di rado, de' passi sforzati, e voglia Dio, che non falsi. Io rispondo a costoro aver'eglino veramente ragione, e sol dico per mia discolpa, che io dal principio non intrapresi queste Traduzioni con animo di pubblicarle, ma soltanto per passare un tempo pieno di timori, e di sollecitudini per la pestilenza, che facendo strage in Messina, ed in Reggio, minacciava troppo da vicino le nostre contrade, e perciò seguitai quel capriccio, che mi saltò prima in capo, per rendere il lavoro più malagevole, e consumarvi più tempo, e quindi facendone quel poco conto, che si meritano, sepolte per molti anni le tenni, se non in quanto a qualche amico, a cui di leggerle venne voglia, le comunicai: e maggiormente poi in questo pensier mi mantenni quando in mano le Traduzioni del Celebre Letterato Abbate Trombelli mi capitarono. Ma ora mi sono arreso alle persuasioni di persona intendente di sì fatte materie, ed indotto a pubblicare le mie, considerando ancora dall'una parte, che d'incontrare il famoso Traduttore molto di rado a me avvenne, per non dire non mai, come quegli, che sebbene alla stessa meta, pure per via diversa tenni il cammino, e dall'altra, che tanto poco noto è il mio nome, che il biasimo di quanto vi è di cattivo nelle Traduzioni, nocumento non può recargli, ed utile all'incontro la lode, se forse vi si trovasse qualche cosa di buono, benchè di ciò mi lusinghi assai poco, come spiego nel Sonetuccio seguente. Ma quale che sia questa operetta, che espongo al pubblico, io la sottometto alla Censura d'ogni saggio, e discreto Lettore, pregandolo di mutare quanto in essa gli parrà mal fatto, e di amorevolmente comunicarmi le sue correzioni, che io gli prometto d'avvalermene, e di sapergliene grado: e viva felice.
I Pria che una immensa lite a cantar prenda, Piena di Marzial grido, e romore, Che il Santo Coro delle Muse scenda Da Elicona, prego io dentro il mio core; Perchè palese a ciascun'uomo io renda, Come i Topi, mostrando alto valore, Emuli de'Giganti, della terra Figli, a'Ranocchi andaro a far la guerra.
II Non di quell'acque, ove ch'il labbro infonde Divien profeta, io da voi chieggo intanto, Ma, Sacre Suore, un sorso sol dell'onde Di quel pantan, ch'è chiaro al par del Xanto, Sì dolce del gran fatto alle sue sponde Mosse il Vate di Smirna un tempo il canto; Onde virtà ne tragga tal, che in rima Tosca l'Istoria narri, e 'l canto esprima.
III E Tu Cigno immortal non sdegnar, ch'io Osi cotanto; egli anche avvien talora, Che oscura nube del raggiante Dio La bella faccia in se pinge, e colora: Pensa, che da tua gente il terren mio Il popol trasse, e le belle arti ancora, Sì che Gran Grecia ne fu detta, e 'l vanto Fors'ebbe al nome disugual non tanto.
IV Dove la guerra, ed in qual guisa avvenne, Quai fur le gesta de' famosi Eroi, Chi nel conflitto la vittoria ottenne, E da cui fur salvati i vinti poi, Così la Fama a pubblicarlo venne Al Borea, all'Austro, agli Esperi, e agli Eoi, E gli uomini così ne fean sermone; E del gran fatto tal fu la cagione.
V Arso di sete il labbro, ansante il petto, E tutto per timor guardando intorno, D'una gatta fuggito il fiero aspetto, Giunge in opaca valle un topo un giorno; Dove, il corso perduto, era costretto Di fare un fiumicel pigro soggiorno; Tosto il mento gentil tuffa e' nel lago, E fa il delir nella dolce acqua pago.
VI Nel tempo stesso fuor dell'acqua sporto Una garrula rana il muso avea, E la valle, nuotando per diporto, D'allegre voci risonar facea. Quando al girar degli occhi il topo scorto Del lago all'orlo, che a piacer bevea, Il nuoto verso lui tosto rivolse, E in questi detti la sua lingua sciolse.
VII Sij sempre il benvenuto, o forastiero, Tu chi sei? donde vieni a questo lido? Dimmi chi sia tuo padre, e dimmi il vero, E fa che amico io ti conosca fido: Perchè se tanto in te discerno, io chero Menarti là, dove ho il regal mio nido, E di be' doni ricolmarti, e tali, Che sian d'ospite amico al merto eguali.
VIII Io mi son Fisignato, e in questo lago Son de'ranocchi Re, duca, e signore; Ed a ciascuno il mio desir far pago Giova, e rendermi sempre il sommo onore. Avvenne già, che di mischiarsi vago Peleo, ch'è il fango, in amistà e in amore Fu con la bella reina dell'acque Idromedusa, ed ella sì il compiacque.
IX E quindi in riva al Pò si uniro, ed io Dall'union ne nacqui, e poscia crebbi; Ma i costumi di Peleo, il padre mio, O della madre mia giammai non bebbi: Fu di gonfiar le gote il mio desio Cantando, e in questo il primo vanto n'ebbi; E perchè ognuno io restar sei ammirato Il nome mi acquistai di Fisignato.
X Al bel visaggio, ed all'alter sembiante, Più che in ogn'altro scerno in te gran Core, E mi sembra d'avere agli occhi avante Un Re forte, e un guerrier d'alto valore. Narrami pur di qual'illustri oiabte Nacque il bel frutto? dimmi il genitore? Scoprimi la tua schiatta? A cui rispose Sicarpage, e in tal forma i detti espose.
XI Amico, a che sì curioso sei Di mia stirpe cercar, che a tutti è conta? A quanti Uomini ha in terra, a quanti Dei In cielo, e a quanti l'aere augelli conta. Me Sicarpage i genitori miei Nomar, perchè ho la bocca a rapir pronta, E perchè so ogni briciola raccorre, E'lor piaciuto a me tal nome porre.
XII E' mio padre il Magnanimo Trossarte, Che non ha pari in divorar del pane E per ben disfamarsi, d'ogni parte Sempre ne tragge in copia alle sue tane. Licomile è mia Madre, che nell'arte Di leccar mole a niun dietro rimane, Figlia al re Pernotrotto, che un prosciutto In un istante può spolparsi tutto.
XIII Placea ad essa abitar, benchè figliuola Di Re, in capanne, e in una io nacqui, e stetti Avvezzò a fichi, e ale noci la mia gola, E di ogni sorta ad altri cibi eletti. Dunque ben vedi tu, ch'è sciocca sola, Che star possiamo in amistà noi stretti; Se a me tu, che nell'acque viver dei, Diverso affatto di natura sei.
XIV Io mangio quanto ha l'uomo in sua dispensa; E lievitato il pane, e ben tre volte, Che 'l ritondo paniere a me dispensa, E con fissamo ancor sfogliate molte. Le fette di prosciutto alla mia mensa Io bramo di tener sempre raccolte. Ho fegatelli, e di soave latte Ancor caciuole di recente fatte.
XV Non mi mancano poi dolci confetti, Che tanto sono a' più felici a cuore; Non quanto v'ha di be' manicaretti, Che ne'conviti fanno a' cuochi onore; Intingoli, cibrei, torte, e guazzetti, Varj cibi con salsa, e con favore, E cotti in tegghia, in pentola, e in tegame, Che fino a'morti fan venir la fame.
XVI Dal marzial romor non sepp'io mai Fuggir, ma corsi nelle mischie ardito; E sempre tra'Campion primi pugnai, Nè l'uom mi fe restar mai sbigottito, Bench'e' sia grande, al letto io andare osai, Dal piè lo presi, e 'l morsi in cima al dito; Nè punto ebb' e' dolor dal morder mio, Nè il dolce sonno allor da lui fuggìo.
XVII Due cose son, che gran timor mi danno In tutto il mondo, il gatto, e lo sparviere, Come cagioni di non lieve affanno; E la trappola ria, dove in cadere Fatal s'incontra irreparabil danno: Ma soprattutto, oimè, mi fa temere Il gatto, che anco allor, ch'io fuggo, e intano, Mi segue, e cerca con valor sovrano.
XVIII Non ponno i ravanelli al mio palato Dar cibo, che di gusto li riesca; Nè di cavoli, e zucche io son'usato Di dare al ventre mio piacevol'esca. Di prezzevol mangiar non fu a me date Dalla natura, o bieta verde, e fresca; Cibi cotai rendon soltanto paghi Voi, che i padul per casa avete, e i laghi.
XIX Troppo sei tronfio, o forastiero, allora Ridendo Fisignato li rispose, E troppo i cibi tuoi la lingua onora Con parole superbe, e boriose. Non poche da vedersi abbiam noi ancora E in terra, e nel pantan stupende cose. Diè Giove a noi saltare in terra, e andarne Sott'acqua, e quinci, e quindi il cibo trarne.
XX Se vuoi, che gli occhi tuoi sien testimonj Del mio dir, tu puoi farlo agevolmente, Se al dosso mio ti metti a cavalcioni, E con le man ti stringi fortemente. Indi le gambe, e' piedi ben componi, Acciò a cader non vegni di repente, Forse e perir, perchè io con tuo diletto Portar ti voglio insin dentro al mio tetto.
XXI Sì dice: e'l tergo estratto fuor dell'onda, Al nuovo amico a fu montar fa invito; Spicca un salto leggier quel dalla sponda. E s'accavalcia libero, e spedito; E con le braccia il collo si circonda, E lascia insieme con la rana il lito: In pria gode a quel nuoto, e gli occhi gira, E i vicin porti con diletto mira.
XXII Quando più dentro al lago poi si sanno, E l'onda a ricoprirlo incominciava Oh qual lo prese grande acerbo affanno, E quanto amaramente lagrimava! Invan pentiasi, e l'imminente danno Piangendo invan, le chiome si tracciava; E della rana al ventre si strignea Forte co'pie', per gran timor, che avea.
XXIII Non uso a gir per l'acqua in petto il core, Spesso li batte, ed il desio lo strigne D'essere in terra, e un rio freddo timore A gemer gravemente lo sospigne. La coda stende nel temuto umore, E qusi un remo sia, la move, e spigne; Ed agli Dei cento preghiere, e cento Fa, perchè giunga in terra a salvamento.
XXIV Più a ciel stridea più l'onda il ricopria, Aprendo a rai sermon sua bocca il varco; Pel mar non così in creta un Tauro gia Con Europa sul dorso, amato incarco, Come or correndo, poi l'acquosa via Un ranocchio, di me gli omeri carco, A sua magione andarne si compiacque, Alzando il corpo pallido su l'acque.
XXV In questo ecco apparir veggon repente ad ambidue spettacolo tremendo, Un'Idro, che sen va con l'eminente Capo su l'acque, qua, e là scorrendo. Fisignato in mirarlo immantinente Dentro il più cupo del pantan fuggendo, Scampa la sorte ria, senza pensare Qual compagno lasciava ad annegare.
XXVI Supin nell'onda cadde tosto quando Fu solo il topo misero lasciato, Stringea le mani, forte il grido alzando, In punto d'esalar l'ultimo fiato. Cento volte s'attuffa, e calcitrando Cento anche sorge, ma al fin cede al fato, Che l'insuppato pel soverchio pondo Dona alle membra, e le sospinge al fondo.
XXVII Nell'annegarsi in tali mesti omei La lingua scioglie: ahimè perchè scagliarmi (Ah sì sapran misfatto tal gli Dei) Da te, quasi da scoglio a naufragarmi? Forse in terra alla lotta, e al corso avei Di me più forza, e in ogni sorte d'armi? Scellerato fellone, ah m'ingannasti, Fisignato, e nell'acque mi sbalzasti.
XXVIII Ma giusto punitore è il sommo Dio, Nè può dagli occhi suoi fuggirsi mai. E senza scampo alcun su il degno fio D'un misfatto sì reo pagar dovrai. Che a vendetta pigliar del torto mio Mille schiere di topi addosso avrai. Finito appena avea l'ultimo accento, Che il suo spirto restò dall'acqua spento.
XXIX Stava Licopinage allor sedendo Nelle morbide rive, e quello scorto, Mandò dal petto fuori un'urlo orrendo, E a darne annunzio a' topi a furia sorto, Corse, ed ansante giunse, e ridicendo Il caso deplorabile del morto, Tosto nel cuor della topesca gente L'ira s'accese, e tosto venne ardente.
XXX Ordine diero a'banditori allora, Che all'assemblea si citi il popol tutto, E si debba trovar verso l'aurora In casa di Tossarte ognun ridutto, Padre di Sicarpage, il quale ancora Supin ne stava morto enfiato, e brutto; Ed il Meschin, non lungo la riviera, Ma galleggiante in mezzo al lago egli era.
XXXI Con fretta s'unir tutti al primo albore, E Trossarte tra lor s'alzò primiero, E pel morto figliuol pien di furore, Così cominciò a dire: amici, è vero, E' ver, che sol a me danno, e dolore, Ahi quanto! l'empie rane a me sol diero: Ma chi può mai negar, che parimente Sia la ria sorte a tutti voi imminente?
XXXII Ah che son io infelice! io già tre figli Ho perduti: rapimmi il primo, oh Dio, Nemicissima gatta, e con gli artigli Sbranò, quand'ei fuor della tana uscio; L'altro alla morte diè co' suoi consigli L'uom, ritrovando ligneo ordigno rio, Trappola detto, con nov'arte, e fina, Di noi topi meschin strage, e rovina.
XXXIII Il terzo, il mio diletto, e la mia gioja, E della madre veneranda, il terzo Spirò nell'acque; oimè che in pianto, e in noja S'è già rivolto ogni mio riso, e scherzo! E Fisignato ne fu l'empio boja. Ma con membranza tal perchè mi sferrzo? Contra i ranocchi la vendetta io bramo Via tosto armianci, e a desolarli andiamo.
XXXIV A Tutti allora un tal parlar comparte Brame di guerreggiare ardite, e fiere E tosto corse il bellicoso Marte, E d'armarsi mostrò lor le maniere. In pria alle gambe ognun con nobil arte Si adattò intorno intorno le gambiere Di verdi fave ben sgusciate, e rotte, Che rosicchiate avea tutta la notte.
XXXV Gli usberghi tutti avean di pelli, avvolte Di paglia, e scorticar per farli un gatto: E per iscudo da lucerne molte Fu da loro il bellico in giro tratto. Le forti lance in man s'aveano tolte, D'acciajo marzial lavoro fatto, Aghi ben lunghi, e in testa per elmetto, S'avevano di noce un guscio eletto.
XXXVI L'Esercito de'topi in tal maniera Erasi armato altero, e furibondo. E già la fama garrula, e leggiera Il grido ne spargea per tutto il mondo, Anche a'ranocchi la novella n'era Giunta del loro stagno insino al fondo: Uscir perciò tutti dall'acqua, e in giro. Al consiglio di guerra indi s'uniro.
XXXVII Mentre che gian volgendo il pensiero Che romor questo, e come, e donde sia, Un'Araldo mirar, che per sentiero Dritto, e in man con lo scettro ne venia. Embasichitro e' fu, del grande altero Tirigliso figliuolo, e alzar si udia, La guerra ad intimar, tutto feroce In questi detti l'orgogliosa voce.
XXXVIII Io da parte de'topi e guerra, e morte Vi annunzio, o rane, e alla battaglia sfido. Ei ravvisaro il lor nobile, e forte Sicarpage ondeggiar nel vostro nido. Mandato dentro alle tartaree porte Da Fisignato il vostro rege infido. Tra voi chiunque prode cuor sortio L'arme s'appresti: E detto ciò spario.
XXXIX Quando s'udì un parlar cotanto ardente, Onde de'topi noto fu il disegno, Si turbar dentro alla superba mente I ranocchi, ed al Re ne mostrar segno. Surs'esso dal suo seggio incontinente, E così disse, pien d'alto disdegno: O amici, e quando fu, che ancisi io mai Il sorco, od annegar quando il mirai?
XL Esso a diletto lungo il lago gia. Imitando il nuotar, che noi facciamo, Perciò affogossi, e quell'empia genia Di me, che non ho colpa, or fa richiamo. Che farem noi? troviam presto la via, Onde i rei topi ruinar possiamo. Sentite un mio pensier, che a dirvi or sono, E a me rassembra sopra ogn'altro buono.
XLI Stiamci noi tutti armati il capo, e'l petto In erto luogo nell'estrema sponda, E ciascun nell'assalto per l'elmetto Prenda il nemico, e'l balzi giù nell'onda; Quello, ch'è tutto armato, e al nuoto inetto, Affogherà nell'acqua più profonda; Così d'uccisi topi a nostro omore, Alzerem qui un trofeo con lieto core.
XLII A Tai detti ognun s'arma, e malve coglie Perchè le gambe intorno intorno copra; Verde, e ampia bieta per corazza, e foglie Di cavolo per targa acconcia, e adopra; E quindi un lungo acuto giunco toglie, Che gli serva di Lancia, e al capo sopra Con bel l'arte si adatta, e si compone D'una sottil lunaca il Morione.
XLIII Posan su l'alto poi della riviera Tutti in giro, la lor lancia scuotendo, E impazienti ogni nemica chiera Pieni di cuore a fermo piè attendendo. Dello stellato Ciel dall'alta spera Il gran Giove lo sguardo in giù volgendo, Vede un tanto apparecchio, e i Numi invita A lui ad andarne, e lor le schiere addita.
XLIV Mirate, dice, che gran guerra, e quanti Prodi, e grandi campioni, e lance orrende! E par, che de'Centauri, o de'Giganti Le armate schiere sien forti, e tremende, Vi è alcun tra voi, o Numi eterni, e santi, Che difender le rane, o i topi intende? E in così dir, la Maestà del viso Deposta, apre la bocca a un dolce riso.
XLV Indi a Palla rivolto, e tu figliuola A' topi non vorrai donare aita? Se de' cibi l'odor per l'aere vola ne' sacrificj, e a' tempj tuoi gl'invita, Corre ognun d'essi, e danza ivi, e carola Pien di gioja ineffabile infinita. Sì disse Giove. E Palla: il Ciel nol voglia. Che de' topi giammai le parti io toglia.
XLVI Quanti mali mi han fatti, e quanto danno Da lor sofferto ho già, sapere or dei: Perciò siasi pur grave il loro affanno, Padre, dar loro aita io non saprei. Per bersi l'olio rovinate m'anno Le lucerne, e malconci i ferri miei; Ma sopra ogn'altro m'ange, e accora, Che m'han corroso tutto il Peplo ancora.
XLVII Il Peplo, che tessuto è di mia mano Con sottil trama, e stame, ch'io filai, E ta'buchi vi fero essi pian piano, Che a farlo risarcire io lo donai, Già importunommi quel sartor villano, L'interesse or ne vuol, ch'io nol pagai. Tutto questo m'han fatto: or, padre, mira, Se non ho gran ragion di starne in ira.
XLVIII Il peggio è, che non ho da ritornare La roba, che per tesser mi ho prestata: Ma non perciò i ranocchi io vo' ajutare, Che incostanti ancor son, razza malnata; Non mi fero un tantin gli ochhi serrare, (E bisogno i' n'avea lassa, e spossata, Quando in pria dalla guerra io ritornai) Cro cro gridando, senza posar mai.
XLIX I'or dall'uno, ed or dall'altro lato Volgeami, afflitta il capo del dolore, Senza che stilla il sonno al modo usato Su me spargesse del leteo liquore. E sempre detta in sì penoso stato Mi giacqui insino al mattutino albore, Quando col canto richiamò i mortali All'opre il gallo dibattendo l'ali.
L Ma via lasciamo noi pensier cotale, Di voler dare aita a'Combattenti, Non di noi alcun ferisca acuto strale, Sì da vicin stan per pugnare intenti: Nè perchè un Dio colà ne scenda, vale Far che 'l furor s'estingua, o che s'allenti. Dunque tutti del ciel stianci a vedere, E mirando la zuffa avrem piacere.
LI Sì disse Palla: e agli altri Dei ben degno Parve la saggia opinion seguire: E quindi insieme del celeste regno In un luogo sen van tutti ad unire. Ed in questo due Araldi a dare il segno D'appiccar la battaglia, ecco venire; E più zanzare armate di gran tromba. Onde il bellico suon fiero rimbomba.
LII Tuona il gran Giove allor della ferale Guerra il segnal dalle celesti spere. Primo Issiboade Lichenor assale, Che tra le file combattea primiere, E gli da con la picca un colpo tale, Che al ventre in mezzo al fegato lo fere: Boccon trabocca Lichenor, e tutta La sua morbida chioma infanga, e brutta.
LIII Issiboade ne va strillando forte Tronfio di questo sì bel colpo allora, Il petto dopo lui con l'asta forte A Peleone Troglodite fora: Vien preso quello dalla nera morte, E l'alma a volo esce dal corpo fuora; Cadde, mescin, nel fango, e gli convenne Ivi restarne donde il nome ottenne.
LIV Ripieno d'ira in questo ecco Seutleo, Che in mangiar biete è di valor sovrano Diede nel cuore a Embasichitro, e'l feo Cadere in guisa tal disteso al piano, Che in pentole salir più non poteo. Ma Artofago, cui da forza alla mano Il pan, che sempre rode, con sua lancia Fier colpo a Polefon da nella pancia.
LV Bocconi Polifon viene a cascare, L'alma da'membri vola, e la gran voce. Lui morto allor Linnocaro in mirare, Saffo, che mola par, prende feroce; Troglodite previen, benchè a passare Questi ne'buchi sia destro, e veloce, E sopra il collo il fere, e quindi bui Caligin'atra rende gli occhi sui.
LVI Non lambe allor giusta suo stil, ma d'ira Sua coda morde, e all'uccisor, sì vago Del pantan, Lichenor tal colpo tira, Che al fegato ne erra, infilza l'ago. Nelle profonde rive, in che ciò mira, E a fuggir va, rovina Crambofago; Lo siegue il fier nemico, e sì il percuote, Che cade, affonda, e su tornar non puote.
LVII Lo stagno si vedea di bianco allora Farsi vermiglio, del suo sangue tinto, E vicino del lido in poco d'ora Giacer disteso l'infelice estinto, Con i pingui intestin del corpo fuora, Di cavoli ripieni, onde distinto Nel nome venne, perchè ghiotto n'era Tal, che altro non volea mattina, e sera.
LVIII Dalla palude nome oscuro, e vile Linnisio avea, ma l'opre chiare eccelse; Ei tra tanti guerrier del Campo ostile Un de'più forti, Tirigliso, scelse. L'attaccò, lo ferì con man virile, Ed al suo piede cader morto selse; E così il cacio vendicò, che cento Volte quei di scavare ebbe ardimento.
LIX Ma Pernogliso, che per grand'imprese Nel forar de'prosciutti, in fama crebbe, Mostrava sì al pugnar le voglie accese, Che un cor di ferro mosso a tema avrebbe; Calamintio mirollo, e a tremar prese Più che la canna, donde il nome n'ebbe, E via gettò, fuggendo, dalla mano Lo scudo, sen saltò dentro al pantano.
LX Agli agi, e al cibo di prosciutto usato Mal per lui va Re Pernofago in guerra. Che Idrocaro l'assal, vile Soldato, E con sassata al gozzo indi l'atterra. Per le nari il cervel cade stillato, E tutta sporca di sangue la terra. Più che non fa dell'acqua il vincitore Gode del nuovo or acquistato onore.
LXI L'Jcopinage allor, che al grifo l'unto De'leccati taglieri aveva ancora, Con lo spunton, di quello pria ben'unto, Al buon Borborocece il fianco fora, Cui il bujor gli occhi appanna, e cade appunto Nel loto, in cui sdrajato stava ognora Vien Prassofago intanto a nuoto a terra, E per un piè Gnissidiotto afferra.
LXII Dell'odoroso fumo, per cui fuora Della cucina non si vedea mai, Pieni Gnissidiotte aveva ancora Gli occhi, e del Sole mal reggeva a i rai, Perciò non vide il Mangiaporri allora, Che il prese, e sotto l'onde il trasse, assai Dalla cervice con la mano il tenne, E tanto, che a smorzar l'alma gli venne.
LXIII Sicarpage, che al nome avea accoppiato L'ardir di chi destò morto tal guerra, E valoroso al par di quello, e usato A gir rapendo bricioli per terra; Vendica i morti socj, e l'infangato Pelusio con un colpo vince, e atterra, Per me'il fegato al ventre: a piedi sui Quel cade, e l'altra scende a'regni bui.
LXIV In ciò veder, di loto, in cui in costume Pelobate ha d'andarne, un pugno prende, E a Sicarpage il lancia in fronte, e'l lume Degli occhi a lui quasi occecato rende; Questo, cui forte avvien, che l'ira fume, Pane al nemico per focaccia rende; Saffo grande, e pesante ei mira in terra Starti, e con forte man tosto l'afferra.
LXV A Pelobate indi con forza il tira, Alle gambe, e la destra gli sfracella: Nella polve supin quello si mira Cader, così fu la percossa sella. Alto grida Craugaside, e con ira Sì dice allor: l'amico mi rappella, E vendetta mi chiede; e a Sicarpage Va incontro, con desio di farne strage.
LXVI Lo giunge, e tosto sopra gli si lancia Col giunco acuto in resta, ardito, e fiero, E lo percuote in mezzo della pancia Forte così, che vel'immerge intero. Le viscere ne trae seco la lancia, Maneggiata sì ben dal pro guerriero, Ed a cader quindi ne vanno, e sparte Si veggion sul terreno a parte a parte.
LXVII A tal vista del fiume alla riviera Sitofago, d'orror tutto tremando, Perchè del grano più voglioso egli era, Che fama, e onore d'acquistar pugnando; Acciò di crudel morte ivi non pera, Dalla battaglia fugge zoppicando, Afflitto gravemente, e con un salto D'un fosso all'imo balza giù dall'alto.
LXVIII Nella mischia Trossarte il reo omicida Del suo diletto Sicarpage vede, Tosto l'asta gli vibra, ed ora, grida, Pagherai il fio, che 'l tuo misfatto chiede. Fisignato al fuggir sua vita affida, Ma in punta al piè lo giunge il colpo, e 'l siede. Salta allor semivivo esso nel lago, Trossarte il segue, di finirlo vago.
LXIX
Vide in tal rischio il Rege, e 'l suo colore Di porro in porporin mutò Prasseo, Così di sdegno n'arse, e di furore, E tra' primi a pugnar tosto si feo. Lanciò l'acuto giunco, ma il vigore Seguir del braccio il giunco non poteo, Perchè quando lo scudo ostil per... Si ruppe in punta, nè lo scudo mosse.
LXX Tra tutti i Topi il battaglier maggiore, A lancia Corta, e Marte nell'aspetto, E il prence Medarpage, che nel fiore Dell'età giovanil robusto ha il petto; In rubar parti sommo è il suo valore, D'Artepibol è figlio assai diletto, D'Artepibol, che pone insidie al pane Sì ben, che senza colpa ne rimane.
LXXI Esso fra tutte le topesche chiere Sol mostrava al pugnar valor sovrano, E fattosi del lago alle riviere, D'ogni compagno suo scevro, e lontano, Vanto si dava con parole altiere, E nol si dava, sì era forte, invano. Ch'esso di mano sua la razza tutta De'ranocchi guerrieri avrìa distrutta.
LXXII Ma il superbo pensier dall'alta spera Degli Uomini, e de'Numi il Padre scorge, Nè può soffrir che ogni ranocchio pera, E d'essi gran pietate al cor gli sorge. E crollando la testa augusta altera, Ond'ei forza, e virtute al tutto porge, Intorno agli altri Dei gli occhi rivolse, E in cotai detti la sua lingua sciolse.
LXXIII Ah, che gran fatto agli occhi miei presente Fassi, che m'empie il cor d'alto stupore! Ecco Meridarpage andar sì ardente, Perchè spinga le rane all'ultim'ore. Su via Palla ne vada immantenente, Che dell'armi eccitar suole il furore, E con lei Marte, e 'l traggan di battaglia, Benchè di gagliarda tanto prevaglia.
LXXIV No, che non tanto o Palla, o Marte vale, (Sì del Tonante a'detti il Dio guerriero) Il gran torrrente a deviar mortale, Che fu le rane sbocca ora sì fiero. Ma via (se di essi mai, Numi, vi cale) Si muova ognun di noi pronto e leggiero, E in quel lago dal ciel presto discenda, E delle rane la difesa prenda.
LXXV O quel fulmine tuo, che tante suole Far opre eccelse, che i Titani ancise, Più d'ogn'altro feroci, ed alla mole Pesante d'Etos Encelado sommise; E della terra la superba prole, I Giganti terribili, conquise; Quello, Padre, e Signore, ora si muova A far la grande e lalagevol prova.
LXXVI Sì disse Marte: e Giove l'igneo telo Vibra, e pria tuona con fragore orrendo, E tutto scuote orribilmente il cielo, Poi manda il torto fulmine tremendo; Che a'ranocchi, ed a'topi il cuor di gelo Empie ratto colà dal ciel caggendo. Del sommo Re dal braccio onnipotente.
LXXVII Ma benchè ad ogni topo di spavento Colmo rimase al fiero scoppio il petto, Al pugnar non perciò divien più lento. Non che l'imprese a lasciar sia costretto; I nemici più incalza, a farne intento Orrenda strage, e ben seguia l'effetto, Ma dal cielo a pietate allor si move, E a spedir presto Ausiliarj è Giove.
LXXVIII Ed eccogli venire in un istante Col dorso a incude, e con le branche torte, Co'passi a sgembo, e schiena luccicante, Larghe, ed ossute spalle, e gambe storte: Han bocche di tamaglia, ed al sembiante Coccio diresti la lor pelle forte: Son balbi, e senza mani, e per mani anno Tendini, e in petto loro gli occhi stanno.
LXXIX E d'otto gambe sono, e di due teste, E Granchi an nome; egli entrano in battaglia, E ciascun d'essi con gran furia investe I topi, ed alla vita lor si scaglia; E con le bocche micidiali infeste: Per ogni banda gli ferisce, e taglia; Onde si veggon sul terreno in brani Cader di topi e code, e piedi, e mani.
LXXX In pria ogni topo volge altier la faccia Al novello nemico, e l'asta impugna La vibra poi con le robuste braccia, E a più potere valoroso pugna. Ma l'asta in man, senza che piaga faccia, Si piega, onde non più regge alla pugna, E si mette, meschino, in quel momento Quindi a fuggir, ripieno di spavento.
LXXXI Febo sin dall'uscir da'lidi eoi, Per rimenarne il dì co'rai lucenti, Sempre avea con piacer de'nuovi Eoi L'armi stranie mirate, e l'ire ardenti; Veduto il fin della battaglia a'suoi Corsier rallentò il morso, e le altre genti Opposte ad allumar ratto ne gio; E tanta guerra in sol dì finio.
LXXXII O mio lavoro, in cui ritrar tentai Del miglior Vate un'opera gentile, Perchè inesperto artier colori usai Smorti, rozzi pennelli, e tela vile, All'eccelsa pittura impari assai, Che nulla, o poco sembri tu simile, Perciò vanne colà dove le chiare Onde il Sebeto da in tributo al mare.
LXXXIII Ivi è la gran Città reale, e bella, Cui il nome una donò delle Sirene, A'costumi, agli studj, alla favella Seguace un tempo della dotta Atene; E benchè il labbro or parli ivi in novella Guisa, l'altre gran doti ancor ritiene, E (I) uom saggio vi ha, che della lingua ancora Interamente i danni le ristora.
LXXXIV Di quel sermon maestro e'destinato, Ch'è del vero saper la fonte viva, Sì bene il sa spiegar, che sembra nato Nell'età, che più bel quello fioriva: Luogo manco non vi ha, senso intralciato, Sformata voce in marmo, o carta Argiva, Ch'egli non compia, non discisti, emende Così, che tutto al primo stato rende.
LXXXV Tu a lui ti mostra, o mio Lavoro, ed ei, Che ha pien d'attico mel la lingua, e'l petto, Non sia, che sdegni (qualunque tu sei) A parte a parte esaminar tuo aspetto; Co'pennelli maestri indi, e con bei Colori in te emendare ogni difetto. Ma se i color non giovano, e i pennelli, Prenda la spugna, e in tutto ti cancelli.
(I) Il Chiarissimo Signor D. Giacomo Martorelli Professor di lingua greca nell'Università di Napoli.
Il fine della Battaglia delle Rane, e de' Topi di Omero.