Tropea - Palazzo Toraldo - Sorrentino in Largo Galluppi
Esperienza professionale
diritto pubblico
di Antonio Sorrentino
(Estratto dal Convegno Messina - Taormina 3.8 novembre 1981 Cinquanta anni di esperienza giuridica in Italia , Giuffrè Ed. 1982 e
inserito in In ricordo di Antonio Sorrentino nel centenario della nascita, 2008, a cura dei figli Franca, Federico e Roberto)
Mi sento imbarazzato a prendere la parola dopo aver udito tante approfondite relazioni, che hanno spaziato in ogni campo del diritto e che si sono risolte in vere e proprie lezioni di maestri del diritto; a cominciare da quella fondamentale del prof. Falzea, il quale ha altresì il merito, insieme alla casa Giuffè, di aver organizzato questo congresso e di averlo organizzato magnificamente.
Probabilmente la mia difficoltà deriva anche dal tema che mi è stato affidato; mentre le relazioni sull’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza potevano trovare dei punti di riferimento nelle manifestazioni più salienti della scienza giuridica o della giurisprudenza, una relazione sull’esperienza professionale dell’avvocato non ha riferimenti precisi. Non credo che io debba parlare della mia esperienza personale, che non interessa nessuno; ma un discorso sull’esperienza professionale dell’avvocato pubblicista in genere non può essere che generico e superficiale.
E’ ben vero che ci sono state sul tema due magnifiche relazioni; non ho avuto la fortuna di ascoltare quella del collega Grande Stevens, ma ne ho sentito gli echi; ho invece potuto ammirare quella dell’avv. Casalinuovo, ma io non ho le doti dell’insigne penalista, oratore efficace ed arguto.
Mi debbo quindi affidare alla vostra comprensione ed alla vostra benevolenza.
Il mezzo secolo, cui si riferisce l’oggetto di questo congresso, ha visto nell’ordinamento italiano una radicale trasformazione, certo superiore a quella che si verificò in Italia nella seconda metà del secolo scorso quando il piccolo Regno del Piemonte si trasformò nello Stato italiano: il primo quarto del mezzo secolo fu caratterizzato da un regime dittatoriale; poi ci fu la guerra, con tutti gli sconvolgimenti che ha prodotto, poi la nuova concezione dello Stato e la Costituzione del 1947.
Com’è stato esattamente sottolineato, la nuova Costituzione ha portato delle innovazioni profonde in tutti i rami del diritto; ma forse nel diritto pubblico ancora più incisive, avendo modificato le stesse strutture della pubblica amministrazione; quelle strutture di cui noi avvocati pubblicisti particolarmente ci occupiamo: dallo Stato dittatoriale, accesamente nazionalista, siamo passati ad uno Stato che ha limitato la sua sovranità con l’adesione al Mercato Comune, con il riconoscimento del valore diretto delle leggi della Comunità come leggi dello Stato italiano, senza necessità di un atto di recezione, con la creazione di un organo di giustizia internazionale, le cui sentenze hanno lo stesso valore delle sentenze dei giudici interni.
In questo secondo periodo si è aperto un contenzioso del tutto nuovo, non solo quello ora accennato di carattere internazionale, ma anche sul piano interno; basta pensare al contenzioso costituzionale. Non che questo non si concepisse prima, perché i problemi di costituzionalità delle leggi sono coevi allo stesso concetto di Costituzione e ricordo che nel secolo scorso la Cassazione si occupò della costituzionalità dei decreti-legge. Poi ci fu la legge sul Gran Consiglio del fascismo, che creò una categoria particolare di leggi che dovevano essere approvate con una procedura speciale; il problema della costituzionalità di queste leggi è venuto in luce piuttosto dopo la Costituzione, quando si è dovuta esaminare la legittimità di alcune leggi in quelle determinate materie che non avevano seguito il particolare procedimento.
E parlo del contenzioso perché per noi avvocati pubblicisti costituisce l’attività di gran lunga prevalente; noi non siamo chiamati come i civilisti a comporre o ad agevolare la composizione di controversie fra privati; la nostra, peraltro limitata, attività consultiva si risolve nel dar pareri a qualche ente pubblico sul comportamento da tenere; compito assai impegnativo se si pensa, da un lato alla difficoltà intrinseca dei quesiti in materie ove di solito si succedono caoticamente leggi non sempre perspicue, dall’altro che il comportamento, da noi suggerito, viene poi sottoposto alle censure della parte interessata davanti ai giudici che spesso ci danno torto, annullando provvedimenti che abbiamo consigliato. E quante volte saremmo tentati di rispondere: non è chiara la soluzione della questione, non siamo in grado di dare una risposta tranquillante; purtroppo però dobbiamo rispondere con la consapevolezza della dubbiezza della risposta.
Ma è soprattutto la creazione di una Costituzione rigida (o parzialmente rigida) e di un giudice specializzato per i problemi di costituzionalità delle leggi che hanno determinato un notevole contenzioso costituzionale, peraltro non riservato agli avvocati pubblicisti, sia per la impossibilità (e – direi – anche la inopportunità) di creare compartimenti stagni nella nostra professione, sia e soprattutto perché i problemi della costituzionalità delle leggi toccano il campo del diritto in ogni suo settore e constatiamo come gran parte di questo contenzioso sia trattato, ad es., dai colleghi penalisti.
Il contenzioso costituzionale comprende anche il contenzioso sui conflitti, conflitti fra regioni e Stato e conflitti fra i poteri dello Stato. Questi sono stati pochi e forse avrebbero potuto e dovuto essere di più; e, dissentendo alquanto da quello che ieri ci diceva il cons. Brancaccio, io trovo che la Corte costituzionale dovrebbe essere chiamata a stabilire i limiti dell’azione del potere giudiziario nei confronti dell’Esecutivo, che è anche esso un potere dello Stato, al pari di quello giudiziario e che perciò ha bisogno della sua sfera di autonomia, di insindacabilità, su cui non di rado incidono provvedimenti cautelari del giudice.
Il mi domando che cosa succederebbe se un pretore o un giudice istruttore sospendesse dal servizio, in base ad un potere che il codice Rocco gli accorda, ad es. il Capo della polizia o il Governatore della Banca d’Italia; mi riferisco a queste due autorità perché sono state di fatto incriminate, anche se poi il processo ha dovuto riconoscere la infondatezza delle accuse.
Si può avere una misura cautelare di un pretore che tocca interessi fondamentali dello Stato; ora l’Amministrazione ha pure bisogno di una tutela, di una sfera discrezionale che spesso le è disconosciuta; quindi se si portasse alla Corte costituzionale il problema dei limiti dell’autonomia del potere esecutivo nei confronti del potere giudiziario io credo che la Corte costituzionale potrebbe indirizzare verso soluzioni più conformi al nostro ordinamento. Con ciò non voglio affermare l’esenzione della responsabilità penale dell’amministratore che sbaglia; bensì solo il riconoscimento della garanzia della sfera di attribuzione di un potere dello Stato. Anche se la nostra Costituzione non è più orientata sulla ripartizione del Montesquieu, tuttavia essa è insita in ogni ordinamento e non si concepisce uno Stato moderno che non distingua le tre funzioni dello Stato, anche se ciò non è scritto nella Carta costituzionale.
L’ordinamento regionale ha creato dei problemi – anche di notevole gravità – oltre che sul piano costituzionale, su quello amministrativo, sia nei rapporti fra regioni e Stato (i giudici amministrativi hanno respinto la tesi dell’Avvocatura dello Stato che i problemi di competenza amministrativa fra lo Stato e regione potevano essere esaminati solo in sede di contenzioso costituzionale) sia ai fini di accertare se la competenza a provvedere spettasse all’uno o all’altro ente.
Questi nuovi aspetti del contenzioso pubblicistico hanno arricchito la nostra esperienza di avvocati pubblicisti. Al riguardo va poi sottolineato il ruolo che ha preso la Corte dei conti. Dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali i Consigli di prefettura, la Corte dei conti ha esteso la sua attività e la sua sfera di competenza a tutta la pubblica amministrazione, attraverso un’interpretazione molto lata delle leggi, che parlano della competenza della Corte dei conti nei soli riguardi degli agenti dello Stato e degli enti pubblici territoriali; in relazione a detta interpretazione tutti gli enti pubblici, anche gli enti pubblici economici, sono stati sottoposti alla giurisdizione ed al controllo della Corte dei conti, per ciò che riguarda la responsabilità cosiddetta contabile. Mi rendo conto che questo è dovuto anche alla necessità di rimediare ad una certa rilassatezza dei costumi, ma noi dobbiamo tener conto di questa nuova realtà, di questo nuovo contenzioso amplissimo che ci si apre, e rileviamo quotidianamente che amministratori di enti pubblici e ministri sono sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti per danni che si dicono conseguenti alle loro azioni o omissioni.
Un avvocato pubblicista non può non occuparsi dell’attività che si svolge davanti ai giudici ordinari; perché è il giudice ordinario che conosce dei diritti verso la pubblica amministrazione. Questo forse è un contenzioso che ha dato meno luogo a problemi, perché, data la consistenza del diritto, questo può trovare piena soddisfazione nel giudizio ordinario nonostante i divieti di revoca o di annullamento degli atti amministrativi; e non mi risulta che i giudizi di ottemperanza, per ottenere l’annullamento di un atto dichiarato illegittimo dal giudice ordinario, siano stati numerosi. Segno è che l’interesse personale è soddisfatto dalla pronuncia del giudice. Il ruolo della Corte di cassazione è importantissimo, soprattutto ai fini della discriminazione delle giurisdizioni. In un ordinamento come il nostro che ha posto come criterio di distinzione un concetto elastico e non preciso, come quello di interesse legittimo, l’individuazione dei limiti dell’interesse legittimo rispetto al diritto, rispetto all’interesse di fatto, pone dei problemi di una difficoltà pratica enorme, come l’entità del contenzioso su questo aspetto conferma. Negli anni ’30 si era trovata una certa sistemazione; sono state eliminate delle divergenze che prima sussistevano anche all’interno stesso del Consiglio di Stato, dove le due sezioni seguivano strade divergenti; ma questa sistemazione se ha eliminato alcune divergenze non le ha eliminate del tutto, in quanto residuano delle zone, ancora oggi di contrasto; cito per esempio la possibilità dell’esame da parte della Corte di Cassazione della sussistenza dell’interesse legittimo e dello stesso interesse ad agire.
E’ sorto anche il problema dell’applicabilità dell’istituto introdotto dal codice del ’42 del regolamento preventivo di giurisdizione; le due massime giurisdizioni amministrative hanno rifiutato questo controllo preventivo della loro attività. E’ accaduto però che il Consiglio di Stato, un po’ per la forza delle cose, un po’ per l’intervento di una espressa disposizione contenuta nella legge sui TAR ha accettato, prima in via di prassi, cioè rinviando le cause, poi anche formalmente l’ammissibilità di questo controllo preventivo. Ma la Corte dei conti è tuttora ancorata ad un rifiuto netto del regolamento preventivo.
Secondo me questo atteggiamento è dovuto ad un malinteso senso di prestigio, il quale si risolve in danno delle parti e quindi di noi che rappresentiamo, perché porta ad una moltiplicazione di giudizi, allo spreco di attività giurisdizionali posto che in definitiva l’ultima parola la deve pur dire la Cassazione; e quando la Corte dei conti o il Consiglio di Stato decidono egualmente, interviene la Corte di Cassazione ad annullare la loro pronuncia, talvolta anche se riconosce che la controversia appartiene alla loro giurisdizione, per la sola ragione che la pronuncia è stata resa in pendenza del giudizio per il regolamento preventivo.
Del pari superato pareva il dissenso sulla giurisdizione in materia di impiego con gli enti pubblici economici. Qui il Consiglio di Stato, dopo notevoli perplessità, ha dovuto accettare la tesi della Corte di Cassazione, mentre questa aveva fatto una certa marcia indietro ammettendo che anche in questo settore residuava una larga zona di interessi legittimi, di competenza del giudice amministrativo. In tempi recentissimi pare che le sezioni unite si orientino verso soluzioni più radicali, riconoscendo la giurisdizione del giudice ordinario ed in particolare del giudice del lavoro anche sugli interessi legittimi, orientamento questo che non può non suscitare gravi perplessità e preoccupazioni negli operatori del diritto, non tanto per l’opinabilità del criterio, quanto per le conseguenze pratiche, dato che la realizzazione dell’interesse legittimo leso dall’atto amministrativo altra sanzione non può avere nel nostro ordinamento che l’annullamento dell’atto, senza la sostituzione della volontà dell’amministrazione con quella del giudice; avremo ora che i giudici del lavoro debbono emanare gli atti amministrativi in sostituzione di quelli illegittimi?
Aggiungerei che in definitiva di fronte ad un atto di amministrazione attiva compiuto dal giudice, la tutela degli interessati può risultare sostanzialmente attenuata.
Altre zone di ombra riguardano ancora i limiti della due giurisdizioni in alcune materie, ad es., quella sulla valutazione della sussistenza dell’interesse legittimo e talvolta dello stesso interesse ad agire oppure in tema di espropriazioni per pubblica utilità, decretate al di fuori dei termini prefissati. Divergenze che si ripercuotono su noi avvocati, nell’incertezza in cui ci pongono sul giudice da adire e per il pericolo che la nostra attività venga resa vana, con le preoccupanti conseguenze che ne derivano anche in tema di decadenza dall’azione. Il che ci fa spesso ricorrere alla umiliante iniziativa di proporre contemporaneamente due distinti giudizi, ignorando quale andrà a buon fine, con evidente dispendio di mezzi e di energie ed una sicura perdita di tempo, il che non conferisce certo alla dignità della nostra funzione, specie nei confronti della parte da noi assistita, non sempre consapevole di queste insidie, insite nella nostra professione e non per nostra colpa.
Ma dove le riforme sono state più notevoli è proprio nel campo della giustizia amministrativa vera e propria, che per noi avvocati pubblicisti costituisce il settore maggiore della nostra attività. L’istituzione dei giudici regionali, i TAR, ha costituito una riforma radicale che ha innovato incisivamente al sistema tradizionale della giustizia amministrativa. La riforma ha avuto un grave inconveniente: nel campo della giustizia amministrativa, intesa come giurisdizione sugli interessi, la rapidità dell’intervento del giudice è essenziale per ripristinare l’ordine giuridico; il ritardo può rendere vana la fatica di noi avvocati. Si verifica nel nostro campo un fenomeno analogo a quello che notava ieri il prof. Conso: egli diceva che, date le lungaggini del processo penale, l’istruttoria si trasforma nella fase repressiva. Noi amministrativisti siamo costretti ad anticipare i termini della discussione sul piano delle domande pregiudiziali di sospensione perché, se otteniamo la sospensione, possiamo ottenere giustizia; se non la otteniamo, l’annullamento che venga a distanza di anni diviene inutile perché nel frattempo si sono determinate delle situazioni che in linea di fatto o in linea di diritto è impossibile rimuovere.
Tipico è il caso dei provvedimenti ablativi della proprietà; di fronte ad una giurisprudenza fermissima dei giudici civili, secondo cui la trasformazione del bene ad opera della pubblica amministrazione non può essere rimossa dal giudice perché questo trova l’ostacolo nel divieto della revoca o della modificazione dell’atto amministrativo, l’annullamento dell’atto espropriativo quando l’opera è già costruita (od anche se è in corso di costruzione) non trova altra sanzione che il risarcimento del danno; il che può avere rilevanza pratica là dove la legge prevede indennizzi che non corrispondono al valore effettivo del bene espropriato, ma ha scarsa importanza quando l’esproprio va fatto con indennizzi che corrispondono al valore venale del bene espropriato; il risarcimento del danno si risolve praticamente nel medesimo valore.
Con la istituzione dei TAR si è verificato il prolungamento dei giudizi; non solo per il doppio grado di giurisdizione; ma soprattutto per la moltiplicazione delle cause cui non corrisponde un adeguamento delle strutture; una volta le cause – e convengo che fosse un inconveniente – passavano attraverso il filtro di pochi specialisti, generalmente residenti a Roma; adesso la giustizia è aperta a tutti; il solo TAR di Roma ha ogni anno il doppio dei ricorsi che aveva il Consiglio di Stato. Pensate che i TAR sono 20 e vedrete come si è moltiplicato questo contenzioso.
Con ciò non voglio dire che la riforma abbia avuto solo questo aspetto negativo; essa certamente ha avuto dei vantaggi e cospicui, avendo chiamato delle giovani energie a portare delle idee nuove nel campo della giustizia amministrativa, giovani forze che porteranno un notevole contributo allo sviluppo della difesa del cittadino verso la pubblica amministrazione.
E qui vorrei toccare un aspetto che mi sembra il più importante della mia relazione.
La materia trattata da noi avvocati pubblicisti è meno vincolata, soprattutto sul piano del diritto sostanziale, da una precisa disciplina, il che accentua le difficoltà del nostro compito e la sua importanza.
Nonostante molte enfatiche affermazioni sul ruolo insostituibile dell’avvocato quale collaboratore della giustizia, accade frequentemente che alla sua attività non sempre si dà il giusto riconoscimento da parte dei giudici, portati piuttosto a sottovalutare (ma non solo nel nostro settore) il nostro contributo.
Ma io vorrei affermare al contrario con ogni fermezza e con piena consapevolezza che la funzione del legale non è solo insostituibile per la difesa degli interessi coinvolti nel processo, ma è il primo motore dell’evoluzione della giurisprudenza.
E’ l’avvocato che prospetta al giudice le ragioni delle parti interessate al processo; ed è attraverso la dialettica delle tesi contrapposte che il giudice può vagliare la fondatezza delle misure che gli si chiedono e la loro compatibilità con i principi dell’ordinamento.
Oserei dire che, senza l’iniziativa degli avvocati, la maggior parte delle conquiste della nostra civiltà giuridica non si sarebbe avuta, particolarmente in un settore come il nostro, meno legato a concetti tradizionali.
Ieri la relazione Brancaccio ha parlato di quell’innovazione che la Cassazione ha fatto riconoscendo l’applicabilità diretta dell’art. 111 alle sentenze delle giurisdizioni speciali; ma io mi domando: si sarebbe avuto questo risultato se non ci fosse stata l’opera di noi avvocati che con la nostra fantasia, con il nostro impegno le abbiamo sottoposto questi problemi? Le evoluzioni della giurisprudenza, quelle che si chiamano conquiste della giurisprudenza sono in massima parte dovute a noi avvocati.
Quante volte siamo dovuti andare davanti alla Corte di Cassazione a parlare dell’inammissibilità dell’istituto del Ministro giudice; quando la Cassazione ha finito per riconoscere l’esattezza della nostra tesi, si è avuto un netto progresso; ed esso va ascritto prevalentemente all’opera dell’avvocato. La nostra funzione può essere anonima, può non venire in rilievo; però, per quanto anonima, essa è essenziale; in realtà è il motore che ha portato la giurisprudenza a certe posizioni; ricordiamo tutti la figura dell’eccesso di potere, che oggi è alla base della giustizia nel campo amministrativo; essa è una creazione della giurisprudenza, ma sollecitata da noi avvocati. L’eccesso di potere, come fu concepito dal legislatore del 1889, riguardava lo straripamento del potere, quello che si chiamava l’eccesso di potere giurisdizionale; se adesso si è venuti ad un’analisi più approfondita del comportamento dell’amministrazione, riconoscendo che se un provvedimento che, formalmente ineccepibile, può non essere la manifestazione di un potere esistente, in quanto non preordinato alla realizzazione dello scopo che era alla base della norma, ciò si deve anche generalmente a noi avvocati.
L’attuale tormento sul giudizio di ottemperanza, al quale i TAR con la forza più giovane di energie stanno dando un notevole rilievo e che rappresenta il coronamento della giustizia amministrativa (il cui esercizio è spesso reso vano di fronte all’atteggiamento dell’amministrazione di non eseguire le sentenze del giudice amministrativo), non è il tormento dei giudici ma è anche il nostro tormento, la nostra insoddisfazione. Può darsi che in questi nuovi orientamenti si rischi di andare troppo avanti; non occorre perdere di vista che l’oggetto della tutela è un interesse e non un diritto; e non occorre arrivare al punto di esigere che il giudice si sostituisca all’amministrazione; un atto amministrativo emanato con una sentenza può essere più pericoloso di un atto amministrativo adottato dall’amministrazione. Ma il problema dell’esecuzione della pronuncia del giudice amministrativo è ben lungi dall’essere risolto.
Ingiustificato è quindi l’atteggiamento di qualche giudice, talvolta espresso, molte volte sottinteso ma non nascosto (che fortunatamente non è di tutti), per cui l’intervento dell’avvocato costituisce causa di perdita di tempo e di inutili complicazioni. Ad un sereno esame di coscienza egli dovrebbe riconoscere il contributo che l’avvocato gli dà ai fini della decisione della controversia.
Certamente la critica che il giudice fa dell’opera dell’avvocato non sempre è ingiustificata. Occorre che anche da parte nostra si faccia un sereno ed obiettivo esame di coscienza, per vedere quante volte – e non sono poche – noi non cerchiamo di complicare le cose e ricorrere ad ogni mezzo per ritardare l’affermazione della legge, quando questa secondo noi sarebbe sfavorevole agli interessi che difendiamo.
Non che io voglia criticare siffatta mentalità; i modi di tutela degli interessi che ci vengono affidati possono comprendere, e legittimamente comprendere, il ricorso anche a sistemi dilatori di difesa ed anche l’assunzione di veri e propri «cavilli», soprattutto al fine di far valere ragioni di decadenza ed eccezioni meramente dilatorie, che il processo largamente offre. Intendo dire invece che, ferma restando la responsabilità dell’organizzazione della difesa, la critica del giudice in casi del genere coglie il segno.
Ma soprattutto è importante rilevare che, al di là di questi occasionali mezzi di difesa, l’opera dell’avvocato va vista nel suo complesso: nel difficile compito che egli ha di interpretare la legge prima del giudice, di utilizzare gli strumenti che l’ordinamento gli accorda per il trionfo del diritto, di sottoporre al giudice gli argomenti che egli deve valutare ed apprezzare ai fini della attuazione della legge.
E’ questo il vero contributo che l’avvocato deve dare e dà all’opera del giudice; il che può fare per la conoscenza più diretta del caso concreto e delle effettive esigenze della parte che rappresenta ed anche per la sua forma mentis che lo differenzia da quella di chi è chiamato a giudicare.
Compito difficile ed impegnativo; al quale danno un particolare contributo non solo gli avvocati docenti di diritto ma anche i semplici pratici, che con dignità intendono l’effettivo contenuto del loro compito.
E se dovessi fare dei riferimenti ai valenti avvocati di grandissimo ingegno, esperienza ed impegno che ho conosciuto ed apprezzato nella ormai lunga mia attività, che ho visto nell’esercizio effettivo della loro professione (mi riferisco per ovvie ragioni soltanto a coloro che sono scomparsi), dovrei ricordare assieme a Federico Cammeo, con il suo inesorabile argomentare, a Ugo Forti, forse il più suadente degli avvocati che ho sentito, a Lessona, caratterizzato dall’eleganza del suo dire, a Guicciardi, non secondo a nessuno nello scrupolo della difesa e nella logica argomentativa, tanti e noti avvocati non docenti, ai professori non inferiori per lo scrupolo, l’impegno, e l’acutezza; fra i quali nel nostro campo voglio ricordare solo pochissimi: Selvaggi, Piccardi e Dedin.
Se un rammarico deve esprimersi – e lo si esprime nei confronti dei giuristi – esso riguarda la loro quasi esclusiva tendenza alla astrattezza e la scarsa attenzione prestata ai profili pratici; non disconosco che la perfetta conoscenza dei principi è sì indispensabile per la formazione del giurista – sia dell’avvocato, come del giudice – ma non sempre essa ci aiuta a risolvere i casi concreti che la pratica della vita quotidianamente offre.
L’assenza – e non solo nel nostro campo – dell’aderenza dei docenti ai problemi pratici della giustizia è – a mio avviso – una delle cause principali – se non la principale – di una certa decadenza della giurisprudenza e, prima ancora, dell’attività del difensore, chiamato a dover risolvere sulla base dei soli principi generali e delle astratte configurazioni giuridiche i problemi concreti che gli si presentano, senza la possibilità di poter ricorrere all’ausilio di chi più di lui e meglio di lui conosce il diritto; confessiamolo fra noi avvocati: quante volte abbiamo inutilmente consultato i testi per trovare un aiuto che ci indirizzasse nell’impostare la causa ed abbiamo dovuto rivolgerci esclusivamente alla giurisprudenza; la quale, priva a sua volta della guida della dottrina, finisce frequentemente per limitarsi a risolvere, spesso non coerentemente, il singolo caso, senza la visione generale dei problemi della giustizia.
E tuttavia anche in queste difficoltà e pur mancandoci l’aiuto effettivo della dottrina (direi personalmente che l’autore al quale più spesso mi sono rivolto senza che mi abbia deluso è ancora Federico Cammeo ed è quanto dire!), dobbiamo modestamente riconoscere che il contributo che abbiamo dato all’evolversi della giurisprudenza è notevole.
Le innovazioni della Costituzione hanno, come dicevo, arricchito il nostro contenzioso; il primo quarto di questo mezzo secolo, è rappresentato da un regime dittatoriale, che ha esteso la sua attività nel campo dei rapporti privati, in maniera prima sconosciuta. Ma con la caduta della dittatura non è cessata questa ingerenza della pubblica amministrazione e ciò per ragioni varie, per ragioni di politica legislativa che non sto qui a sindacare. Subito dopo si è intensificato questo controllo; vi è stata tutta la legislazione per il controllo sull’attività economica dei privati, sia con la programmazione, sia con provvedimenti concreti. Pensate alla legislazione sui prezzi ed alla nazionalizzazione dell’energia elettrica per rendervi conto del contenzioso che ne è derivato.
Noi abbiamo oggi un contenzioso, soprattutto nel campo amministrativo, assai più ricco, assai più vario e interessante di prima. Chi volesse sfogliare un repertorio di giurisprudenza degli anni ’20 ed uno degli anni ’70, ne vedrebbe l’enorme sviluppo. Negli anni ’20 il contenzioso si esauriva praticamente nelle questioni del pubblico impiego e di qualche licenza di commercio; adesso abbiamo il contenzioso sul controllo dei prezzi, sulla programmazione, sui provvedimenti di esportazione e di importazione, senza parlare della legislazione urbanistica. La legislazione urbanistica, che offre un sì largo campo di attività all’avvocato e al giudice, è venuta in rilievo soprattutto nel dopoguerra.
Questo rapido e sommario excursus dimostra come l’attività di noi avvocati pubblicisti sia divenuta più impegnativa e più difficile.
E – oserei dire – più proficua di risultati positivi. I quali si debbono non solo al fatto che, tra noi, ci sono i più illustri docenti della materia, che portano nella pratica quotidiana i risultati della loro preparazione scientifica; ma per la massa degli avvocati, la cui opera va apprezzata in generale e che spesso senza la guida di una dottrina sicura e consolidata, fanno ogni sforzo per adempiere al loro compito.
Il contributo degli avvocati va visto nel suo complesso e deve essere giudicato positivamente come già rilevato; possiamo dire senza falsa modestia che, se la giustizia amministrativa ha fatto l’evoluzione che tutti conosciamo ed ha introdotto quelle innovazioni che hanno completato il sistema di tutela del cittadino, siamo noi avvocati che ne abbiamo dato l’occasione ed abbiamo offerto gli elementi per farlo; per limitarmi ad alcune fondamentali innovazioni che hanno completato il sistema di tutela del cittadino, siamo noi avvocati che ne abbiamo dato l’occasione ed abbiamo offerto gli elementi per farlo; per limitarmi ad alcune fondamentali innovazioni, ricordo, a parte quanto già detto, l’impugnativa dei provvedimenti taciti, che ha consentito la tutela di situazioni prima sprovviste di protezione (settore peraltro in cui c’è ancora molto da fare).
E proprio sul punto dell’insoddisfazione per la tutela, nei limiti in cui l’ordinamento oggi la riconosce, non posso tacere le parole che si leggono in una lettera ufficiale di un Presidente del Consiglio di Stato quando si domandava come fosse giudicata dagli utenti del diritto l’opera del Consiglio stesso; e si chiedeva «non tanto se le parti soccombenti si persuadono della loro sorte, quanto se le parti vittoriose sono liete del loro trionfo o se questo non sia di sovente amareggiato o quasi annullato dalla lunghe insopportabili attese e dal relativo dispendio di energie e di denari; vorrei sapere – prosegue – se le fatiche dei volenterosi che compongono il Consiglio di Stato riescano a risarcire le patite offese, se riescano a realizzare qualche cosa di diverso e di più alto di una semplice giustizia formale» (1) . Perché questo non si verifichi, perché la giustizia amministrativa, che è il settore più importante della giustizia nel campo pubblicistico, non si riduca a vano formalismo, ogni sforzo deve essere compiuto, oltre che dai giudici, da noi avvocati ed è questo, in una prospettiva di carattere generale, il nostro dovere più importante.
Personalmente anch’io, nella mia veste di avvocato, sono stato spesso assalito dallo stesso dubbio e mi sono domandato – ed ho fatto osservare alla parte che sollecitava il mio intervento – se la auspicata vittoria poteva avere concreti risultati pratici.
Questo purtroppo è il lato debole della nostra attività, che noi non possiamo evitare fino a quando perdurino i vigenti ordinamenti; ma che possiamo limitare con la nostra tenacia e la nostra fede.
Ad esempio sul problema dei danni causati dall’atto amministrativo annullato dal giudice amministrativo, si deve alla nostra tenacia se comincia ad aprirsi qualche spiraglio nella giurisprudenza finora assolutamente negativa delle sezioni unite della Corte di Cassazione.
Conquiste del genere, sul piano generale, che al di là degli interessi concreti da noi tutelati, aprono la via ad una giustizia più completa sono le maggiori ragioni di orgoglio e di soddisfazione di noi avvocati.
Con questa speranza e con la fiducia nelle giovani leve, cui oggi, attraverso l’istituzione dei TAR, è affidata la giustizia amministrativa io chiudo questa mia chiacchierata; è un atto di fede, che mi deriva da un innato senso di fiducia nella giustizia della pubblica amministrazione.
NOTE
(1) L. SEVERI, Lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri, in Il Consiglio di Stato nel quadriennio 1947-50.
ANTONIO SORRENTINO | ||||
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