La copertina del libro Scapigliatura e Fin de Siècle. Libretti d’opera italiani 1860-1915. Scritti in onore di Mario Morini, a cura di J. Streicher, ISMEZ, 2006, nel quale è inserito il saggio della Dr.ssa Sonia Teramo Il Gennarello dei fratelli Cipollini: un'opera di ambientazione calabrese. Il libro può essere richiesto all'ISMEZ attraverso il sito web dell'Istituto: www.ismez.org/ Per consultare l'indice completo del libro cliccare indice.pdf
Il Gennarello dei fratelli Cipollini: un’opera di ambientazione calabrese
di Sonia Teramo
Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento diversi compositori e librettisti scelsero il meridione italiano come ambientazione dei loro melodrammi successivamente definiti per le loro caratteristiche, sono stati definiti «plebei»1 e collocati nell’area del Verismo musicale. Opere come Cavalleria rusticana (1890), ambientata in Sicilia, A Santa Lucia di Pierantonio Tasca su libretto di Enrico Golisciani (1892) o A basso porto di Nicola Spinelli, con testo di Eugenio Checchi (1894), entrambe ambientate a Napoli, rappresentano tre chiari esempi dell’immagine che all’epoca veniva offerta del nostro Mezzogiorno. Tra le regioni meridionali alcuni autori privilegiarono per le loro ambientazioni la Calabria e, a tal proposito, l’opera più nota nel periodo di riferimento è sicuramente Pagliacci di Ruggero Leoncavallo (1892), ambientata nel paesino di Montalto Uffugo (Cosenza)2; accanto a questa, ve ne furono altre come l’atto lirico in due parti Il Pastore (1920) di Edoardo Berlendis su testo di Perico e Lega e il Gennarello (1891) dei fratelli Gaetano e Antonio Cipollini. I motivi della scelta di una tale ambientazione erano diversi ma per quest’ultima opera essa è sicuramente dettata dalle origini calabresi dei due autori: Gennarello è ambientata «nelle vicinanze di Monteleone Calabro»3, l’attuale Vibo Valentia, nonché città natale dell’autore del libretto Antonio Cipollini4 e fratello del compositore, nato invece nella vicina Tropea5. Allievo di Francesco Coppa e in seguito del Collegio di musica ‘S. Pietro a Majella’ di Napoli, dove studiò armonia e contrappunto6, Gaetano Cipollini lavorò sempre insieme al fratello Antonio7, che alla fine dell’Ottocento lo seguì a Milano dove entrambi furono attratti dalla vita artistica e culturale di quella città ed entrarono in contatto con gli esponenti della Scapigliatura cittadina8. Non poteva esserci migliore unione artistica se non quella tra due fratelli uniti da comuni radici classiche. Antonio Cipollini, definito dal critico de «Il Teatro Illustrato» «Il felice traduttore di Teocrito»9, influenzò non poco il fratello che «per la ricchezza dei suoi studî e per la profondità delle sue ricerche, è giunto a formarsi uno stile classico dei più puri»10.
Gennarello si colloca tra Simeta11, che rappresenterà per Gaetano Cipollini un grande rammarico, un’opera destinata a dormire sepolta viva12 e Il piccolo Haydn13, l’opera che rese noto il compositore. Subito dopo la delusione per la mancata rappresentazione di Simeta14, Gaetano Cipollini, sempre con la collaborazione del fratello Antonio che aveva scritto il testo ancor prima di Simeta15, si dedicò alla composizione di Gennarello, dramma lirico in tre atti e quattro quadri, per la cui rappresentazione avvenuta il 1° giugno 1891 al Teatro Manzoni di Milano si addossò personalmente tutto l’onere delle spese16. Alcuni giudicarono questa scelta come «vanità di diventare un autore rappresentato»17 ma in realtà Cipollini era guidato semplicemente dal desiderio di avere un giudizio critico del pubblico, «[…] voleva sapere da un pubblico vero, composto di persone cha vanno a teatro perché amano l’arte, se in lui c’era la stoffa del musicista e dell’operista». Le parole di Frustino sono significative per illustrare la scelta di questo secondo soggetto e ambientazione da parte dei fratelli Cipollini:
Aveva nella prima compresa e resa la grande passione della fanciulla della Sicilia greca [l’autore si riferisce ovviamente alla composizione di Simeta]; ripiegandosi su sé stesso, ricordando gli incantesimi e le genialità tipiche della sua forte terra Calabria, volle esprimere la passione della fanciulla calabra, passione forte come quelle selve, pura come quell’aria, misteriosa come quelle foreste.19
«È difficile precisare a qual genere sia da ascrivere questa nuova opera» si chiedeva il critico della «Gazzetta Teatrale Italiana» pochi giorni dopo la prima rappresentazione, augurandosi che Cipollini fosse «incoraggiato a scrivere altro lavoro più improntato ad una forma moderna, e nel quale molto probabilmente riuscirà a staccarsi anche dalle reminescenze»20. Simili giudizi riecheggiavano anche nelle parole di altri critici che nei giorni successivi alla prima recensirono l’opera rimproverando al musicista, appunto, «le reminiscenze frequenti e manifeste» e constatando che «Il grande guajo del nuovo lavoro sta nell’assenza di originalità, di un’impronta personale e caratteristica: qualità codeste che forse il Cipollini potrà acquistare con lo scrivere, poiché ben difficilmente chi detta la sua prima opera ha il coraggio di mettersi sopra una via nuova e di tentare ciò che non fu da altri fatto»21. È abbastanza palese in queste affermazioni il riferimento a Mascagni22 e a Cavalleria rusticana che, d’altra parte, dopo la prima rappresentazione avvenuta il 17 maggio 1890 al Teatro Costanzi di Roma, segnò una vera e propria svolta nel teatro musicale di allora. Tutti, dal Leoncavallo dei Pagliacci al primo Giordano di Andrea Chénier (1896) e Fedora (1898), presero a modello Cavalleria dando vita insieme al Verismo in musica23. Non mancarono tuttavia gli incoraggiamenti al lavoro dei fratelli Cipollini. Il critico del «Teatro Illustrato», pur affermando che «il poeta Cipollini […] avrebbe potuto servire meglio il maestro», sosteneva anche che egli non aveva fatto mancare nel lavoro «i buoni versi e le pagine appassionate» che dovevano aspettarsi dal gusto estetico di un esimio letterato come lui24. Uno dei pezzi giudicati migliori dal pubblico e dalla critica fu la romanza del I atto «Crescono al tuo verone», interpretata dal tenore Giorgio Quiroli e definita «la più bella, ispirata, indovinata pagina dell’opera»25. Fu anche molto applaudito il Coro di donne «Volate al bosco, o miei sospiri» con cui si apre il II atto26 e il terzetto «O Signore, tu che vedi», tra Donna Olimpia, Carmela e Don Alfonso27, «pezzo nel quale la melodia scorre fluida, sebbene non altrettanto originale», commenta ancora il critico del «Il Teatro Illustrato»28. Tuttavia, secondo il «Corriere della Sera», «la mestizia di tutta questa prima parte del secondo atto è interrotta bruscamente da un balletto di villanelle». Si tratta della parte del II atto dell’opera definita nella partitura «Calabresella», che prevede un balletto, secondo il critico assolutamente fuori posto e inopportuno, estraneo al dramma. Anche se «è un pezzo assai grazioso; ispirato alle danze classiche dei maestri italiani dello scorso secolo» conservandone «la movenza elegante, fine e gentile […], la composizione coreografica alquanto volgare ne ha guastato in parte l’effetto»29. Infine, nel III atto il pezzo più applaudito fu il Concertato30.
Le reminiscenze riscontrabili in questo lavoro sono certamente diverse, da ascrivere non soltanto al Verismo ma anche al grand-opéra francese, pre la presenza di didascalie con i loro molteplici usi, tra cui quella di descrizione e caratterizzazione dei costumi e della scena, l’uso dei cori anch’essi con funzioni diverse ma comunque disseminati in tutta l’opera, nonché la presenza del ballabile. Nonostante ciò nel complesso non mancano buone pagine sia poetiche sia musicali nonché costruzioni che permettono di restituire al lavoro una sua dignità. Per diversi elementi che la contraddistinguono, l’opera potrebbe dunque appartenere al Verismo musicale, anche se per molti versi sembrerebbe voler camuffare quest’appartenenza. Uno sguardo alla trama e la successiva analisi di alcuni aspetti del libretto di cui sopra (didascalie, cori, ecc.) permetteranno di individuare gli elementi dell’assunto.
LA TRAMA I ATTO - l’amore tra il cacciatore Gennarello e la giovane Carmela è ostacolato dalla madre di lei, Donna Olimpia, che vorrebbe invece dare la figlia in sposa a Don Alfonso, duca di Monteleone. Pennarello fugge via dopo aver tentato, in preda alla gelosia, di uccidere il duca, salvato da Carmela.
II ATTO - Donna Olimpia, fingendo di raccontare la storia della giovane Nella, narra invece la propria vicenda personale: Nella, rapita da giovane da un uomo feroce e da altri sgherri, viene liberata dopo un anno, viene data in sposa ad un vecchio conte da cui ha una figlia di nome Elda; un incendio distrugge il castello in cui vivono, il vecchio conte muore mentre madre e figlia vengono salvate dal guerriero Leonello. I due giovani s’innamorano ma Nella, da una crocetta d’oro, riconosce in Leonello il figlio nato dalla violenza subita nel bosco da fanciulla. Dopo aver pregato i due innamorati di rinunciare alle nozze, scrive una lettera svelando tutta la verità e si uccide gettandosi da una rupe. Intanto sopraggiunge Don Alfonso a chiedere la mano di Carmela ma lei, ancora innamorata di Gennarello, cerca di temporeggiare nel dare una risposta. Torna di nascosto Gennarello, i due innamorati si chiariscono rinnovandosi le loro promesse d’amore. Donna Olimpia scopre l’incontro segreto dei due giovani e poiché la fanciulla non comprende il motivo del tanto odio che la madre nutre verso Gennarello, le rivela, questa volta senza giri di parole, che egli è suo fratello.
III ATTO - si preparano le nozze tra Don Alfonso e Carmela ma sopraggiunge Gennarello che, in preda alla follia, vuole uccidere se stesso e Carmela. Gennarello si rivela al duca che tenta quindi di ucciderlo ma viene difeso da frate Cono che gli svela la sua vera identità e, avuto conferma da Donna Olimpia, si trafigge con il pugnale.
Antagonismo a sfondo amoroso-sessuale, gelosia, finale tragico sono tutti elementi che coincidono con quelli che caratterizzano tutto il melodramma italiano dell’Ottocento ma, in particolar modo, quello verista, rafforzati in questo libretto dalla forte presenza di elementi folklorici e di una popolazione di tipo umile che non fa da semplice contorno ma che è parte integrante dell’intera vicenda. L’elemento folklorico, caratteristico di molte opere veriste soprattutto di ambientazione meridionale31, è presente nel Gennarello innanzi tutto nella caratterizzazione ambientale. Un supporto molto utile a tale caratterizzazione viene fornito dalle didascalie che nel testo sono numerose e su cui ora vorrei soffermarmi.
LE DIDASCALIE Nel melodramma italiano di fine Ottocento si manifesta un uso molto diffuso delle didascalie, sia per una maggiore presenza numerica e per l’ampiezza sia per le funzioni che vanno al di là di quella tradizionale di semplice supporto scenico e registico al testo operistico32. Nel Gennarello si fa un ampio uso di didascalie che possiamo distinguere in due tipologie (o tipi): quelle ambientali, poste all’inizio di ogni scena, che servono a descrivere e quindi caratterizzare l’ambiente in cui si svolge l’azione, e quelle disseminate lungo tutto il testo, che accompagnano, passo dopo passo, l’azione. Sin da subito l’elenco iniziale dei personaggi che segue quello degli interpreti principali ci immerge nel luogo in cui è ambientato il dramma che è quello tipico paesano, abitato da una popolazione folta e variegata che caratterizzerà con la sua continua e numerosa presenza l’intera vicenda, divenendone protagonista al pari degli altri interpreti:
CORI di Contadini, Contadinelle, Pastori, Pastorelle ed Artigiani. COMPARSE di Gentiluomini, Cortigiani, Paggi, Guardie Ducali, Dame e moltitudini calabresi. BALLABILE di contadini e pastorelle. SCENA nelle vicinanze di Monteleone Calabro. EPOCA la prima metà del secolo scorso.
Tipologia dei personaggi del dramma, ‘dove’ e ‘quando’ sono i tre elementi che scaturiscono subito da questa breve descrizione. A supportare ulteriormente questa prima immagine è la didascalia che precede il Coro della scena I del I atto, che descrivendo con dovizia di dettagli il luogo in cui si svolge l’azione, funge da vera e propria caratterizzazione ambientale:
Gran piazzale: in fondo la fontana del villaggio, cinta di verdi salici, di colline e di monti. – A destra la casa di Gennarello e poi la Chiesetta, a cui sono attaccate le abitazioni dei contadini. – A sinistra la casa di Carmela, con finestre e balconi adorni di fiori e con un terrazzino tappezzato di edera e di rose, dal quale si discende, per una scaletta esterna, nel portico sottostante: – dopo, la torre ducale, alcune capanne intorno e le stradette. È il vespro d’una splendida giornata di aprile: le contadine del villaggio vanno con le secchie alla fontana: gruppi di contadini e di artigiani, sparsi qua e là, seduti al tavolo d'un negozio di vino, le guardano con visibile compiacenza: alcuni gentiluomini entrano nella torre ducale.
Questa didascalia riesce sicuramente bene a servire la realizzazione scenica e registica ma, allo stesso tempo, assume un valore letterario permettendo d’immergersi con naturalezza nel luogo dell’azione anche a chi, non avendo davanti la scena, legge semplicemente il testo. Un’identica funzione di descrizione scenica assume la didascalia all’inizio del II atto:
Cortile della casa di campagna di Carmela: in fondo un cancello, e poi un lungo stradone, fiancheggiato da faggi e un paesello nascosto fra gli alberi. – A sinistra è un lato della casa di Carmela, con la porta d’ingresso su quattro gradini: – a destra un boschetto. – Sedie e tavolini sparsi qua e là. – Carmela ricama un velo, stando seduta a sinistra presso un padiglione: Donna Olimpia, mesta e pensosa, lavora, appartata a destra, coi merletti. – Signorine, amiche di Carmela e contadinelle, sparse a gruppi, lavorano di ago, col mulinello e con l’arcolaio, cantando una canzonetta del luogo.
Oltre queste lunghe e dettagliate descrizioni iniziali il testo poetico è ricco di brevi didascalie che supportano l’intera azione e servono sia a dare precise indicazioni per la recitazione agli interpreti, soprattutto laddove si suggeriscono sentimenti o stati d’animo, sia a legare le varie parti del testo poetico. Così, ad esempio, nelle parti che seguono il Rondò di Carmela «D’un vago serto ornatemi» nel I atto:
Don Alfonso, uscito dalla torre ducale, accompagnato da uno stuolo di gentiluomini, si ferma sul limitare della Chiesetta, estatico mirando Carmela – Gennarello se ne avvede e freme di gelosia (atto I, 1)
E ancora, nella stessa scena, riferita a Gennarello:
(guardingo e circospetto correndole incontro e fermandola sotto il portico, con un filo di voce) Carmela, dove andate?
E Carmela:
(con grande sorpresa) Voi qui?…
Gennarello avvia il duetto con Carmela «Se a me tu sei fedel» (atto I, 1), seguendo la didascalia: «con dolcezza e confidenza», a cui Carmela risponde, dopo l’intercalare del coro interno sacerdotale che canta «dalla Chiesetta», intonando il suo canto «supplichevole a Gennarello». Ai versi di Gennarello, in cui il cacciatore la prega di non entrare in Chiesa,
Non andar, pietà, mio ben!!
intonati secondo la didascalia «con crescente disperazione» e, poi, in modo «supplichevole», seguono quelli di Carmela quando l’uomo «le cade innanzi genuflesso, e cerca prenderla per mano e baciargliela» che, «svincolandosi da quella stretta, atterrita al vedere ancora della gente passar per il piazzale ed entrare nella Chiesetta», intona:
Ciel, che fate? ahimè! sorgete, Già qualcuno è sulla via; Mi trema il cor! deh! vi ascondete, Se alcun ci vede, di me che fia?!…
Sono questi alcuni esempi di didascalie che supportano e servono l’azione drammatica permettendo di caratterizzare non solo l’ambiente inteso come ‘luogo’ ma anche i personaggi e l’ambiente inteso come ‘colore locale’. Singolare, a tal proposito, è la didascalia sopra citata, poi rafforzata dalla quartina che segue, che contrassegna il sentimento di terrore che la fanciulla prova al solo pensiero che qualcuno, tra la gente, possa vederla con il giovane cacciatore. Le didascalie sono dunque parte integrante del testo di Antonio Cipollini, sia laddove servano a caratterizzare l’ambientazione, sia che servano a denotare drammaturgicamente i personaggi o a legare tra loro i pezzi poetici supportando allo stesso tempo la regia e la rappresentazione scenica. Il libretto di Gennarello assume in tal modo, anche grazie a queste didascalie dettagliate e numerose che rivestono il testo poetico, una dignità letteraria a sé stante, caratterizzando la scena e l’azione drammatica indipendentemente dal rivestimento musicale. Forse questa esigenza che, in un certo senso si allontana dalle opere veriste che pongono «sulla scena un’azione esplicita che non necessita di particolari spiegazioni didascaliche», deriva dalla necessità di completezza e che tende ad utilizzare tutti i mezzi (musica, testo, scena, regìa) per offrire una rappresentazione realistica del dramma.
IL FOLKLORE L’elemento folklorico è presente nell’opera anche attraverso l’uso di un linguaggio che non inserisce il ‘dialetto’ in senso stretto ma utilizza vocaboli dialettali o espressioni derivanti dal linguaggio locale spesso tradotte in lingua italiana. C’è dunque in questo processo una vera e propria contraddizione che, se da un lato vorrebbe seguire il linguaggio verista facendo ricorso a termini dialettali, dall’altro tenta di ‘elevare’ il dialetto traducendolo. Le motivazioni che hanno guidato l’autore in tale procedimento sono a noi sconosciute e di difficile comprensione, dal momento che l’utilizzo del dialetto sarebbe giustificato in un melodramma verista e il risultato che in tal modo ne deriva è solo una cattiva resa di un’espressione che, lasciata invece nella sua forma originale, avrebbe sicuramente ottenuto il giusto effetto anche dal punto di vista drammatico. L’espressione di Donna Olimpia «Fuoco mio!» (atto I, 1) quando la donna, «in preda allo spavento» chiede alla folla cos’è accaduto dopo aver sentito «gridi di orrore» e aver visto Gennarello precipitarsi fuori dalla Chiesetta con il pugnale in mano e correre verso la montagna, altro non è che la traduzione dell’espressione «Focu meu!» tipica del dialetto calabrese e usata ancora ai giorni nostri. Tale espressione, lasciata nella sua forma dialettale, non soltanto risulterebbe di maggior efficacia nel contesto drammatico in cui viene utilizzata ma apparirebbe sicuramente più comprensibile anche alla semplice lettura del testo da chi, riconoscendola come espressione dialettale, la contestualizzerebbe e ne comprenderebbe immediatamente il significato pur non conoscendo la lingua dialettale cui appartiene. O ancora, per dare un altro esempio, il termine dialettale arcaico ‘verone’ che sta ad indicare il balcone, presente all’inizio di quello che fu uno dei brani più lodati dalla critica: la romanza del tenore «Crescono al tuo verone le rose de l’april» (atto I, 1). Anche le didascalie di cui si è già parlato spesso rimarcano nell’opera quegli elementi che contribuiscono a creare il colore locale, alcune volte con l’utilizzo di termini o espressioni arcaico-dialettali come, ad esempio nella didascalia che precede la seconda strofa (articolata in due quartine di settenari) del coro d’apertura del I atto affidato alle donne
(alcune raccogliendo i panni sciorinati, altre tenendo le secchie attaccate ai canali)
altre volte nella descrizione dei personaggi che assume in tal modo la funzione di caratterizzazione ambientale. Un esempio di questo tipo è la descrizione-caratterizzazione di Gennarello nel III atto, una prima volta dopo il Coro interno «Se vuoi la luce d’or» che precede le parole di Gennarello così descritto dalla didascalia
(con la falda del cappello abbassata sul viso e tutto chiuso nel mantello, entrando misterioso e guardando la Chiesetta, e la sua casa deserta)
successivamente con la particolareggiata descrizione degli indumenti con cui il giovane si presenta
(gettando a terra il cappello e il manto, ed apparendo splendido e bello nel suo costume di brigante).
Quel colore locale che lo spettatore vede ben concretizzato sulla scena traspare dunque anche dalla sola lettura del testo grazie a queste minuziose descrizioni.
I CORI Un altro elemento che risalta in quest’opera e sul quale vorrei soffermarmi è l’incisiva presenza del coro. Tutti e tre gli atti dell’opera sono aperti da un coro popolare. Il coro che apre il I atto è diviso in due gruppi di uomini (contadini e artigiani) e donne (contadine) che si alternano nel canto, presentando il clima e l’ambiente sereni di una mite serata primaverile in cui s’inneggia all’amore come unico foriero di gioia e felicità. Il coro d’apertura del II atto è un coro di sole donne che ha la funzione d’introdurre il racconto di Donna Olimpia. Il coro del III atto è un coro di festa per le imminenti nozze tra Carmela e il Duca. L’opera è anche ricca di ‘cori interni’ come quello sacerdotale e i due del popolo nel I atto, tutti provenienti dalla Chiesetta, che altro non sono che due preghiere alla Vergine (I e II) e a Dio (III)36.
Deh! Prega il figlio tuo, nostro Signora Rifugio e nostra fè, In questa immensa valle di dolore Sorregga il nostro piè.
Nei giorni del dolore, A te volgiamo il core, Deh! Non ci abbandonar!
Oltre queste due tipologie di cori (introduttivo e interno) se ne possono riscontrare altre due: il coro con funzione di rimarcare e quello che ha la funzione di legare i vari passaggi. Gli esempi del primo tipo sono numerosi nel Gennarello, spesso nelle esclamazioni del coro che, in genere, contrappongono il Duca, esaltandolo, al bandito Gennarello che viene invece denigrato. In questi casi spesso il coro è contrassegnato dalla denominazione LA FOLLA:
Atto I, 1, dopo il Rondò di Carmela «D’un vago serto ornatemi»
LA FOLLA Evviva il nostro Duca!
Atto III, 4, quando Gennarello si avventa all’improvviso contro Carmela e la trascina con se
LA FOLLA (allibita) Qual vile assassino!
e dopo
LA FOLLA (mandando gridi di spavento, e mostrandosi minacciosa e furente) A morte!
o, ancora, più avanti, quando Gennarello si scopre a tutti
IL POPOLO Gennarello!... il bandito!... assassin! Morte! a morte!
Atto I, 1, nel coro di uomini che segue la scena in cui Gennarello che esce dalla Chiesetta, dove Carmela sta pregando, con il pugnale in mano, prendendo il fucile e correndo verso la montagna
Largo!!
E, dopo le parole
Quale terror! Di sangue cristiano È macchiata la casa del Signor!
smentite dalle successive
Il Duca è salvo!
È ben triste questa istoria, Sento i brividi nel cor!
e, dopo la seconda parte
Viva l’eroe! benefico Dio l’ha mandato in ver!
quindi, ancora
È una storia di terror. Sento i brividi nel cor!
Alla fine del racconto invece il coro viene utilizzato per condurre al passaggio successivo contrassegnato dall’arrivo del duca:
CORO DI DONNE (affollandosi tutte al cancello, e salendo sui sedili per vederci meglio) Una nube di polve… in fondo del vial… Risuona per il bosco il trotto d’un caval! Guarda… fra i tronchi e i rami Appare un cavalier: Vèr noi diretto ha il corso.
NOTE 1 Cfr. STEFANO SCARDOVI, L’opera dei bassifondi. Il melodramma ‘plebeo’ nel verismo musicale italiano, Lucca, LIM, 1994 (Hermes. Musica e Spettacolo nel Novecento, Ricerche e Testimonianze, 3), pp. 3-10. 2 Cfr. MARIA SIRIANNI, Un paese all’Opera. Arte, territorio e memoria etnografica a Montalto Uffugo. Genesi e storia de «I Pagliacci» di Ruggiero Leoncavallo, s.l.[Catanzaro], Abramo, 2003. 3 Cfr. il libretto: GENNARELLO / dramma lirico in tre atti e quattro quadri con ballabile / Teatro Alessandro Manzoni primavera-estate 1891 / [libretto di] Antonio Cipollini; musica di Gaetano Cipollini; Milano, Tipografia Lombardi, 1891 (I-Rsc Carv. 7216). 4 Antonio Cipollini (Monteleone Calabro, 1857 – Milano, 1920). 5 Gaetano Cipollini (Tropea, 1851 – Milano, 1935). 6 Cfr. ANDREA SESSA, Il melodramma italiano 1861-1900. Dizionario bio-bibliografico dei compositori, Firenze, Olschki, 2003 (Historiae Musicae Cultores, XCVII), p. 118. 7 Antonio Cipollini fu l’autore di tutti i libretti delle opere composte dal fratello, dalle due opere liriche Simeta (1889), e Gennarello (1891) e alla commedia lirica Il Piccolo Haydn (1893) fino all’operetta Ninon de Lenclos (1895). Insegnante di greco e latino al Liceo, fu autore di diversi saggi e poesie, tra cui la romanza Alla luna, musicata nel 1884 da Mascagni e altri scritti poetici a carattere critico come La storia della poesia idilliaca, pubblicata a Milano nel 1890 8 Cfr. SALVATORE LIBERTINO, Gaetano Cipollini e il sogno di «Simeta», pubblicato nel 1999 sul sito «http://www.tropeamagazine.it/cipollini/cipollini». 9 Cfr. FRUSTINO, A proposito del «Gennarello» del Maestro Gaetano Cipollini. Note – appunti, Milano, Tipografia Cooperativa Insubria, 1892, p. 3. Riguardo ai lavori di Antonio Cipollini su Teocrito si confronti: ANTONIO CIPOLLINI, Gli idilli di Teocrito siracusano – Studio critico - bibliografico, Milano, Hoepli, 1887; IDEM, Teocrito: conferenza tenuta al circolo filologico di Milano, Milano, Tip. Insubria, 1892. 10 Cfr. FRUSTINO 1892, p. 4. 11 Cipollini aveva lavorato a quest’opera per ben sette anni e l’editore Ricordi si era impegnato a farla rappresentare entro un triennio in un grande teatro. Si trattava di un dramma lirico in cinque atti, il cui soggetto era tratto dal II Idillio Le incantatrici del poeta greco Teocrito tradotto ed adattato dal fratello del compositore, Antonio. Tuttavia, a causa delle vaste proporzioni che prevedevano un rilevante impegno economico per la messa in scena, per la presenza di grandi masse corali e per la ricchezza di ballabili, il progetto fallì e Ricordi, avvalendosi di una clausola contrattuale, si rifiutò persino di stampare lo spartito restituendo al compositore l’intero materiale (per un approfondimento cfr. LIBERTINO, Gaetano Cipollini e il sogno di «Simeta»). 12 Cfr. GIOVANNI CENZATO, Il pubblico dimentica. “Sono condannato a rileggere sui giornali dell’epoca che ho scritto della musica divina”, «Corriere della sera», 14 ottobre 1943, p. 2. 13 L’opera in un atto, commissionatagli dall’editore Sonzogno, è tratta dall’omonima commedia di Eugenio Checchi. Rappresentata per la prima volta il 24 gennaio 1893 al Teatro Sociale di Como, ebbe numerose repliche in vari teatri italiani e all’estero. Sul Piccolo Haydn, oltre quanto scritto da ELEONORA SIMI BONINI nella voce Cipollini Gaetano nel Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, vol. 25, p. 723; DEUMM (Appendice, 1990, p. 178); SESSA 2003, p. 119; cfr. anche il saggio di JOHANNES STREICHER, Puccini, Mascagni e la malinconia erotica del Settecento, in Puccini e Mascagni. Giornata di Studi (Viareggio, 3 agosto 1995), s.l., Pacini, 1996 (Quaderni della Fondazione Festival Pucciniano, 2), pp. 65-66, ristampato in questo volume. 14 Cfr. nota n. 11. 15 «Non poteva avere che un librettista solo per questo lavoro; suo fratello; e d’accordo i due artisti innamorati, avendo comuni gl’intenti e gl’ideali, i criteri e i sentimenti, condussero a termine la nuova opera» (cfr. FRUSTINO 1892, p. 5). 16 FRUSTINO 1892, p. 5. 17Ibidem. 18 Ibidem. 19 Ibidem. 20 VIRGILIO, Cronaca Milanese, «Gazzetta Teatrale Italiana», XX, 19, 4 giugno 1891, p. 2. 21 «Il Teatro Illustrato», XI, 126, giugno 1891, p. 87. 22 Lo stesso Mascagni assistette alla prima rappresentazione dell’opera (cfr. VIRGILIO 1891, p. 2) ma, secondo un’annotazione dell’Epistolario del compositore citato da Libertino pare che «andò via dopo il secondo atto» (cfr. LIBERTINO, Gaetano Cipollini e il sogno di «Simeta»). 23 Cfr. MARIO MORINI, Introduzione a «Cavalleria rusticana», in «Cavalleria rusticana» 1890-1990: cento anni di un capolavoro, a cura di PIERO e NANDI OSTALI, Milano, Sonzogno, 1990, p. 8. 24 «Il Teatro Illustrato», XI, 126, giugno 1891, p. 87. 25 Critica pubblicata sulla «Perseveranza» e citata in FRUSTINO 1892, p. 6. 26 Cfr. «Perseveranza» e «Dall’Italia del popolo» citati in FRUSTINO 1892, p. 6. 27 Cfr. «Perseveranza» citato in FRUSTINO 1892, p. 6. 28 «Il Teatro Illustrato», XI, 126, giugno 1891, p. 87. 29 Cfr. «Corriere della Sera» citato in FRUSTINO 1892, p. 7. 30 Cfr. «Perseveranza» e «Corriere della Sera» citati in FRUSTINO 1892, rispettivamente p. 6 e p. 7. 31 Cfr. SCARDOVI 1994, p. 9. 32 A tal proposito cfr. LETIZIA PUTIGNANO, Didascalie di teatro d’opera. Note sul melodramma italiano di fine secolo, in Ottocento e oltre. Scritti in onore di Raoul Meloncelli, a cura di FRANCESCO IZZO e JOHANNES STREICHER, Roma, Editoriale Pantheon, 1993, pp. 505-513; ADRIANA GUARNIERI CORAZZOL, Libretti da leggere e libretti da ascoltare. Didascalia scenica e parola cantata nell’opera italiana tra Otto e Novecento, intervento nell’ambito dell’incontro di studi Dal libro al libretto. La letteratura per musica dal ’700 al ’900 (Roma, 3-4 giugno 2003), i cui atti sono in corso di stampa nel volume che sarà curato da MARIASILVIA TATTI. 33 Quasi a citare le parole di Turiddu nel duetto con Santuzza: «Tu qui, Santuzza?» dalla scena V di Cavalleria rusticana. 34 Che sembrano ricalcare l’implorazione di Santuzza a Turiddu: «No, no Turiddu – rimani ancora» nella scena VII di Cavalleria rusticana. 35 PUTIGNANO in IZZO – STREICHER 1993, p. 506. 36 Anche quì è palese il richiamo a Cavalleria rusticana in cui, alla fine della scena III, il Coro interno della Chiesa intona il Regina coeli. 37 Si tratta di quattro strofe costituite da due quartine di endecasillabi più due quartine di ottonari.