America Scarfò nel 1937 con la figlia di Severino Di Giovanni
COME STANNO LE BEGONIE?
Stralci da 'Un caffè molto dolce' di Maria Luisa Magagnoli
di Salvatore Libertino
La storia d’amore, che ebbe come sfondo l'Argentina degli anni venti, tra il ventiquattrenne Severino Di Giovanni, sposato e leggendario anarchico attivista italiano/marchigiano, e la quindicenne Josefina América Scarfò, d’origine tropeana, è stata nel 1996 raccontata da Maria Luisa Magagnoli nel romanzo biografico Un caffè molto dolce, Bollati Boringhieri, Torino 1996 scritto dopo numerose conversazioni della giornalista con la quasi ottantenne América Scarfò nella capitale argentina.
L'idea nasce per caso quando l'autrice si imbatte nella foto di Di Giovanni, fucilato a trent'anni per ordine del Presidente José Felix Uriburu nel 1931 a seguito della sua attività facinorosa di attivista anarchico e sanguinario stragista . Affascinata dal personaggio, parte per Buenos Aires per rintracciare e incontrare i superstiti dell'epoca, tra i quali l'adolescente, ormai ottantenne, amante di Severino che le darà un ritratto di prima mano del loro vissuto sentimentale e della loro condivisione politica. Il racconto ripercorre le tappe della storia d'amore e d'anarchia che nel tempo si è diffusa e propagata a macchia d'olio dall'America latina in tutto il mondo con grande interesse da parte della letteratura e del giornalismo.
L'insegnante Di Giovanni era emigrato da Chieti in Argentina con la moglie Teresa Mascullo e tre figli approdando per caso nell'abitazione della famiglia Scarfò, d'origine calabrese - la madre Caterina Romano era di Tropea e il padre Pietro Scarfò di Portigliola -, la quale offrì ai Di Giovanni in fitto parte dei propri locali. Dalla convivenza tra le due famiglie nacque l'amore tra il giovane e la quindicenne Josefina America. Le lettere che Severino di tanto in tanto faceva recapitare alla ragazza contengono parole sublimi di ardore e passione che però danno un tono sempre rispettoso alla relazione tra i due, in contraddizione con il modus operandi dell'anarchico che prediligeva in nome della sua libertà le scorribande terroristiche cittadine dispensando dinamite e pallottole in decine e decine di attentati sanguinari. Per potere stare assieme a Severino e quindi lontano dai suoi, America sposò, d'accordo con l'amante, un certo Silvio Astolfi che dopo la morte del Di Giovanni abbandonò, troncando i rapporti con la propria famiglia. Le lettere che al momento del loro arresto furono sequestrate dalla polizia, saranno restituite solo dopo quasi settant'anni a 'Fina' che intanto si era laureata in lingua e letteratura italiana, aveva fatto l'editrice per decenni, prendendosi a 86 anni il diploma universitario di "traductora publica" dal francese che andava, a quell'età avanzata, regolarmente perfezionando all'università di Buenos Aires. Tutto ciò per adempiere giorno per giorno al monito di Severino che prima di morire le raccomandò "Continua a studiare!".
"Come stanno le begonie?" è il primo punto di domanda che Severino rivolge ad America per rompere il ghiaccio di quella che sarà la loro relazione sentimentale. E' la frase che col tempo è divenuta "cult" tra i giovani e meno giovani per auspicarsi ogni favore a che l'inizio dell'approccio amoroso andasse verso il buon esito sperato. Da tempo è adottata nello scambio degli auguri in occasione della Festa di San Valentino. La risposta di America è stata "Sono triste!". Il dialogo è tratto proprio da "Un caffè molto dolce" di Maria Luisa Magagnoli. L'autrice ci ha dichiarato che il semplice intento di andare a Buenos Aires per incontrare i testimoni di quell'avventura è stata un'intuizione che ben presto si è tramutata in una storia intima personale e partecipata che ancora la coinvolge profondamente attraverso i rapporti nel tempo sia con America sia con i parenti che numerosi ancora sono in vita anche in Italia. In effetti, l'opera della Magagnoli non la definirei 'romanzo' ma cronaca di un evento di cui l'autrice diviene co-protagonista.
Il libro, che nel 1996 ha vinto - quale opera prima - il premio letterario 'Giuseppe Berto - l'autrice lo ritirò di persona a Ricadi - fu tradotto l'anno dopo in spagnolo e pubblicato in Argentina con il titolo "Un caffé muy dulce", Alfaguara in Buenos Aires.
Il giorno dopo l'esecuzione di Severino, fu giustiziato anche il fratello di America, Paulino. E non bastò la richiesta di grazia di mamma Caterina - le cui modalità ricordano molto quelle riferite ai voti delle donne tropeane quando salivano i ripidi gradini, con il 'faddale' (grembiule) pieno di sabbia per rendere più dura la penitenza, fino alla sommità dello scoglio dell'Isola implorando grazie alla Madonna - che straziata dal dolore con il viso tra le mani salì in ginocchio le scale, gradino dopo gradino, della Casa Rosada, in attesa che il generale presidente si accorgesse di lei. Anche il figlio Alejandro fu incarcerato ma uscirà in piena follia nel 1934, ormai svuotato da ogni interesse e contatto con la fidanzata e i familiari. Teresina Masculli si risposò con un connazionale e divenne una buona giornalista. La stessa America si risposò con un intellettuale libertario, ebbe figli e nella vita fece la docente di letteratura italiana.
America nel 1951 volle visitare l'Italia e con l'occasione Chieti, paese natale di Severino, Tropea di mamma Caterina, Portigliola di papà Pietro. Morì il 26 agosto del 2006.
Dal libro estraiamo tre passaggi cruciali della storia. I primi approcci tra Fina e Severino. Le letture delle lettere. L'esecuzione pubblica di Severino.
Pag 77
America Scarfò fotografata da Severino
COME STANNO LE BEGONIE?
Anche Severino e América s’erano guardati da vicino, per la prima volta, parlando di piante. «Come stanno le begonie?» aveva scherzato lui passando davanti al giardino. «Sono tristi» aveva risposto lei andandogli incontro con un vaso per mostrargli i fiori che reclinavano mestamente. «Prova a toglierle dall’ombra e a metterle al sole» le suggerì lui con fare paterno. Ma lei non l’ascoltava più perché stava già naufragando nel suo sguardo. Lui non se ne accorse e andò via sorridendo anche se si sorprese a pensare «ma è ancora una bambina! » e non capì i suoi stessi pensieri. Per molto tempo l’attrazione tra loro sarebbe rimasta occulta perché li separavano un’infinità di cose ma soprattutto il fatto che lei era troppo giovane e lui sposato. Tra loro correvano piccoli accenni, un alfabeto di pochi gesti e poche parole, un gioco che sembrava innocente, al quale, però, nessuno dei due, già allora, sapeva innocente, al quale, però, nessuno dei due, già allora, sapeva sottrarsi.
Senza mai essersi dati un appuntamento, si trovavano tutti i giorni, al mattino presto, quando lui usciva di casa per andare in tipografia e lei accudiva il giardino prima della scuola. Mentre staccava le foglie gialle ai gerani appassiti, América, con la coda dell’occhio, controllava se era in arrivo. Severino attraversava il patio della passiflora e poi costeggiava il muretto del giardino ma América vedeva solo spuntare il suo cappello nero che avanzava come sospinto dal vento. Lui aveva un’andatura strana, teneva la schiena dritta ma la testa in avanti, una camminata sulla quale gli amici non finivano mai di scherzare. «Se vedi arrivare una testa, di sicuro è Severino». América non lo guardava apertamente ma lui sapeva che lo stava aspettando. Puntualmente, prima di svoltare e scomparire, si girava verso di lei, ferma sulla porta per il saluto. «Ciao» diceva lui alzando la mano, «ciao» rispondeva lei prima di rientrare in casa felice. Mentre se ne andava, Severino aveva l’abitudine di mettersi a cantare «Son tornate a fiorire le rose», canzonetta romantica che Beniamino Gigli intonava in quegli anni sui palcoscenici di tutto il mondo. Si allontanava la mattina presto, con la sua camminata strana, cantandola a mezza voce, malinconico ritornello italiano perduto nelle strade di Buenos Aires.
pag. 119
America Scarfò ottantenne
LE LETTERE
Ripensavo a quelle notti di veglia mentre andavo a casa di América, ne parlavo con Maria De La Orden che aveva preso l’abitudine di accompagnarmi fino alla piazza nera di uccelli e giurava che, se il calvario di quei due vecchi fosse toccato a lei, sarebbe morta subito, stroncata come un pulcino. Loro, invece, speravano ancora che il figlio tornasse, e fino al momento del suo arresto, continuarono ad apparecchiare la tavola anche per lui. Paolino, però, satava alla larga e si limitava a scrivere qualche biglietto di saluto vergato con una calligrafia minuziosa verde smeraldo. Con patetica premura, i suoi gli mandavano camicie, fratta e medicine, riposte in un borsone blu che América, pronta per il viaggio, si caricava a tracolla.
Seduta sulla corriera che la portava all’appuntamento, lei pensava a Severino, l’uomo pericoloso che, senza mai sfiorarla, l’aveva sospinta oltre i territori dell’infanzia, dove gli uomini e le donne vivono lo stupore del desiderio. Stava per compiere sedici anni e non aveva mai avuto un fidanzato, neppure una simpatia per un compagno di giochi. Quando Severino s’era presentato alla sua famiglia, la sera che cercava casa, aveva stretto la mano a tutti e anche a lei, che l’aveva sentita adulta e straniera, come i sentimenti provati in quell’attimo. Sapeva già d’essersi innamorata e andava all’appuntamento con suo fratello sperando di trovare anche lui. Lo ricordava ancora, a distanza di tanti anni, seduta di fronte a me nella poltrona gialla nel salotto con il ficus benjamina, vicino alla finestra spalancata sui cortili di Buenos Aires.
A Severino si faceva trovare. Come per caso, appariva sulla sua strada e si offriva di accompagnarla lungo la via del ritorno. Insieme attraversavano una campagna gialla, dimenticata dagli uomini, dove si aprivano un varco calpestando papaveri e mettendo in fuga le lucertole, poi tornavano sulla strada, un rettilineo infinito, senza case e senz’alberi, deserto come il presagio della solitudine.
América mi descriveva Severino come un uomo traboccante di progetti, energico, estremamente sicuro di sé, che parlava molto in fretta, con una voce forte. Lui le si rivolgeva sempre in italiano, lei sempre in castigliano. E così, bilingue, fu la loro dichiarazione d’amore.
«Ti voglio tanto bene» le sussurrò lui camminandole a fianco.
«Yo también», «anch’io» rispose lei, travolta dalla felicità mentre sentiva una mano adulta e straniera posarsi sulla sua spalla, accarezzarle il collo e stringerle il viso nella nebbiosa incandescenza dei campi.
Non potendo vederla quasi mai, lui prese a scriverle ogni giorno, tre volte al giorno. «Io, io mi divoro. Non posso vivere, ti desidero tanto in ogni istante della vita. Vorrei stringerti forte. Amarti come solo io posso amarti. Ubriacarmi in te completamente e poi tornare a ubriacarmi ancora una volta e un’altra ancora fino all’annullamento». Le sue lettere erano attraversate dal timore che lei dimenticasse, o tentasse di farlo. «Ricordi? Mi pensi?» le chiedeva ansiosamente indugiando con la memoria sui loro momenti d’estasi. «Mi hai scritto? Verrai?»
Riconosceva di non avere il diritto di tenerla legata a sé eppure ritornava continuamente alla passione vissuta. «Ho la febbre in tutto il corpo. La tua vicinanza mi ha riempito d’ogni dolcezza. Mai, come in quei lunghissimi attimi, ho centellinato i sorsi della vita».
«E’ sposato, ha tre figli» continuava a ripetersi América mentre cercava di terminare i compiti sotto gli occhi distratti di sua madre che non sospettava ancora niente. Le sembrava più grave questo che la sua condizione di fuggiasco.
Nei primi tempi si davano appuntamento in un giardino protetto da un’inferriata oltre la quale fiorivano zagare e madreselve. Seduta accanto a lui, ogni volta América tentava di tirarsi indietro, di scappare da una storia nella quale, ancora oscuramente, avvertiva i segni dell’infelicità. A testa bassa, gli confessava che non voleva più vederlo, che continuare a farlo le sembrava inutile e pericoloso. «Non abbiamo nessun futuro» mormorava tormentando la copertina dei quaderni. Anche se lasciare Severino la faceva sentire come una donna senza braccia.
«O con te o senza di te, comunque andranno le cose tra noi, in famiglia non tornerò» le rispondeva lui con decisione. Un pomeriggio d’estate, dopo avere ascoltato ancora una volta la voce della loro tristezza, América guardava la madreselva in fiore, protesa verso di loro come una certezza di felicità, e Severino al suo fianco, in attesa . Fu in quegli attimi che si decise il loro destino. «Ma sì, se il suo matrimonio è finito…» pensò lei. La loro storia doveva continuare in mezzo ad ostacoli sempre maggiori fino all’epilogo. L’amore che li univa si nutriva di lettere, centinaia di fogli che Severino le mandava tramite messaggeri occasionali convinti di recapitare ambasciate cospirative.
Non le avevo chiesto mai nulla di quei vecchi plichi romantici e neppure m’ero domandata se ancora esistessero, ma un giorno, mentre bevevo un caffè molto dolce, lei si allontanò per tornare subito dopo con una grande scatola dalla quale estrasse centinaia di fogli protocollo a righe vergati con una calligrafia ordinata appena inclinata verso destra, che formava linee diritte e regolarmente distanziate, e che apparteneva a Severino.
Le lettere più lunghe erano suddivise in brevi capitoli da due linee orizzontali al centro del foglio, attraversate da un’onda nervosa. Le sfogliai rapidamente, vidi che erano scritte in italiano e che cominciavano con parole sempre diverse: «Amica mia, fatina mia, bimba mia adorata. Dolce speranza mia…» Terminavano, invece, con un semplice «tuo» racchiuso tra due energici tratti di penna, oppure «il tuo biondo cattivello» con la lettera o che finiva in un ricciolo lungo e sensuale, adagiato sul foglio come una ciocca di capelli su un cuscino.
Severino sapeva trovare parole appassionate, eppure dolci, per l’amante passata per amor suo dalla vita tranquilla di studentessa a un’esistenza irta di pericoli, condannata al sotterfugio, e diventata bruscamente donna. «Ti amai nella vecchia esistenza e oggi torno ad amarti con maggior vigore nella nuova vita. Voglio tanto bene alla mia fatina che, sulle ali leggere della fantasia, andrei a raccoglierla nel giardino dei suoi giochi divini e la porterei a cinguettare nel mio nido solitario. Ma tu puoi starmi così lontano? Così continuamente assente? Ricordi quei baci, quegli abbracci, quegli amplessi? Formavano nell’amore un’unica esistenza. Un’edera eterna che solo nella morte si dava per vinta ma poi tornava ad amare nell’Eldorado di un al di là misterioso. Ricordi? Ti mando petali di rose rosse».
Seduta con le mani in grembo, América mi guardava leggere e sorrideva. Il non riuscivo a parlare perché mi sentivo accompagnata per mano fino sulla soglia di quel giardino con madreselva dove tanti anni prima lei aveva deciso di restare al suo fianco. «Come vorrei rapirti, staccarti dalla tua pianta in fiore e portarti nel mio mondo sempre ricco di tante meraviglie, di tante bellezze, di tanti amori diversi. Perché con te troverei la forza di creare canti, luce, fantasia, danze, fiori e amore, molto amore». Il caffè, ormai freddo, l’avevo abbandonato sul tavolo. Scendeva la sera ma non potevo smettere di leggere. «Le tue lettere mi portano tanto in alto fino a farmi male per la pura felicità che mi danno».
«Gli scrivevi spesso? »
«Sì, spesso, ma meno di quanto lui scrivesse a me».
«Vita mia, hai toccato tutto il mio essere. Lo hai fatto vibrare come hai voluto. Che bella eri la notte scorsa! Come cantavano i nostri sentimenti sotto i raggi della seconda luna d’agosto!»
«Era molto romantico…» mormorai.
«Molto romantico, molto rispettoso ma anche molto ardente» confermò ridendo.
Era calata la notte, il tempo delle confidenze, e América mi confessò che all’epoca di quest’ultima lettera aveva messo da parte ogni dubbio per abbandonarsi all’amore; chiamava Severino «mi rubio adorado», mio biondo adorato, e gli stringeva il viso con le mani tremanti. Lui la trattava come un ninnolo prezioso e trovava per lei parole di tenerezza che suonavano strane sulla bocca dell’uomo più ricercato d’Argentina. «Quando ti vedo contenta sei ancora più bella, sei ancora più graziosa, sei ancora più buona. Sono tanto felice, tanto fortunato in questi giorni».
Si azzardava perfino ad andare in città dove aveva preso un appartamento in affitto. Ai vicini raccontava d’essere un professore e le, con i libri stretti tra le braccia, come una studentessa a ripetizione, saliva le scale dell’appuntamento. Severino l’aspettava intento ai fornelli, cucinando pasta e sughi che lei trovava molto buoni. «Ti ho preparato tante cosette belle nella cameretta» scriveva alla sua amante che non era più bambina e non ancora compiutamente donna. «Baciami come io ti bacio, rendimi duplicato il bene che ti voglio. Sappi che ti penso sempre, sempre, sempre. Se l’angelo celestiale che mi accompagna in tutte le ore tristi e liete di questa mia vita refrattaria e ribelle. Con te, ora e sempre».
pag 183
Severino Di Giovanni a pochi minuti dall'esecuzione della pena di morte
L’ESECUZIONE
«Mancano venti minuti alle cinque» disse il gesuita italiano dopo aver estratto un orologio a cipolla da sotto la tonaca e mostrandolo al prigioniero perché potesse verificare di persona. La porta della cella si spalancò e apparve un soldato. «Andiamo? » chiese Severino con impeto.
«Sì – rispose lui – E’ l’ora». E si mise a fianco del prigioniero. Con passo energico Severino uscì e percorse in fretta il lungo corridoio costringendo gendarmi e curiosi a galoppargli dietro come se fossero stati in ritardo a un appuntamento.
«Un momento, non corra, dove va? Adesso deve restare qui» lo fermò un sergente. Dalla folla faceva capolino l’attore che s’era tolto il cappello e spiava ogni cosa senza fare rumore neppure con il respiro. Arrivò un soldato con una sedia e dietro di lui due fabbri che reggevano i ceppi. Severino si accomodò sulla sedia, tese le gambe in avanti e si inchinò a guardare i due uomini anziani che, a colpi di martello, gli chiudevano le sbarre attorno alle caviglie.
«Per cortesia, può chiedere che mi portino un caffè? Gradirei che fosse molto dolce». Il sergente diede ordine di accontentarlo. Un militare tornò stringendo la tazzina e la porse al condannato ancora seduto mentre i fabbri armeggiavano con i loro ferri. Severino afferrò la tazza con i polsi stretti nelle manette, la portò alle labbra e beve un sorso. «Ma è amaro… - esclamò con una specie d’indignazione- - Il caffè mi piaceva molto dolce».
Il gesuita italiano si avvicinò per stringergli la mano ma lui si rifiutò.
«Mi lasci in pace, se ne vada, non vede che non ho bisogno del suo conforto, che non temo la morte?»
Alle cinque del mattino cominciava la sua ultima passeggiata. Passeggiata tormentosa, fatta a piccoli passi, saltelli, piedi strofinati sul terreno, i pochi movimenti che i ceppi gli permettevano. Il percorso da compiere non era lungo, ma oltremodo faticoso. Severino avanzava tra due ali di folla appiattita contro i muri che lo guardava in silenzio assoluto, rotto soltanto dai colpi delle sbarre che picchiavano sul pavimento. Qualcuno, con la mano davanti alla bocca, rideva.
Gli agenti lo accompagnarono nella falegnameria del carcere, uno stanzone che odorava di resine, e oscurarono la porta con due coperte in modo che non potesse seguire il via vai dei soldati nel cortile vicino. Ogni tanto qualcuno le sollevava per guardare dentro. In quel momento si vedevano i piedi di Severino, fermi, in attesa del segnale.
Il piccolo cortile dove morì era gremito di gente, cento persone che si assiepavano negli angoli e sul tetto della falegnameria formicolante di facce che la luce dell’alba illuminava con un raggio spettrale.
La sedia fatale, con lo schienale alto e dritto, venne collocata al centro di un piccolo spiazzo erboso, mentre un drappello di otto soldati agli ordini di un sergente, si disponeva a pochi metri di distanza. Non tutti gli avrebbero sparato davvero perché a uno di loro era toccato in sorte un fucile caricato a salve.
L’aria era tagliata da ordine secchi, brevi, impartiti a voce bassa. A un cenno, sollevarono le coperte che oscuravano l’ingresso del capannone. Severino avanzò lentamente tra due soldati seguito dal direttore del carcere e del gesuita italiano. Sembrava tranquillo, respirava profondamente e camminava a testa alta, lo sguardo rivolto ostinatamente al cielo. Sbarbato di fresco, i capelli pettinati all’indietro, indossava pantaloni e casacca nuovi. Ancora una volta, riuscì a far innamorare un giornalista, un inglese che, poche ore dopo, avrebbe raccontato ai suoi lettori: «Molti gli uomini presenti nella triste alba, ma il più bello era quello che andava a morire».
Il segretario del tribunale, a due passi dal condannato, lesse la sentenza, un lungo discorso che Severino ascoltò senza abbassare lo sguardo, bagnandosi di tanto in tanto le labbra con la punta della lingua rossa. Il sudore gli imperlava la fronte ma quando il segretario concluse «e pertanto è condannato alla pena di morte», commentò a voce alta: «benissimo». Poi mosse qualche passo, ma si arrestò di colpo.
«Posso dire una parola? »
«Ma proprio adesso? Non si può, continui a camminare>> esclamò l’ufficiale allarmato dall’indisciplina del condannato.
«Volevo solo chiederle di fare le mie scuse al tenente Franco per tutto il disturbo che gli ho dato e mandargli i miei saluti».
Saluti che mesi dopo gli portò América quando lo incontrò in una sala di tè. Severino riprese a camminare piani piano ma, arrivato all’aiuola, al momento di salire un gradino circondato di erba umida, i piedi gli scivolarono penosamente e non riuscì ad andare avanti. Due soldati si offrirono di sollevarlo prendendolo per le braccia ma lui rifiutò, appoggiò i gomiti per un attimo sul palmo delle loro mani e si spinse in avanti. Si svincolò subito e raggiunse la sedia a piccoli, faticosi passi d’anatra. Sedette appoggiando la schiena alla spalliera e sorrise a testa alta, guardandosi attorno.
Osservava i soldati disporsi per l’esecuzione, quattro avanti, con un ginocchio a terra, quattro dietro, in piedi. Uno di loro gli si avvicinò e lo legò allo schienale con due giri di corda, poi fece il gesto di coprirgli gli occhi con una benda, ma Severino scostò bruscamente la testa. «Non la voglio, tanto per voi fa lo stesso» e riprese a fissare il cielo con uno sguardo azzurro venato d’ombra.
Il militare s’allontanò con la benda in mano per far posto al fotografo. Abbagliato dal lampo del magnesio, Severino chiuse per un attimo le palpebre ma le riaprì subito e tornò a sorridere. Ormai il giorno era vicino. I soldati puntarono i fucili e il prigioniero si tese con forza sulla sedia gridando con voce ferita un ultimo omaggio all’idea della sua gioventù.
Il sergente abbassò la spada e i soldati aprirono il fuoco. Cadde con la testa sul petto e trascinò sul prato la sedia che, nell’urto, si spezzò mentre l’aiuola si tingeva di sangue. Dalle celle, con un urlo pieno di rabbia, i prigionieri lo salutarono per l’ultima volta. Il sergente s’avvicinò e vide che si muoveva ancora, aveva il petto squarciato ma era vivo. Estrasse la pistola e gli sparò alla tempia. Erano passati dieci minuti dalle cinque del mattino.
Il suo corpo venne sepolto all’alba, nel cimitero grande come una città. L’anarchico vestito di nero aveva suscitato molto odio, ma anche amore, e quella mattina, a poche ore dall’apertura dei cancelli, la sua tomba era coperta di rose.