Nel piccolo sobborgo della città di Tropea esisteva nei tempi andati un'umile chiesetta di forma cilindrica, che, a vederla, dava l'idea d'una piccola torre. Essa aveva tre porte e sull'unico altare vi erano disposte tre croci in legno: una in mezzo e due piccole ai lati. A questi simboli della nostra religione i borghigiani, da tempo immemorabile, prestano un fervido culto ed ogn'anno, in ricorrenza dell'invenzione della Croce, celebrano con modesta pompa una festicciola, la quale per i suoi spettacoli tradizionali e caratteristici, che a divertimento del pubblico si danno, merita di essere segnalata agli studiosi. Stando alla testimonianza resaci da uno dei più autorevoli borghigiani, il Rev. Canonico D. Domenico Raffaele, la su detta chiesetta, già scossa e lesionata dai terremoti, crollò in seguito ad un violento uragano, avvenuto nel 1875. I borghigiani allora, rimossero le macerie, recuperarono le Croci e le portarono presso la Chiesa del Purgatorio a Porta Nova. In seguito, sul muro d'una casa, prospiciente alla diruta chiesetta, fecero costruire un'edicola (localmente detta Conula) in cui vi posero un quadretto ad olio, raffigurante la Pietà e continuarono a celebrare annualmente la tradizionale festa, la quale si svolge nel modo seguente.
I borghigiani a ciò preposti, mattina del 3 Maggio, parano l'edicola con drappi di vario colore e sotto di essa eriggono un altare in legno, su cui vi pongono dei vasi con fiori freschi, mentre le borghigiane espongono le loro più belle coperte ai balconi ed alle finestre, che curano ornare con palloncini a tipo veneziano, i quali, quando a sera sono tutti accesi, danno al sobborgo un aspetto gaio. A pochi passi dall'edicola un pirotecnico pianta i pali per le girandole a situa fra due balconi di rimpetto la funicella, su cui dovrà scorrere una colombina (detta 'a palumba'). Poco più in là appende a metà d'un canapetto, pur esso teso fra due balconi, una galera dal corbame di canna e dal fasciame di carta velina variamente colorata, armata di artiglierie, consistenti in razzi e bombe. Nel pomeriggio i ragazzi, cantando a squarciagola il seguente ritornello d'una canzoncina spirituale:
Viva La Cruci, La Cruci viva, Viva la Cruci E cui l'esaltò !
fanno a gara a chi più riesce a procurarsi negli orti vicini sterpi e fusti secchi di cavoli cappucci (da loro detti 'piruni di cavuli') e poi vanno a deporli accanto alle fascine di fusti secchi di lupini (comunemente detti 'saracuni'), offerti dai tintori, e formano così una catasta, che al momento opportuno verrà accesa. Sin qui i preparativi. L'inizio della festa avviene qualche ora dopo il tramonto, con l'intervento della musica cittadina. Dopo una breve funzione religiosa, col relativo panegirico, cominciano i fuochi d'artificio, mentre la musica suona allegri ballabili ed in segno di giubilo vengono lanciati nel cielo limpido degli aerostati di carta velina. Ad un certo momento ecco che appare il fuochista al balcone, sul cui verone sta fissato uno dei capi della funicella, che sorregge la colombina, e con una miccia le dà fuoco. Subito essa si parte veloce, lasciando sul suo passaggio come una scia di scintille, raggiunge il balcone opposto e, dopo un istante di sosta, fa ritorno al punto di partenza, mentre la galera, agitata lievemente dalla brezza aerotina, s'incendia. Dapprima sono i bengala che l'illuminano graziosamente, poi cominciano a tuonare le artiglierie, che finiscono col farla scoppiare.
Mentre la carcassa della galera, che fumigando pensola dal canapetto, va spegnendosi, i giovani danno fuoco alla catasta di sterpi e, quando le fiamme son diventate alte, chi si mette dalla parte di su e chi di giù della strada e cominciano a spiccare dei salti su di essa. Il popolo assiste con molto interesse a questo spettacolo ed i giovani cercano mostrare la loro bravura facendo dei salti più alti che sia loro possibile; ma capita spesso che qualcuno inesperto o maldestro, finisce col cadere nel fuoco, riportando delle scottature. Allora la folla comincia ad urlare e fischiare, ed il caduto, il quale nel men che si dica è già in piede, se ne va via umiliato, scotendosi i tizzoni, rimasti attaccati al suo abito. Durante questo rito magico, che tale è da considerarsi, tutti son presi da un furore, il quale scema soltanto con l'affievolirsi delle fiamme e quando queste finiscono di brillare, nessuno osa più spiccare salti. In questo momento subentrano i poveri, i quali beneficiano dei resti del falò e con opportuni armesi raccolgono tizzi e carboni accesi, per portarseli a casa.
Ed eccoci all'ultimo numero degli spettacoli, pur esso interessante. Non si è ancora diradato il fumo del falò che si ode suonare da un tamburino, accompagnato dalla grancassa, la cosidetta carricatumbula e poi si vede apparire ballando, saltando e facendo tante piroette, il camiuzzu di focu, il quale consiste in uno scheletro di cavallo fatto con liste di canna, su cui sono variamente disposti razzi e bengaline che fischiano, bombe che esplodono ed al posto della coda vi è situata una piccola girandola, la quale contribuisce a dare a questo strano animale un aspetto fantastico. Ordinariamente lo mette in azione il pirotecnico che lo costruì, il quale, avendo fatto passare il suo busto attraverso un apposito spazio, che il camiuzzu porta sulla groppa, lo sostiene con ambo le mani, funzionando così da cavaliere e da motore. A questo grazioso spettacolo non mancano le risate sonore e gli schiamazzi da parte della folla, la quale a ciò è tanto appassionata che lo richiede come saggio finale in quasi tutte le feste popolari, che si celebrano nei nostri luoghi. Col ballo del camiuzzu finisce la festa ed i borghigiani lieti e soddisfatti rincasano e non vanno a dormire se prima non abbiano mangiato tre fichi secchi (detti ' 'i fica d'a cruci '), perchè la credenza popolare vuole che chi non cura far ciò qualche giorno potrà essere 'mangiatu d'i zampagghjuni', ossia punto dalle vespe.
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Non vi è dubbio che i su descritti spettacoli debbano avere un loro particolare significato simbolico, e volendolo penetrare è necessario ricorrere alla storia locale, nonchè a quella della vecchia religione pagana.
Infatti lo scoppio della galera, che per associazione richiama alla mente lo scoppio del carro, che si fa ogni anno in Firenze, deve trarre le sue origini da qualche impresa navale, avvenuta nei secoli scorsi e di cui oggi i borghigiani ne hanno perduto la memoria. Se localmente non durano più i ricordi delle funeste scorrerie, che gli audaci musulmani facevano contro i paesi litorali della Calabria, quantunque ancora vi sia qualche vecchio, che, a volte accoratamente canticchia la nota canzone:
All'armi, all'armi! la campana sona, Li turchi su' venuti alla marina, ecc..
la storia ci dice che Tropea fu occupata per un certo tempo da una colonia di Musulmani, giunti dalla Sicilia e dall'Africa, i quali ne fecero un covo, in cui riparavano, ponendo al sicuro le prede che facevano devastando città e villaggi1. Rievocando quel triste passato, dobbiamo fermare la nostra attenzione su due fatti, uno di gran lunga superiore all'altro. Il primo accadde presso il Capo di Stilo e il protagonista principale fu il tropeano D. Gasparro Toraldo, signore di Badolato. Egli riuscì con astuzia a trarre in inganno e vincere una galeotta musulmana di 18 banchi, facendo prigionieri 30 turchi, fra cui il rais, detto Zerbinassan2. Il secondo fatto, che segnò il trionfo della Croce di Cristo sulla mezzaluna musulmana, riguarda la battaglia di Lepanto. Come si può rilevare dai cronisti paesani Sergio e Campesi, Tropea in quell'epoca possedeva delle galere, ed un arsenale, il quale serviva all'armamento navale ed alla costruzione e riparazione delle triremi. Il Marafioti in proposito così si esprime: ... ha sempre posseduto questa città (Tropea) galere per corseggiare le riviere dei turchi e nell'armata di D. Giovanni d'Austria si ritrovano tre galere dei Signori particolari Tropeani3. Poichè in detta battaglia, come si apprende dalla relazione presentata al Senato Veneto nel 1571 dal capitano del Mare Sebastiano Veniero4 oltre che da altri storici e da qualche poeta coevo5, presero parte 200 tropeani al comando del Capitano Stefano Soriano6, è logico pensare che fra gli equipaggi delle galere tropeane l'elemento borghigiano non doveva scarseggiare.
Posto ciò, ci è lecito opinare che, venuta a conoscenza dei tropeani la notizia della vittoria riportata dal loro valoroso concittadino don Gasparro Toraldo, gli abitanti del borgo, i quali, come abbiamo detto, veneravano la Santa Croce, verso cui i turchi erano nemici, in ricorrenza dell'annuale festicciola, pensarono costruire un fac-simile della galeotta del vinto Zerbinassan, e poi, come se fosse stata un vero trofeo, dovettero sospenderla ad un canapetto davanti alla loro chiesetta. Oppure, riferendoci alla battaglia di Lepanto, e questa, forse, è l'opinione più probabile, si deve attribuire l'invenzione ad uno dei borghigiani che avevano fatto parte degli equipaggi delle galere tropeane. Costui, ritornando vittorioso in patria, sia per onorare la Croce, per la quale aveva combattuto e sofferto, che per tramandare ai posteri il ricordo della bella vittoria riportata dalle armi cristiane, dovette ideare e costruire per la prima volta la galere in parola. Cosicchè lo spettacolo borghigiano della galera deve alludere alla potente flotta musulmana vinta e in gran parte affondata nelle acque di Lepanto dall'armata cristiana, mercè l'aiuto divino, del quale, in questo caso, ne è simbolo la colombina.
Il secondo spettacolo è una trasformazione del Camiju (corruzione della parola cammello), il quale è di dimensioni più grandi e si fa ballare di giorno. Ambedue i cammelli si riferiscono alla cacciata dei saraceni dalla Calabria e dalla Sicilia. Secondo la leggenda locale, riportata dallo Scrugli nelle sue 'Notizie Archeologiche e Storiche su Portercole e Tropea (Napoli, 1891)', quei barbari, per estorcere i tributi alle popolazioni, che prepotentemente avevano rese a loro soggette, usavano mandare in giro pei villaggi un moro, il quale, con aria spavalda, cavalcava un cammello. Dopo cH'essi furono vinti e cacciati definitivamente dai Normanni, si vuole che in Sicilia, onde mettere in caricatura l'esoso e smargiasso esattore, siasi ideato e costruito il Camiju. Ben tosto quest'umoristica usanza, che tanto lieto svago produceva nel popolo, dato il frequente commercio marittimo, che in quei tempi i diversi paesi dell'isola praticavano con Tropea, quivi si diffuse e il Petracca, in un articolo su Ricadi, pubblicato nella tanto pregiata opera 'Il regno delle due Sicilie', vol. 5, ne dà la seguente descrizione:
'' Nella vigilia delle feste principali, alla prim'ora, i fanciulli del villaggio (Ricadi) accorrono tripudiando al confine dell'abitato, ove hanno di già dato i tamburini che vennero dalla città (Tropea) su' loro sonori strumenti il primo segnale della festa. In compagnia di costoro viene un uomo che indossa vesti da facchino tropeano, il quale scaricatosi di un grosso fardello, che sta quivi sostenuto con una mano, va con l'altra asciugandosi la fronte dal sudore ond'è bagnata a casua del fastidioso carico portato da Tropea fino al paese. Ivi presso vedesi un brulichio, un va vieni, odesi un gridar confuso... sono quei fanciulli accorsi al tocco de' tamburi, i quali giunti alla distanza di pochi passi, da lieti e vispi ch'eran, si arrestano sorpresi; ed odesi allora un misto di voci fra il tripudio e la paura. Perchè ciò?... perchè è venuto il Camelo.
E' questo Camelo un goffo animalaccio artefatto. lungo circa sette palmi, di forma bizzarra, senza piedi, con un lungo e largo dorso simile a quello della testuggine, ma dipinto a strisce di vari colori, con la coda di bove, testa di legno nera e orribile, che somiglia a quella del cavallo, con due occhioni sempre spalancati; coperto da falda giallastra, che formando continuazione col dorso, cala giù fino a terra a guisa di gonna, e serve a nascondere l'uomo sopradetto, il quale adagiatosi sugli omeri la goffa bestiaccia camminando la fa camminare e tiene in continuo moto quella nera testaccia, facendole aprire e chiudere incessantemente la bocca senza lingua per mezzo di un laccio invisibile, che all'uopo si tira a guisa del vero Camelo, ed or contorcendolo in mille modi. Siede a cavaliere inchiodato sul dorso di quella strana effigie di animale un morello di legno dal berrettino rosso, che vien detto diavolicchio. Al suono ordinato dei tamburi progredisce il Camelo seguito dalla ciurma festante dei fanciulli, e ballando e movendosi con tutt'agilità in modo strano, e guardando verso le finestre, ove si son già i curiosi affacciati come per salutare il nuovo venuto, fa la sua corsa per le strade principali del villaggio e va poi a riposare in casa del Procuratore della festa. Esce quindi di nuovo parecchie volte durante la vigilia e più allo spesso nel dì della festa (tranne le ore in cui si eseguono le sacre funzioni), percorre tutti i vicoli, e passando innanzi alle case delle principali famiglie, vi si trattiene a far la sua ballata di ossequio, che termina con un profondissimo inchino, consistente in abbassare sino a terra la testa dalle orecchie d'orso, strisciando anche le tempie successivamente. Simile inchino vien fatto tutte le volte che s'imbatte in persone autorevoli. Ove osserva gente stare in crocchio, là si dirige, e fatta la sua ballata, va con la testa intorno tastando la saccoccia di ognuno, e ad ogni obolo che riceve, ripete il solito profondo inchino al donatore: poi congedatosene lietamente ripiglia il suo corso. E' pur curiosissima cosa il vedere quando esso Camelo, o meglio colui che lo muove si accorge di qualche balordo della plebaglia, il quale avendone paura cerca di darsela a gambe. esso allora gli dà la caccia, come il cane alla lepre; e gli corre dietro di galoppo, seguito dalla ciurma festante de' fanciulli, che con grida e schiamazzi e fischi dan la baja al povero fuggitivo, sino a che non trovi questi rifugio in qualche casa che rinvenga aperta. Nel dopo pranzo della festa, verso l'ultima ora, il Camelo fa la sua ballata finale, eseguendo la solita cerimonia avanti le case, come per prendere commiato e per aver complimenti caserecci (l'A. in una nota corrispondente asserisce che questa circostanza ricorda la fuga dei Saraceni dalla Calabria ed il commiato dai loro fratelli); quando poi ha compiuto il giro del villaggio, si ritira. Così finisce la festosa rappresentanza del Camelo, riguardata di tanta importanza presso il popolo, che non si tiene affatto per festa quella ove mancasse lo spettacolo del Camelo ''. Da parte nostra notiamo che fra gli ultimi camiari di Tropea si distinse per buon umore e perizia nel ballare il Camiju un tal Sergio Flavio, del quale si racconta il seguente fatterello umoristico.
Si celebrava in Zaccanopoli, villagio di Tropea, la festa di Santa Maria della Neve e Sergio Flavio era stato chiamato ad allietarla col suo Camiju. mentre egli faceva il giro per le viuzze di quel villaggio, si accorse che una vecchietta se ne stava affacciata alla finestrella della sua umile casa e godersi lo spettacolo che Sergio dava col suo bravo Camiju. Egli subito pensò farle una delle sue solite burle e, appena giunse a quella casetta, sollevò in direzione della finestrella il collo del Camiju, facendogli spalancare la bocca, irta di denti, costituiti da tanti chiodi. La povera e ingenua vecchietta, credendo che di essa il Camiju volesse farne un boccone, piena di spavento, esclamò 'O Jesu, pigghiati l'anima, ca lu corpu si lu mangia lu Camieru ! ' ( O Gesù, prenditi l'anima, chè il corpo se lo mangia il Cammello ! ). Non possiamo precisare, sia approssimativamente, in qual'epoca fu ideato il 'Camiuzzu di focu', che i pirotecnici locali diffusero in paesi lontani e vicini da Tropea, tanto che oggi del Camiju in pochi villaggi se ne conserva la memoria, mentre l'uso di quest'ultimo vige ancora e non c'è festa in cui, come s'è detto avanti, gli spettacoli non si chiudono, allo stesso modo di quella del sobborgo di Tropea, col caratteristico balletto del Camiuzzu di focu.
Il falò, il quale, in questa circostanza, unitamente alle luminarie ed ai fuochi d'artificio esprime il grado massimo di letizia che inonda il cuore del popolo, deve trarre la sua origine da qualche rito pagano, che anticamente doveva celebrarsi in Tropea. Esso ci richiama alla memoria i fuochi purificatori che i pastori accendevano nelle feste romane ataviche, dedicate alla Dea Pale e perciò dette Palilie, per poi attraversarli saltandovi sopra7. Ci fa ricordare i fuochi che ancor oggi i pastori di S. Agata d'Esaro (Cosenza) accendono la sera del 13 dicembre d'ogni anno. Costoro, dopo aver svelto nelle campagne alcuni pagliai, li portano infilati a dei pali davanti alla chiesa di S. Lucia, accompagnati sal suono della sampogna. Poi successivamente a ciascuno di essi vi appiccano il fuoco e, mentre arde la fiamma, si dispongono in giro a compiere il rito chi sonando, chi danzando e chi cantando inni alla santa. Dopo che si sono acquietate un pò le fiamme, cominciano a saltare successivamente su ciascun dei roghi e dan termine alla festa con mimiche rappresentazioni8.
Fuochi simili da tempo immemorabile, in certi dati giorni dell'anno, si usano accendere in quasi tutte le parti d'Italia e d'Europa. Nel Monferrato, alla vigilia delle feste ecclesiastiche, più numerose nell'estate che nelle altre stagioni, vengono accesi dei falò ed i fanciulli, tenendosi per mano, usano saltare attraverso le loro fiamme9. In Varapodio (Reggio Cal.) sette giorni prima della vigilia di M. SS. del Carmine, nel luogo detto Chiazza abbasciu ( Piazza di giù ) dopo il tramonto accendono un rogo, che vien detto 'U signu (il segno). Lo stesso avviene nell'altra località detta Chiazza ammunti ( Piazza di su ) nel mese di ottobre per la festa del Rosario e mentre le fiamme ardono e la musica suona, i ragazzi fanno a gara a saltarlo. Anche in Provenza (Francia), in occasione della festa di S. Giovanni, questi fuochi di gioja sono popolari. Colà i fanciulli vanno di porta in porta a chiedere legna (come usano fare i loro coetani del borgo di Tropea) e raramente sono mandati a mani vuote. Nei tempi passati il prete, il sindaco e i consiglieri andavano in processione e si degnavano perfino accendere il falò, dopo di che l'assemblea marciava tre volte intorno al rogo. Nel Belgio vige la medesima usanza e tra il popolo alcuni credono che i falò si accendono per cacciare via i demoni. In molte parti d'Inghilterra, nella stessa stagione, si compiono gli stessi riti e la gente salta e balla pure intorno al fuoco10. In Sardegna, nel mese di giugno, chiamato Lampas dai numerosi fuochi che per devozione si sogliono accendere nelle campagne, si suole contrarre davanti ai falò, considerati come fuoco sacro, il vincolo religioso del comparatico di S. Giovanni11. Questi fuochi devono connettersi all'antica festa del Sole, che si celebrava nel solstizio d'estate in onore di Persefone, ossia Proserpina (figlia di Cerere) appunto quando i contadini festeggiano la vigilia di S. Giovanni12, e come gli altri, di cui abbiamo discorso, non sono altro che riti magici dei nostri antenati. Essi persistono e persisteranno ancora, assumendo qualche volta un significato augurale, simile a quello del falò acceso sul colle di Tiberio a Capri dai giovani fascisti, ad iniziativa del Sovraintendente alle antichità della Campania prof. Majuri, il 24 agosto 1935, per salutare le cinquemila Camice Nere, fra cui figuravano S. E. Il Ministro Ciano ed i figli del nostro Duce, partenti per l'Africa Orientale con la motonave Saturnia. Forse verrà un giorno in cui saranno spazzati via dalla crescente marea delle forze morali, intellettuali e sociali, che porteranno la specie umana verso una nuova e sconosciuta meta. Allora i posteri potranno sentire come un naturale rincrescimento per lo sparire di queste cerimonie, che in loro sarà certamente diminuito al ricordo che esse ebbero la loro origine nell'ignoranza e nella superstizione, tanto più che noi oggi le consideriamo come un monumento di vana ingenuità e di speranze appassite.
NOTE 1 STRAFFORELLO, Geografia dell'Italia. 2 T. COSTO, Storia del Regno di Napoli, Venezia, 1591. 3 G. MARAFIOTI, Croniche et Antichità di Calabria, Padova, 1601. 4 P. MOLMENTI, Sebastiano Veniero e la battaglia di Lepanto, Firenze, 1899. 5 C. M. FAZALI, Rime, 1577. 6 G. CHIAPPARO, I Tropeani a Lepanto, Reggio Cal., 1932. 7 OVIDIO, Fast., lib. IV. 8 DORSA, La tradizione greco-latina in Calabria, 2^ ed., Cosenza, 1884. 9 G. FERRARO, Il fuoco, Arch. trad. pop., a XII, f. III. 10 I. G. FRAZER, Il ramo d'oro, traduz. di De Bosis, vol. III, Roma, 1925. 11 G. FERRARO, Il fuoco, Arch. trad. pop., a XII, f. III. I. c. 12 G. FERRARO, Il fuoco, Arch. trad. pop., a XII, f. III. I. c.