FRANCESCO RUFFA
di Luigi Aliquò Lenzi e Filippo Aliquò Taverriti (1955)
Da Tommaso e Gaetana Paladini nacque a Tropea il 26 aprile 1792 e vi morì il 7 luglio 1851. Giovinetto, vide nel suo paese eretto l'albero della libertà "con le solite feste patriottiche copiate sui modelli francesi, con calde orazioni e danze da baccanti, con giuramenti e nozze, in piazza, come in luogo sacro". Antonio Pagano - <<Un gran fabbro di sonetti del secolo XIX>>: Napoli, 1915 - scrive: " E potè sentire nella propria casa, tra le pareti domestiche, la gioia del padre temperata dalla presenza dello zio Raffaele Paladini, teologo di quella cattedrale. Potè assistere, senza capire, a quelle feste popolari e alle liete conversazioni e alle discussioni animate che con gli uomini più colti della città, Luigi Francia, Nicola Toraldo, Ignazio Barone, Goffredo Fazzari, teneva Pasquale Galluppi, già di ventinove anni, ritornato allora da Napoli... Più attonito il fanciullo potè osservare dopo alcuni mesi di festa e di letizia un cambiamento strano; potè osservare la plebaglia del suo paese, ignorante e inferocita contro i patrioti e i giacobini, correre subito alla piazza ad abbattere e bruciare l'albero della libertà, ritenuto tal cosa infernale, che, essendosi staccato da quell'emblema in fiamme un cerchietto di ferro, non un mendico vi fu che volesse, non che appropriarselo, toccarlo con mano; perciocchè divulgavasi che, su quel nobile emblema, nelle notti, lo spirito maligno vi fosse dimorato; ed il cerchietto, trascinato con pertica, fu gittato dalle timpe sul mare". Aveva soli quindici anni, quando fece rappresentare a Tropea un suo lavoro tragico - Ninia - che riscosse notevole successo. Lo pubblicò nel 1819, insieme ad altri cinque, a Livorno. Ed egli stesso scrisse nella prefazione: <<Nato tra Calabresi, gente coraggiosa quanto feroce, nei suoi propositi tenacissima, nelle sue passioni eccedente, io non vidi fin da fanciullo che esempi o di eroiche azioni o di straordinari delitti. Urti di grandi affetti, sangue, uccisioni, odi animosi, atroci, vendette, fratricidi, suicidi, misfatti di ogni specie, e dal canto opposto prove di fiero coraggio in faccia alla morte più sicura, di fedeltà senza pari, di nobil disinteresse e d'incredibil costanza, leali amicizie, atti di generosità sublime tra nemici stessi colpivano ad ogni istante la nascente mia fantasia. Le geste de' fuorusciti erano la materia de' racconti di tutti i crocchi. La volgar credenza alle fate, alle magie ed alle ombre degli uccisi, dette con vocabolo calabrese spirdi, aggiungeva a quei racconti tale aria maravigliosa e poetica che gli stessi animi più increduli ne rimanean dilettati. Io compiaceami di udire e di narrare io stesso geste sì fatte, e godea d'esser da' fanciulli dell'età mia con piacere ascoltato... leggevansi intanto la sera in mia casa le tragedie di Voltaire e dell'Alfieri, ed io rimaneane così incantato, ch'ogni studio o fanciullesco trastullo abbandonava per immergere la mia attenzione in quella lettura, che a sè traemi possentemente, e ch'era divenuta per me la più possente occupazione. Aveva io appreso a leggere su le novellette del Padre Soave, e non ancor di dodici anni avendomi proposto di scrivere (oh, la temerità!) un qualche dramma, non seppi altro scegliere per argomento che la tragica avventura di Belfiore e di Federico Lanucci>. Le tragedie del Ruffa ebbero da parte del grande pubblico il battesimo del successo. Così Morte di Achille, rappresentata nel settembre del 1822 ai "Fiorentini" di Napoli; scriveva infatti il critico teatrale del <<Giornale delle due Sicilie>>: "E' noto che il nostro tragico si apre una via poco battuta nel teatro classico, per non dir quasi deserta; quella cioè della pittura de' caratteri. Ei rispettando le immortali orme del grande Astigiano, non le ricalca servilmente: segue il proprio genio e non le di lui vestigia; l'arte si prefigge e non la maniera... Il veggiamo pure che questo parto di prima gioventù non vale il Terramene, l'Agave, il Codro e qualche altra sua produzione ancora inedita; ma la Morte d'Achille è tragedia perfetta, la quale ad onta di qualche neo ch'egli stessa non dissimula, resterà lungamente su le nostre scene". Gli avvenimenti d'Italia, intanto, si susseguivano, mentre l'ansia della libertà accendeva i patriottici cuori. "In questo fermento di vita agitatissima - aggiunge il Pagano - tra questi urti di idee e di avvenimenti, tra questi conflitti di stranieri contro stranieri e di concittadini contro concittadini, nacquero le prime poesie di Francesco Ruffa, pubblicate nel 1810. Ci si aspetterebbe di trovare nei versi di questo giovane poeta un'eco, una risonanza lontana, un'allusione, un accenno alla vita che gli si svolgeva didintorno. Nulla! Egli è un arcade, ondeggiante tra la seconda e la terza maniera. Niente di male... Il Ruffa era un arcade, quando crepitavano nella sua regione e attorno a lui le fucilate dei borbonici e dei francesi, degli inglesi e dei liberali napolitani, quando gli impeti più violenti e più selvaggi dell'anima irrompevano nella sua terra con atti di fierezza magnanima e di ferocia inaudita, quando nella sua casa si leggevano il Voltaire e l'Alfieri, e i nuovi sentimenti di libertà trovavano soddisfazione solo in quelli altissimi dei personaggi delle tragedie alferiane...>>. Compiuti gli studi classici, si trasferì a Napoli e si iscrisse alla facoltà di medicina di quella Università; ma presto passò a quella di legge, mentre si occupava quale referendario presso la suprema Cancelleria. Nella città di Partenope, la "quiete idillica" del suo spirito dileguava, ed un caldo amore di patria e di libertà accendeva la sua anima. "A rinfocolare quel sentimento giungeva da tutte le regioni d'Italia una gran voce, portata dalla letteratura e dal giornalismo, e si diffondeva dappertutto, e penetrava, innalzandosi, sin nelle corti, sì che anche i principi si facevano Carbonari. Trascinato da quest'onda, che pareva una vasta marea, spinto dall'incalzare de' fatti, che gli si svolgevano dintorno, da' sentimenti che aveva apprei fin da fanciullo nel segreto doloroso della casa paterna, dove s'era tramato per la libertà e si erano sofferte le amarezze delle persecuzioni politiche, il Ruffa, aperto ormai il suo petto a più largo respiro, elevò la poesia, che gli sorgeva dall'anima, verso l'ideale politico e civile segnatogli da' tempi. Nella lirica, la sua forma ora si stacca dalla serenità della primitiva maniera, finisce d'aleggiare su la superficie delle cose senza toccarle, e, discesa verso un contenuto più reale della vita, tenta di penetrare in ciò che in essa trova di più vivo: dolore, sdegno, minaccia, odio, brama di lotta e di vittoria". Intraprese la carriera della magistratura e venne destinato al Tribunale di Catanzaro; ma il Borbone lo destituì per la vibrante Ode Alla tomba del padre, apparsa ne <<L'Imparziale>> del 18 agosto 1820. Come il padre, fervido propugnatore della libertà, fu anch'egli vittima di persecuzioni; per vivere impartì lezioni private di letteratura, storia e filosofia, mentre "continuò ad alzare la voce, con coraggio e con franchezza, contro l'ignavia e la viltà de' tempi...". L'atteggiamento, tuttavia, sempre più reazionario e poliziesco del re e del governo, costrinse i patrioti a trovare rifugio all'estero; il Nostro non volle o non seppe resistere di fronte all'incalzare degli avvenimenti, e, per rimanere in patria, malgrado i notevoli successi conseguiti con i suoi versi, si diede a trasformare "la poesia di moda, la necrologica, in poesia politica e civile, traendo occasione della morte degli uomini più noti per riaccendere nell'animo de' suoi lettori sentimenti non solo di indipendenza dallo straniero, ma - notevole pel suo tempo - anche di concordia e di unità tra tutti gli italiani". Il Pagano osserva: "Indotto forse dalle stringenti necessità della vita a cercare un impiego che, come quello di giudice, che gli era stato tolto, gli assicurasse il necessario, vinto forse dal bisogno in cui vide dibattersi la sua famiglia, non così agiata da poter superare le piccole difficoltà economiche quotidiane, attirato ingenuamente, da' primi anni di regno di Frdinando II, che parve volesse fare il re liberale non di Napoli soltanto ma di tutta Italia e servirsi pel raggiungimento del suo fine delle armi proprie non di quelle d'altre nazioni, il poeta, da carbonaro divenuto borbonico, fu nominato regio revisore delle opere teatrali, e fece il redattore della gazzetta ufficiale del regno, o <<Giornale delle Due Sicilie>>, e il poeta di corte, della corte del Re burlone! E scrisse un canto epitalamico: In occasione delle faustissime stabilite nozze di S. M. cattolica con S. A. R. la Pincipessa D. Maria Cristina, e un sonetto Per la immatura morte di Maria Cristina di Savoia regina delle due Sicilie, un altro sonetto, nella stessa circostanza, L'addio della Regina al Figlio ed altri componimenti encomistici della Casa reale". Fu anche critico e filosofo stimato, studioso e pubblicista. Quale poeta, egli ebbe lodi e plausi. Ma, aggiunge il Pagano, il favore del pubblico lo abbandonò e lo scherno epigrammatico prese a perseguitarlo, facendolo nella parte più viva, senza dargli riposo. Il popolo che lo abbassava ora quanto lo aveva esaltato quando il suo nome era una simpatia, si preparava ai sacrifici del '48 forte del suo diritto, sicuro della santità della sua causa; e il poeta cavaliere, che non poteva rimanere col dispotismo e con la reazione, si rifugiò nella fede, tutto intero, filosofia e poesia". Non gli restava ormai che dare un addio a Napoli; rientrato quindi nella sua Tropea, concluse la vita travagliata il 7 luglio 1851.
Le opere - Liriche, 1810. - Le Epistole sulla <<Mirra>> dell'Alfieri e sull'<<Agamennone>> (1813). - Tragedie (Codro, Agave, Le Belidi, Ninia, Teramene, La morte di Achille): Livorno, Glauco Mari, 1819. - L'indicatore, periodico: 1830. - In occasione della morte di Sir Walter Scott, Canto lirico. - Sonetto a Maria Santissima Immacolata: Napoli, Stamperia reale, 1849. - Poesie, oltre 280 sonetti raccolti da S. Mormone: Napoli, 1865.
Numerosi altri versi sono sparsi in riviste, giornali e strenne. Lasciò mss, Il secondo volume delle tragedie: Il San Giovanni Battista, Amalasunta, Vendetta d'un goto, e molti altri lavori, alcuni dei quali furono perduti; tra questi, la traduzione del Sallustio. Cfr.: - Goffredo Fazzari, <<Ricordanza del poeta calabrese Francesco Ruffa nel 50. anniversario della sua morte>> in <<Fede e Civiltà>> del 6 luglio 1901. - Luigi Accattatis, <<Le biografie degli uomini illustri di Calabria>>. - Ulloa: <<Pensées er souvenir sur la Littérature Contemporaine ecc.>>, Ginevra, 1859, v I, pagg. 239, 251; v. II, 67 a 74, 109 a 193. - Antonio Pagano, <<Un gran fabbro di sonetti del secolo XIX>>, Napoli, Stab. tipo-stereotipo S. Morano, 1915.