FRANCESCO RUFFA, censore borbonico
di Giuseppe Tricarico (1957)
Alla maniera degli Arcadi
Intanto, mentre ancora non si è rivelato a se stesso, il giovanetto che, già a soli dodici anni, si era cimentato nel difficile agone teatrale, si diletta a comporre alla maniera degli arcadi, decantando le bellezze e le grazie delle Amarilli campestri, non di rado metastasianamente sentenziando. Suoi modelli sono, più che il laureato poeta della corte viennese, il non migliore Lemene e il Rolli, verseggiatori ora leziosi, ora musicali. Del Metastasio seguirà poi, nelle tragedie, senza peraltro imitarlo pedissequamente, la non comune abilità nella rappresentazione dei sentimenti umani, così come dall'Alfieri prenderà la concisione del dire, la controllata proprietà dell'eloquio e il vigore dei caratteri. Per ora egli si limita a ricamare canzonette e romanze, a bamboleggiare, mentre suo padre scandisce i rudi, opportunamente chiosandolo, il Voltaire. E così, come
Vezzi, Scherzi, Amori arditi convitàro un giorno uniti vari Numi del bel sesso a festevole consesso.
Il Poeta convita al suo desco musaico: Psiche, il Rimorso e la mesta Luna
per la qual la notte bruna ama più del chiaro dì.
E, alla maniera del Metastasio, per amor del contrasto, canta:
Quando più son contento, io provo in fondo al cor un senso di dolor che mi avvelena.
E quando affanno io sento che lacrimar mi fa, un senso in me pur v'ha che non è pena.
E ammonisce:
se bramate, o garzoncelli, trar felici i vostri dì, ah, fuggite gli occhi belli di colei che m'invaghì !
E arpeggia:
Amo ed aborro insieme colei che m'arde il petto; m'incanta quell'aspetto, mi uccide il suo rigor.
Insana è la mia speme lo so; ma se vogl'io strapparla dal cuor mio, debbo strapparmi il cor.
Il poeta civile
Nominato referendario presso la Suprema Cancelleria di Napoli, il Ruffa si svolge il suo lavoro in tranquillità, se non in letizia. Intanto nuovi impeti di rivolta tengono sospesi gli animi che preparano i moti del 1820 e del 1821: ormai anche le pietre trasudano l'amore per la libertà, amore che la sete di vendetta di re Ferdinando, rimesso sul trono straniero, non riesce ad estinguere. Egli non dispera e freme, come tutti i suoi amici, nella trepida attesa, ed ottenuto il posto di giudice presso il Tribunale di Catanzaro, a contatto della sua terra in piena ebollizione, trova finalmente accenti e materia più aderenti ai tempi e alla dignità dell'arte. L'ode composta in memoria del padre suo, mortogli nel 1819, onorato da un elogio funebre di Pasquale Galluppi, rivelatore all'Italia del pensiero kantiano, e pubblicata ne L'Imparziale il 1° Agosto dell'anno seguente, per un fiero accenno alla conquistata libertà, gli fa perdere il posto. Egli è orgoglioso di questo suo contributo alla causa per cui tanta gioventù si era immolata, in ciò seguendo le orme paterne. Ma, ahimè, per poco, chè la mollezza del carattere, la prevalenza del sentimento sulla ragione, la facilità con cui cede alla sventura, lo portano, dopo un ventennio di illuminato se non bellicoso patriottismo, a rendere omaggio al tiranno, come vedremo. L'ode incriminata, che consta di tredici strofe di tre settenari e tre endecasillabi ciascuna, si inizia con un commosso saluto all'onorato sasso
che del suo genitor gli avanzi preme;
quindi si duole della morte di lui, avvenuta a rio servaggio in seno, e cioè per non avere egli, fervente patriota duramente perseguitato, visto aprirsi, per il popolo, quell'era di libertà e di progresso tanto e così a lungo vagheggiata. Ma si conforta perchè
la terra ove riposi
dice, rivolto al suo degno genitore,
... non è più serva, Eccelsa ammenda dei lacci vergognosi il popol fè. Voce innalzò tremenda che fra gli astri pervenne: libertà chiese e libertade ottenne.
Crollo di un'anima
Tornato a Napoli, si dà, per vivere, all'insegnamento e al giornalismo. Suoi amici sono letterati e patrioti, al par di lui pervasi da forte amor patrio, che continua ad essere il tema favorito dei suoi componimeti poetici. Nel 1840 gli muore la moglie, Enrichetta Langer, che egli aveva sposata l'11 dicembre 1828, e che gli aveva dato tre figli, uno dei quali, Eduardo, si rivelerà più tardi uno dei più illustri e dei più originali atleti del glorioso Foro partenopeo. Egli l'aveva conosciuta in casa Bucerino, a Napoli, in occasione in una recita in cui la giovinetta, quindicenne appena, interpretava la parte di Micol nel Saul dell'Alfieri. <<Grazia, bellezza, sensibilità, purezza, fortezza d'animo, modestia>>, ecco le doti per voce pubblica attribuite alla buona e saggia Enrichetta, ed espresse per bocca di tale Ignazio Grassini; doti che, ove si completino con l'amore sconfinato che ella portò al marito, con la innata liberalità verso i poveri, e col culto, in lei connaturato, dell'amicizia, ci spiegano a sufficienza l'adorazione del Nostro per così eccezionale donna, ed il collasso cui non seppe reagire allorchè la morte la ebbe strappata al suo affetto. La straziante agonia della donna amata, protrattasi per quattordici mesi, durante i quali, sottoposta a ben sette interventi chirurgici, fu essa a infonder coraggio al marito e ai figli, e la sua immatura fine determinano il crollo dell'animo del Ruffa, che ormai non ha parole se non per piangere la sventura che lo ha colpito. <<Il pianto - dice in proposito Filippo Scrugli - era lo stato normale della sua vegetazione che ancora si chiamava vita>>. Largo compianto suscitò nei compaesani del Ruffa la dipartita della buona Enrichetta2, in memoria della quale il desolato marito pubblicò una imponente raccolta di sonetti che ne esaltano le puculiari doti, spesso con commovente spontaneità, più spesso - come di solito accade allorchè si diluisce all'infinito un sentimento, anche se nobilissimo - con evidente artificio, o, meglio, con quella stanchezza di ispirazione che scade nell'artificio. Non più sacri sdegni e fiere invettive contro la tirannide, ma cedimenti che si concludono nel supino adattamento al regime politico fino allora deprecato: il crollo è completo, reso più facile ed inarrestabile da sopraggiunte necessità materiali. Il <<patriota>> è ormai morto: al suo posto è un nuovo cantore, un cantore che ci era sconosciuto e che compone un epitalamio per le faustissime nozze di S. M. Cattolica con S. A. R. Maria Cristina e inneggia - udite udite! - a Pio IX benedicente l'armata di Ferdinando II, ed ai non più aborriti Borboni. Tanta morale e civica diserzione, mentre suscita il rimprovero e lo scherno dei suoi molti amici ed estimatori, non resta senza premio, ed eccolo elevato alla carica fiduciaria di revisore delle opere teatrali per la città di Napoli, di redattore del Giornale delle due Sicilie e di poeta di corte.
Il censore
La censura, com'è noto, non di rado era affidata a persone poco provvedute, che nell'esercizio del mestiere andavano quasi sempre di là da quanto la legge prescriveva, che era già molto. Venivano, per esempio, cancellate non solo le parole che potessero avere un qualsiasi riferimento alla Corte, alla sacra famiglia reale, ai dignitari del Regno, al clero, alla religione, alle norme ed ai sistemi con cui il felice regno era amministrato, ma anche le più innocue allusioni a fatti, azioni e sentimenti propri di tutti gli esseri viventi. Valgano pochi esempi: un censore non permise che nel copione dell'Adriana Lecouvreur le lacrime di costei fossero asciugate coi baci, che vi si parlasse di miracoli, di scandalucci, e che l'amata venisse chiamata angelo. I miracoli furono mutati in prodigi, gli scandalucci in scrupoli, l'angelo in genio. Nè basta: un pretonzolo, non sappiamo se più presuntuoso o ignorante, tale Gaetano Royer, censore in Roma, e che non era mai stato a teatro, ordinò che a un melodramma dal titolo Torquato Tasso fosse cambiato il nome in Sordello, e ciò perchè non fosse arrecata offesa alla Casa d'Este ! E all'impresario d'una compagnia francese che gli aveva chiesto il permesso di rappresentare un dramma dal titolo: A qui la faute?, il Royer che, naturalmente, non sapeva il francese, udendo il suono di quelle parole, rispose, avendo un diavolo per ogni capello, che no, il permesso per mettere in pubblico tali sozzure, egli non lo avrebbe mai dato ! Questo ci apprende Leonetto Vanzi in <<Noi e il Mondo>>3. Le prime tracce, in Sicilia, di una primordiale censura pare risalgano al 1520. Essa però era limitata ai soli libelli che, diffondendosi, diffamavano e si presentavano a meraviglia, come a meraviglia tuttora si prestano, per ordine ogni specie di ricatto. Solo nel 1561, la censura, codificata, venne affidata ad una commissione che aveva facoltà di accordare o di negare la licenza di stampare opere di qualsiasi natura. Riteniamo di far cosa gradita ai lettori riportando il testo della Prammatica Sanzione emanata dal re Ferdinando IV e valevole per la Sicilia:
<<Perchè per esperienza s'ha visto che in questo Regno si stampano e s'hanno stampato diverse opere, tanto latine, come volgari, senza essere reviste da persona intelligente come si costuma in altri luoghi e parti dove si suole stampare, fra le quali opere vi sono alcune di tal contezza e modo, che se fossero reviste, non si lascieriano stampare, del che ne risultano molti inconvenienti, e volendo Noi obviare a quello che sopraciò potesse succedere, fatta matura discussione nel Sacro Regio Consiglio, con voto e parere di quello, per la presente Nostra Prammatica Sanzione, perpetuo valitura et duratura, statuiamo, sanciamo e ordiniamo che da qui innanzi nessuna persona di qualsivoglia autorità e dignità si sia, tanto stampatori, quanto altri, debba stampare o fare stampare, directe vel indirecte, nessuna opera di qualunque qualità, tanto latina quanto volgare, senza Nostra espressa licenza, o degli illustri Vicerè che suo tempore saranno, che prima non sia revista per persone le quali saranno elette da Noi per rivedere dette opere, e le persone che contravverranno, siano in pena d'onze cento applicando al Regio Fisco e di stare cinque anni in galera e li stampatori siano in pena d'onze cento e di stare in galera in vita e contro le persone controvenienti possa il Fisco principaliter agire.>>.
Nel napoletano, durante il periodo prerisorgimentale, la censura ebbe, per ragioni intuitive, carattere eminentemente poliziesco di repressione del liberalismo. Il Ruffa fu, dunque, preposto a tale ingrato compito. Come e con quale animo egli, che pur fregiandosi ora del titolo di cavaliere, era stato - e forse nel suo intimo continuava ad esserlo - un ardente liberale, si era compiaciuto dell'amicizia e del plauso dei <<carbonari>> ed era, per giunta, persona di non comune ingegno e poeta e autore di opere teatrale non spregevoli; come e con quale animo assolvesse il proprio compito, non possiamo con sicurezza affermare; ma riteniamo - per quanto al riguardo ebbe a raccontare il figlio suo, Eduardo - che vi attendesse con larvata insofferenza. Insofferenza che non tardò a manifestarsi, se non proprio verso il Sovrano, verso persona a questi molto vicina, e cioè verso il ministro degli interni del tempo. Ed ecco come: era stata concessa direttamente, dallo stesso ministro, ad un capocomico suo conoscente, la prescritta licenza di rappresentazione di un lavoro drammatico, che spiacque a più di un codino! La cosa fu subito segnalata in alto. Il ministro, o perchè aveva dimenticato di essere stato lui a concedere il permesso in parola, o perchè sicuro che il Ruffa avrebbe incassato senza fiatare, scrisse, con la più rabbiosa delle sue calligrafie: <<Chi è stata la bestia che ha concesso la licenza di cui all'oggetto?>> Ed il Ruffa, di rimando, burocraticamente restituendogli il foglio: <<Vostra Eccellenza!>>. E perdette il posto. Dopo tale incidente, deluso, scontento, non più confortato dal consenso unanime di quanti avevano amato in lui non solo l'amico e il poeta, ma anche, e soprattutto, il nemico della tirannide, non più sorretto dal virile, vigile amore della sua tenera compagna, egli torna alla sua Tropea e si rifugia nella Fede, in una fede anelante al progresso. E nella casa avita chiude la sua tribolata esistenza il 7 luglio 1851 tra il compianto dei suoi compaesani ai quali non fa ombra, data la bontà dell'uomo, la debolezza del carattere4.
Le Odi
Abbiamo fugacemente accennato al Ruffa giovinetto, poetante alla maniera degli arcadi: vediamolo ora in tutt'altra luce. Le Poesie, pubblicate in Napoli nel 1865 dallo Stabilimento Tipografico di G. Gioia, comprendono: tre poemetti: Camilla, Tre pianti, il Trionfo di Venere; 16 odi; 276 sonetti, di cui 76 in morte della moglie e 72 di argomento sacro; ed infine 32 componimenti <<vari>>, tra cui la ricordata ode in morte del padre. Le odi, ispirandosi al culto della Verità, alle patrie virtù e agli uomini che furono luce al mondo, vivificano - per dirla col Mormone che ha premesso alla raccolta delle poesie una dotta prefazione sul cammino e i compiti della poesia nel corso dei secoli - chi legge e, deplorando la patria decadenza <<per colpe e viltadi di imbelli nepoti>>, esaltano la prisca grandezza ed auspicano tempi migliori, ma nel patriottismo del Ruffa non v'è nulla di rivoluzionario, nulla dello slancio e dell'ansia di liberazione che son propri dei poeti patriottici del suo tempo. Notevole, tra le Odi, quella dedicata alla Verità, che si chiude con un'accorata invocazione:
Io guardo il germe uman qual mio nemico perchè non t'ama e il suo consorzio fuggo; per chi ti scaccia, io, per costume antico, d'ira mi struggo.
Il vile Inganno dei tuoi fregi adorno sai che sovente io smaschero e confondo, e nell'error natio, pinto di scorno, lo mostro al mondo.
Scendi a me dunque; e con serena faccia a' miei disegni ed a' miei canti arridi; invan l'ingegno va del bello in traccia se tu nol guidi !
Di nobile ispirazione quelle composte per l'erezione di un monumento a Orazio in Sulmona, per la morte della moglie di Pasquale Galluppi, in cui è un presago accenno a quel che sarebbe di lui se la sua Enrichetta dovesse premorirgli, e quella che riporta le impressioni ricevute da una visita alle Catacombe di San Gennaro, dove egli, da quelle vestigia, intuisce attuata e vede sepolta la cristiana legge di carità, di speranza e di amore che dovrebbe fare di tutti gli uomini della terra una famiglia sola. Ma su tutte noi preferiamo l'ode per l'inaugurazione del ritratto di Bellini (si inauguravano anche i ritratti a quei beati tempi !) nelle sale del Real Collegio di Musica (San Pietro a Majella), quella a Rossini, comodamente adagiatosi nell'ozio dopo gli allori mietuti,
un Silla, un Carlo all'ozio riedan: quell'ozio all'Universo è pace; ma colpa è il tuo che il frauda d'ampio tesor di voluttà verace,
e quella in morte di Antonio Canova, che ha commossi accenni alla patria avvilita e perciò non degna di così grande artista, cui essa non fu in grado di offrire avvenimenti adeguati la suo genio:
Spento a Canova il giorno, tu il piangi, Italia, con dolor superbo? Tu nol mertavi, e scorno anzi dovrebbe in te sorgerne acerbo: chè se quel divo ottiene di Fidia il canto, or sei tu forse Atene?
Di', quai di ardire e d'armi del tuo libero braccio opre immortali argomento a' suoi marmi offrivi, o Italia, a tanto ingegno eguali? O quai tra i figli tuoi degni del suo scarpel sorsero eroi?
Ed è vano - conclude - additare a testimonianza di un'Italia ancora grande la tomba dell'Alfieri, chè la fierezza dei suoi versi è lodata sì, ma non è sentita, e la patria è quella che è: il contrario dell'Italia vagheggiata da colui che <<fornì di parole e di accenti gli amatori della libertà>>.
I sonetti
Personale, ancor più che nelle odi, meno togato e perciò più spontaneo, ci appare il Ruffa nei sonetti. Anche nei sonetti, come in alcune odi, non mancano le imitazioni: basti, per tutte, citare quella in morte di Napoleone in cui il Nostro riecheggia il <<Lui sfolgorante in solio>> manzoniano, e i sonetti su Giuda che risentono fortemente dei classici sonetti del Monti sullo stesso argomento: ma nella maggior parte di essi il Ruffa non ha bisogno di modelli e scrive come amor gli detta dentro. Non già in quelli di argomento sacro, scaturiti, forse più che dal suo animo affranto per la morte della moglie, dal bisogno di fissare il pensiero su qualche cosa di eterno che lo compensi delle delusioni subite: sonetti che, al pari degli altri suoi componimenti dalla religione inspirati, sono una scialba, dottrinaria versificazione di salmi e degli attributi della divinità, più che un'imitazione dei modelli manzoniani; nè in quelli in morte della moglie che risentono, in gran numero, delle pecche, artisticamente maggiori, da lui imprudentemente rimproverate al Petrarca; ma in quelli di argomento vario, a volta traboccanti di delicati affetti e di robusta fede nei destini della patria e della umanità. L'ispirazione è generalmente nobile, la materia sapientemente ripartita nei periodi ritmici del breve ma non facile componimento, la forma impeccabile, chè lo studio degli arcadi, e del maggiore di essi, gli ha giovato non poco. Molti dei sonetti pubblicati meriterebbero di essere largamente conosciuti, ed è da sperare che fato migliore arrida, un giorno, al <<gran fabbro di sonetti>> come piacque ad Antonio Pagano definire il Ruffa5, e come è nei voti di Giuseppe Cortese, raccoglitore attento e paziente di notizie intorno al Ruffa, gentilmente messe a nostra disposizione6. Recentemente Ettore Janni, da qualche mese mancato ai vivi, nella sua meritoria opera intesa a rinverdire la memoria dei poeti minori dell'Ottocento, edita dal Rizzoli, che con la sua B.U.R. è altamente benemerito della diffusione della cultura, ha riportato, del Ruffa, un sonetto: quello dal titolo Il ritorno. Ci spiace dover rettificare una inesattezza in cui il Janni è incorso nella brevissima nota biografica del Nostro: il Ruffa non fu mai <<esule dalla patria>> come vi si afferma7. Il sonetto fu composto quando egli ebbe definitivamente lasciato Napoli nelle condizioni spirituali note, per ridursi a vivere di ricordi e di rimpianti nella vecchia casa, orba dei genitori e della moglie. Esso non è dei suoi migliori e ripete il trito concetto del non ritrovarsi più, dopo una lunga assenza, nel proprio ambiente reso irriconoscibile dalle offese che il tempo infligge alle persone e alle cose. Tra quelli che volentieri pubblicheremmo, se lo spazio e l'indole di queste note ce lo consentissero, sono i sonetti dedicati a Michelangelo, che il Nostro rappresenta nell'atto di dir: parla al suo Mosè:
Ben come Dio parlò quell'alma altera quando il cenno di vita al marmo dava; ma allor pur s'avvedea che Dio non era.
a Giulio Cesare, cui rimprovera il profondo desio di regno
a sua vita funesto e a sua memoria fatale error ! Credea che avesse il Mondo qualche cosa maggior della sua gloria !
a Lucrezia che, trafiggendosi, non intende punire in sè l'altrui fallo osceno, ma spegnere con sè il germe dei Tarquinj, a Bruto, a Virgilio, a Dante
che d'immortale maestà riluce nella fronte divina; e come Dio divide dalle tenebre la luce.
e finalmente quelli a Tasso, ad Alfieri e a Metastasio, che
toccò di Sofocle l'altura coll'anima di Euripide nel petto.
Da quanto sopra detto, non vorremmo esser fraintesi: non vorremmo, cioè, che il valore dei componimenti poetici del Ruffa venisse giudicato unicamente dalla elevatezza dell'argomento trattato, chè anche in quelli di ispirazione, diremo così, familiare, egli sa rendere nobilmente i concetti. Non al maraviglioso o al non comune egli ha bisogno di ricorrere per dar la misura delle sue possibilità: gli bastano dei concetti semplici per fare opera poetica. Valga come saggio il sonetto dedicato alla Notte, in cui i pensieri che questa suscita nel più modesto degli uomini sono poeticamente espressi:
O di sospetti madre e di paure, che i vanni addoppi all'agil Fantasia, morbo ai morbi e sventura alle sventure tu giungi, e nova furia a Gelosia.
A sante preci, a pallide congiure amica scendi, in un profana e pia; e al par nascondi sotto l'ale scure Vendetta e Carità ne la lor via.
Vesti il Periglio di tua forma bruna e il fai gigante, e il fai dell'alme donno, alleata di morte e di Fortuna.
Ma gravi e acerbi pur quanto più ponno que' mali sien che la tua possa aduna, tutti gli ammenda un sol tuo dono: il sonno.
E non vorremmo che tutti in blocco venissero condannati i canti di ispirazione sacra, chè anche in alcuni di questi vi è del buono.
I Poemetti
Molto mediocri sono i tre poemetti compresi nella raccolta curata dal Mormone: nel primo, Camilla, in terzine, il Poeta immagina di trovarsi, di notte, nel folto di un bosco atro ed orrendo. Un pallido raggio di luna gli rivela a un tratto un vasto cimitero. Da una tomba vien fuori una voce, e quindi, (siamo in pieno romanticismo), col suo aiuto, una donna, Camilla, che, svenuta all'annunzio della morte del padre suo in guerra e ritenuta morta, era stata sepolta viva. Il poeta la riaccompagna a casa dove il marito e i figli della giovane donna piangono inconsolabili, e la gioia più tenera e viva avvince quei teneri cuori. Questa patetica scena serve di pretesto al Nostro per infierire contro coloro che si pascono dell'altrui dolore e per levare un inno alle felicità domestiche. Ne I tre pianti siamo trasportati nella Deicida Sionne. Presso il sepolcro di Cristo, le tre Marie sfogano la piena del loro dolore in settenari l'una, in ottonari la seconda, in senari la terza: ma il loro dolore non convince nè commuove tanto sono quei versi freddi e poco poetici. Nel terzo, in versi sciolti, Il trionfo di Venere, assistiamo al banchetto che ha luogo nell'Olimpo per festeggiare le nozze di Peleo e di Teti, e al lancio del famoso pomo da parte della non invitata dea della Discordia, pomo da assegnarsi alla più bella tra le dee. Come è noto, Giove, che sa il fatto suo, elegge il buon Paride a giudice, e questi, che non è da meno di Giove, dà la vittoria a Venere, con soddisfazione del poeta che commenta:
...Ovunque Cipria passa, le nubi si diradano, e deposto il cupo aspetto, de' color più vaghi pingonsi in faccia al Sol; tra la verdura degli arboscelli e di fioriti campi raddoppian gli augelletti il canto e i baci.
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E par che la natura ormai risenta quel gaudio che provò nel giorno in cui nacque la bella Diva, e nacquer seco le grazie, i dolci affetti, il riso e il gioco.
Le Tragedie
Non pochi furono i lavori teatrali composti dal Ruffa. Secondo il Mormone, inediti sarebbero una tragedia dal titolo: Giovanni Battista e un poema drammatico: La vendetta di un Goto. L'Accattatis vi aggiunge un'altra tragedia: l'Amalasunta8. I due volumi pubblicati dal Masi a Livorno nel 1819 ne comprendono sei: Teramene, Agave, Le Belidi, Codro, Ninia e La morte di Achille9. Alle tragedie l'autore premette un'ampia introduzione in cui, dopo aver analizzato le tragedie stesse ed accennato <<al fuoco sacro che gli ardeva dentro e che fin dal suo dodicesimo anno d'età lo aveva spronato a cimentarsi nel disagevole campo teatrale>>, dà ragione della economia di persone e di episodi cui la sua opera s'ispira, della lingua adoperata, degli scopi che si prefigge di raggiungere. Economia di persone e di episodi per occupar sempre dell'oggetto principale gli ascoltatori, e conseguentemente per dare unità e semplicità all'azione, così come praticato dai grandi tragici greci. Quanto alla lingua, dopo aver respinto la teoria dei <<lassisti>>, che si ostinavano a non riconoscere leggi stabili nella lingua, e quella dei <<puristi>> che restringevano tutto il loro codice nei soli modi usati da tre o quattro scrittori dei primi secoli dell'italiana favella - e condannata la polemica interminabile tra gli uni e gli altri - dichiara di attenersi - da tradizionalista quale è - alla oraziana aurea via di mezzo che andavan tracciando il Monti e il Perticari. E, scrupoloso fino all'esagerazione, avverte che saranno impresse in corsivo tutte le voci nuove o da lui inventate o comunque non autorizzate da buoni scrittori. Ed ecco l'elenco delle voci... incriminate: <<trasporto>>, nel senso figurato, riferito a movimento dell'animo; <<proscritte>>, <<imene>>: per matrimonio (l'imene intanto... (Oh, ciel!) l'imene accetto); <<palpiti>>, <<presagitore>>, <<scordato>>, <<furente>>, <<irresistibile>>, <<ideare>>, <<infinite>>, <<soporifero>>, <<invasa>> nel senso di ossessionata, <<allagata>> per inondata, <<incorrisposti>>, <<idolatrata>> e <<abbagliatrice>>. Quanto allo scopo morale cui l'opera deve tendere, l'A., confutato uno dei tanti pregiudizi ai suoi tempi imperante, secondo il quale <<gravissima macchia>> era introdurre in essa inganni, perfidie e tradimenti impuniti, sostiene che fine del poeta non deve essere quello di migliorare la morale, ma di imitare il vero col quale <<si giungne non solo ad istruire il pubblico, ma, quel ch'è più importante, a dilettarlo istruendolo>>. Proposito cui si può ad occhi chiusi sottoscrivere e che il poeta attua con soddisfazione del pubblico del suo tempo. Piuttosto che seguirlo nell'ordine, ci piace raggruppar le tragedie secondo le affinità che esse presentano quanto alla ispirazione. L'Agave - che non fu mai rappresentata a teatro, ma unicamente, e con successo, in casa del maresciallo Nuziante in Tropea - richiama Le Baccanti di Euripide. Oggetto del dramma: il contrasto tra Bacco e Penteo, re di Tebe. Differenza sostanziale: l'assenza, nella tragedia del Nostro, del prodigioso, e cioè della lunga serie di prodigi che vietano al Penteo di Euripide di compiere la sua vendetta. Nella sua Agave il Ruffa - considerato che il teatro, dopo i lumi della filosofia non soffra più soprannaturali avvenimenti, a segno che poca riuscita v'incontrerebbero gli stessi portenti della nostra augusta religione - mette in iscena il fatto tale quale istoricamente avrebbe potuto avvenire per eccesso di superstizione; eccesso che porta Agave ad uccidere il figlio Penteo, da lei creduto, a torto, autore dell'incendio del tempio del dio. Notevole, nel corso della tragedia, l'amor patrio che spira dalle parole di Penteo, che è ritratto con soddisfacente vigore, anche se, come del resto tutti gli altri eroi del Ruffa, egli tenda più al lirico che al drammatico. Eccessivamente concisa ci sembra l'ultima scena, che perciò non riesce a commuovere, nonostante il diluvio delle paterne esclamazioni che la punteggiano:
CADMO (padre di Penteo) Tiresia ov'è? Dar mi dovrà ragione del Tempio ch'ei bruciò. AGAVE Che ascolto! CADMO Oh, cielo! Penteo!... Chi, chi svenollo? Ah, che vegg'io? Tu stringi il ferro insanguinato! Oh, mostro! Oh, doglia!... Oh, rabbia!... AGAVE Incenditor del Tempio creduto ho il figlio. CADMO Snaturata! Il Tempio da Tiresia arso fu: chi il vide, il narra... Oh, figlio amato! Oh, vittima innocente del furor d'una insana! AGAVE Ah, cieca, cieca io fui... Figlio, ti seguo! (si ferisce) CADMO Ahimè! che festi? AGAVE Del delitto... l'ammenda... (cade morta sul corpo del figlio) CADMO Ah, tutto in perdo! Esecranda impostura, e quali eccessi ti restan più? Che più ti resta a tormi?
Qui la rapidità dell'azione va a discapito della imitazione del vero, che il Ruffa afferma essere il fine del poeta: Agave ci sembra un'estranea, una spettatrice smaliziata, piuttosto che una madre rea dell'uccisione del proprio figlio innocente: nè basta a rendere evidente l'angoscia, che pure la spinge a uccidersi, quel letterario: Ah, cieca, cieca ch'io fui! E' più materno il vecchio padre che lei, e ciò non giova alla riproduzione, sulla scena, degli affetti quali ci è dato osservare nella vita reale. Nel Codro, che il Ruffa - non conoscendo altro di lui se non ciò che la leggenda ce ne ha tramandato: essersi cioè immolato per salvare Atene dall'invasione dei Dori - è indotto a creare <<trasportandosi>> nella di lui situazione, l'amor patrio è caldo e sentito. Scenicamente modellata sulle tragedie greche, più che le altre; questa non ha il solito gioco dei contrasti di caratteri così caro al Nostro: l'azione procede spedita, senza che l'appesantiscano o la ritardino episodi secondari. La gara di umano e civico affetto tra il sovrano e il suo popolo è rotta soltanto al IV atto dal prorompere dell'intimo tormento di Codro al pensiero che tra poco la giovane sua sposa, Asteria, e il figlioletto lo cercheranno invano:
...Atene, or sì, conosco quanto mi costi!... E che far deggio intanto? Da questo punto la mia gloria pende, pende il ben della patria!... Ah, che se incontro io vo di Asteria, alle querele, al pianto perduto è il mio coraggio... Eh, ti ridesta mia sopita virtù: sì, già ti sento: tu in me trionfi: tu mi chiami al campo: ecco: ti seguo...
Sopravvengono la sposa e la nutrice col piccolo: Codro non si lascia vincere dalle querele di Asteria, poichè
L'uom, fugace mortale, uopo è che compia l'obbligo che più stringe, uopo è che dia alto principio all'altre imprese: è il resto dover di Giove.
E, preso tra le braccia il bambino, romanamente gli dice:
...Figlio, se il cielo or vuol ch'io pera, io non ti lascio un trono: (esso è a virtù dovuto) ma retaggio assai maggior: l'esempio mio ti lascio.
Ma siamo ancor lontani, ben lontani da quell'amor patrio di cui erano pervasi i <<carbonari>> suoi amici, e lui stesso, per le vicende politiche del <<felice>> regno borbonico così affini a quelle delle città rette dalla tirannide frustata, fino a quel momento, nelle sue tragedie, chè la passione politica non ancora lo ha tocco. Questa passione la vedremo finalmente rivelarsi nel Teramene e ravvivare l'arte del poeta. Inferiore, non solo per condotta scenica, al Codro, il Teramene ci è infinitamente più caro in quanto ritrae situazioni più vicine a quelle vissute dalla nostra patria e sofferte dai nostri padri. Vigorosamente ritratti sono i caratteri del protagonista, del suo bieco antagonista, Crizia, spregevole collaboratore del nemico nell'opprimere la sua patria; e della dolce Dircea. Rappresentata con efficacia è la condizione di Atene sotto la dominazione spartana:
Della sua gloria i monumenti egregi rovesciati; rapiti i suoi tesori; contaminati i suoi teatri; muti il Portico e il Liceo; scacciati i saggi; sforzati tutti ad immolarci in campo alle mire di Sparta, onde far pingui di acquisti nuovi i nostri aspri tiranni, e render più tenaci i propri lacci; il cittadin, dagli alti posti escluso, ridotto a mendicar, mentre superbo lo stranier che vi siede, il preme e insulta alla miseria sua; spento chi ardisce sentir suoi mali e muoverne querele.
Sdegnoso, Teramene rifiuta la vita che Crizia, dopo averlo accusato di tradimento, è disposto a lasciargli, sempre che egli consenta a dargli la figlia Dircea in isposa, la dolce Dircea che, nel momento stesso in cui dal padre è unita in matrimonio al fido Isocrate, per sfuggire a Crizia che la vuol sua ad ogni costo, si uccide. Nelle altre tragedie: Le Belidi, Ninia e La Morte di Achille sono ritratte passioni umane in conflitto tra loro. Nella prima che richiama le Supplici di Eschilo, è sceneggiata la vicenda delle cinquanta figlie di Danao che, fuggendo la persecuzione dei cinquanta figli di Egisto, loro cugini, chiedono e ottengono asilo presso gli Argivi. Armonizzare e raggruppare gli straordinari avvenimenti riserbati dalla sorte alla infausta schiatta di Belo, costò al poeta - a quanto egli stesso ci riferisce - non poca fatica, chè, profittando delle osservazioni del pubblico, egli per ben tre volte rifece il lavoro, sì che nulla o quasi nulla serba, nel volume, della forma nella quale comparve sulla scena entusiasticamente applaudita. Nella Ninia il Ruffa si è studiato di mettere tanta eroica e platonica purità nell'amore di Semiramide per il figlio Nino - la Semiramide dantesca che sugger dette a Nino e fu sua sposa - da render possibile, sia all'una che all'altro, di assumere - per non scandalizzare gli spettatori - non appena si avvedono che il loro affetto sta per condurli all'incesto, i rispettivi <<ruoli>> di madre e di figlio. Per giunta, Nino vi è rappresentato come un giovane esemplare che altro ideale non ha se non quello di vendicare l'uccisione del padre suo e di coprirsi di gloria. Infine ne La morte di Achille il conflitto delle passioni è ritratto così vivo, che non ci stupisce il successo della tragedia ottenuto nel settembre del 1822 ai <<Fiorentini>> di Napoli10. Essa ha delle scene ben congegnate e liricamente tali da strappare gli applausi: valgano, per esempio, quella in cui Achille sollecita il consenso di Priamo per fare di Polissena la sua sposa, e l'accorato monologo di Andromeca.
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NOTE
1 Sul contributo di sangue dato dai calabresi alla causa della libertà, cfr: VITTORIO VISALLI, I calabresi nel Risorgimento italiano, Torino, Tipografia Editrice Tarizzo e figli: Libro I - <<La Repubblica partenopea>>. 2 Contemplando un ritratto della Langer, eseguito - come è detto in una nota al sonetto dal titolo Il Ritratto pubblicato tra i sonetti in morte della moglie editi nel 1841 dalla Tipografia del Vesuvio, in Napoli, strada S. Maria degli Scalzi - col solo aiuto della memoria, da Giovanni Cammarano, un certo Carlo Massinissa così ebbe enfaticamente a poetare: Il divino Alighier cantò di Bice - cantò di Laura l'aretin cantore - l'una de l'altro carme ispiratrice - l'altra dei mille palpiti del core - Ambi sentir la possa animatrice - de l'affetto deluso e del dolore; - e la scintilla dell'ingegno altrice - fu alimentata da non saggio amore. - Ma il canto che dal fervido concetto - di Ruffa or nasce, al fomite s'accende - d'un santo amor, d'un corrisposto affetto. - La sposa ei piange; e se quaggiù concesso - a lui non fu goderla sempre, attende - di ribaciarla nel divino amplesso. Molti furono i componimeti poetici che videro la luce in seguito alla morte della Langer: tra i tanti: un sonetto di N. Nicolini, che l'abate Antonio Mirabelli tradusse in esametri latini: <<Et sponsam vidi! ingenuo stant lumine flammae, - stat vultu, Hymenis blanda alimenta, Pudor, - virgineus Pudor!, ecc.>>, un secondo di tale Gregorio d'Alessandria, un terzo di Carlo Barbieri, un quarto di Giovanni Francesconi, un quinto di Giovanni Belloni, e l'elenco potrebbe continuare. 3 Noi e il Mondo, Settembre 1915. 4 Diverse Accademie di cui il Ruffa era socio lo commemorarono: tra le altre la Pontaniana (Vol. VI, Notizia de' lavori per l'anno 1851, letta dal Segretario perpetuo G. Minervini). Ne rievocò la figura il Giornale delle due Sicilie nel n. 57 del 22 luglio 1851, e ne esaltò le doti in sestine inedite un Francesco Antonio Vallone. 5 A. PAGANO, Un gran fabbro di sonetti, Morano, Napoli, 1915. 6 G. CORTESE, Francesco Ruffa nel centenario della sua morte. 7 I poeti minori dell'Ottocento a cura di Ettore Janni, Vol. I, Rizzoli, 1955. 8 L. ACCATTATIS, Biografie degli uomini illustri della Calabria, Tip. Migliaccio, Cosenza, 1887, Vol. IV. 9 Il Ruffa, nella sua elegia Alla campagna del Vomero, dice che fra quelle amiche piante, ormai in gran parte sacrificate alle prosaiche esigenze edilizie, ei corpo dava alle possenti larve - di quegli eroi che al vizio fur flagello, - e per cui la virtù più bella parve. E aggiunge: E qui le interne mie potenze a guerra - io concitai, di Teramene i sensi - ritraendo in mie carte; e se non erra - la mia memoria, pur gli affanni immensi - d'un cor materno, d'Agave gli affanni - provai dentro di me fieri ed intensi. Tra quelle piante, infine, egli sognò la donna che doveva poi del suo cuore diventar sovrana. 10 Il <<Giornale delle Due Sicilie>> così espresse dopo la replica de La Morte di Achille: <<E' noto che il nostro tragico si apre una via poco battuta nel teatro classico, per non dir quasi deserta: quella cioè della pittura dei caratteri. Ei, rispettando le immortali orme del grande Astigiano, non le ricalca servilmente: segue il proprio genio e non le di lui vestigia: l'arte si prefigge, e non la maniera. La Morte di Achille è tragedia perfetta, la quale, ad onta di qualche neo, ch'egli stesso non dissimula, resterà lungamente sulle nostre scene>>.