FRANCESCO RUFFA
Un triste Centenario
di Carmine Cortese (1951)
Nel 1890, a diciott'anni, Francesco Ruffa dava alla luce, nella Stamperia del Corriere di Napoli, alcune poesie. Le dedicava a D. Francesco Antonio Colaci con una lettera. <<Da che ho avvertito all'esistenza ho cominciato a sentir l'eccesso della tenerezza vostra verso di me. Voi da quel tempo avete in me fecondato il naturale amore di poetare: questo amore ha germogliato: è giusto che a voi consacrate siano le sue primizie.. . Ricordatevi che quando le ho composte non era ancor pervenuto al diciottesimo anno nell'età mia>>. Tra queste primissime rime, vi leggiamo l'Ode alla Malinconia. E' diretta a Giuseppe Campise, consocio dell'Accademia degli affaticati, congiunto del Ruffa e mediocre poeta (Il Ruffa lo dichiara "valente poeta". Noi no!). L'autore canta:
Non far che il cener mio rimanga, o caro, Sul lido estranio in disprezzata pietra, Senza che penda sul sepolcro amara L'amata cetra.
Barbara Morte, sola tu puoi farmi! Perder la speme d'un fastoso alloro. Ma, ancor che spento, andrò dettando carmi Spirto canoro.
Francesco Ruffa sentiva scorrere nel cuore la vena gorgogliante della poesia. E sperava che l'armonia della freschezza e gli abbandoni del verso e l'aura della fama lo seguissero fino alla tomba, et ultra. Pur troppo vano fu il suo desio! La barbara Morte, salvo qualche parentesi d'entusiasmo e di affettuoso ricordo, e l'ala del tempo distesero il velo dell'oblio sull'opera e sulla personalità del Cavalier cantore. Indifferenza di uomini? Noncuranza di Patria? Ire politiche? Mobilità del carattere del poeta? Il facile meccanicismo, le freddezze e i paludamenti arcaici, specie nel primo periodo, della sua arte? Non sappiamo chi abbia determinata, la fatalità della dimenticanza di questa nobil creatura tropeana. Ce lo dicano altri, più competenti di noi.
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Il Sette luglio di quest'anno si compie il centennario della Sua morte. Moriva a Tropea, dopo cinque anni della morte di Pasquale Galluppi, amico e ammiratore del poeta; dopo due anni della morte del Teologo Raffaele Paladini, zio materno del Ruffa; e mentre spiccava e ardeva, in piena giovinezza di mente e di cuore, sul candelabro della poesia di Roma, l'umanista Carlo Toraldo. Tropea, chiara nei suoi fasti, con questi suoi figli, senza dir di altri illustri ancora, dava, nel campo della filosofia, dell'arte, dell'umanesimo e delle scienze eclesiastiche, il meglio della Sua vita culturale. Francesco Ruffa è un figlio di questa nostra nobile e antica città. Suo padre, Tommaso Ruffa, valente chirurgo e matematico, Sua madre, Gaetana Paladini, Suo zio paterno, Giuseppe Antonio Ruffa: <<Qui medicinae consummata peritia insignis - Veteris philosophiae nucis posthabitis - Concives suos verae sapientiae dogmata - Primus edocuit>>. Così di lui si leggeva sulla lapide marmorea, apposta a lato dell'antico altare del Crocifisso nero della nostra Cattedrale. Nella sua prima giovinezza, trascorsa tra gl'incanti del paesaggio tropeano, tra le carezze molli e manierate delle Clori, delle Amarillidi e delle Nici, ninfe gentili, che captavano, a più non posso, i nostri Accademici, abbeverato nell'onda leccata e suervante del Metastasio, il Ruffa non avvertiva ancora il tumulto dei cavalli, il rombo dei cannoni, il grido inesausto di libertà e i gemiti delle forche, che arrivavano sulle aure dalla capitale del Regno. Era egli allora un arcade ingenuo ed idilliaco. Fu Napoli che riscosse dai languori e dagli artifici poetici il suo cuore, quando con lo zio Giuseppe Antonio si portò nella Città Partenopea per iscriversi alle facoltà di medicina prima e a quella di legge poi. Professione che abbandonò per dedicarsi alle lettere e alla poesia per la quale si sentiva nato. E' allora che la sua mente s'apre e s'allarga sopra un orizzonte nuovo e fremente di nobili cose; gl'ideali patriottici gli prendono il cuore generoso: s'aprono le orecchie del suo mondo interiore, fatto di sincerità e nutrito di cultura classica, alla poesia del Parini, dell'Alfieri, del Manzoni e del Berchet. I suoi colloqui spirituali non avvengono più con le gracili e dolcemente smunte Divinità del Bosco Parrasio, ma con le ombre fiere e sdegnose di Bruto, di Virginio e di Oreste, che si ergevano dal teatro di Vittorio Alfieri, di Corneille e di Racine. A Napoli, fucina di nobili spiriti e madre di libertà repressa e mai vinta, sembra allora che il destino abbia segnato che il giovane figlio di Tropea cantasse la patria asservita, le conquiste del pensiero e l'eroismo dei Patrioti. Riviveva in lui lo spirito di libertà che un giorno non lontano, alitava nella sua casa di Tropea, alimentata dal patriottismo di suo padre e di quello, benevolmente, o per convenienza, sottaciuto della madre, sorella del Paladini, il quale, da buon e addomestico ecclesiastico, era pur troppo ligio al Borbone. Forse il giovane Ruffa ricordava ancora d'avere assistito all'erezione dell'albero della libertà nella piazza di Tropea, quando un moto di liberazione e di affrancamento aveva scosso la Calabria e la sua città natale. Da questa fonte di tormento e d'angoscia nasce la magnifica collana di sonetti che esaltano e piangono la bellezza e la morte di una creatura fatta di sogno e d'amore. Pur troppo, dal lato politico, qualche mutamento spirituale era già avvenuto nell'animo del Ruffa. Saranno state le non floride condizioni finanziarie di famiglia, il bisogno del pane per l'esistenza, la debolezza del suo carattere, la mancanza di profondità e tenacità nel vivere gli ideali di libertà o l'inganno patito forse dei primi anni del Regno di Ferdinando II che prometteva libertà; sarà stato l'accasciamento per la morte di Enrichetta (o ineffabile dolcezza di mia vita... Io vidi, quando foste a me rapita - Morto il volto del Mondo a me davanti), che spingeva alla quiete e alla meditazione delle caducità delle cose: certo è che Francesco Ruffa, lasciata la casacca del carbonaro, diventa borbonico. Viene allora nominato Revisore delle Opere teatrali e Redattore della Gazzetta Ufficiale del Regno, come dire del Giornale delle Due Sicilie. E canta in canto epitalamico (come scrive il Falcone) le nozze di Ferdinando II; e canta Maria Cristina di Savoia, Regina delle Due Sicilie; e compone altre rime encomiastiche della Casa Reale. L'incanto è rotto. Il sogno infranto. il disappunto degli amici e del popolo, vasto e amaro. E fenomeno strano e vindice, la spontaneità e l'onda pura si vanno ritirando dal suo mondo poetico, già tramato d'amore per la libertà e la patria oppressa. Perchè la vena turgida sentita del suo rimare diviene artifizio e accademia, preoccupato molto di lodare i fasti del Regime. Il popolo che pur l'aveva seguito entusiasta e soddisfatto, l'abbandona allo scherno. Il poeta cercherebbe nella sua anima di svegliare e ravvivare i fantasmi della poesia dei suoi meriggi gloriosi e indimenticabili, rifuggiandosi nella Fede, cantandone le divine bellezze. E si mette a comporre, in rime e specialmente in sonetti, esaltando i misteri della Religione, Santi famosi della chiesa, le virtù cristiane. Traduce in italiano inni sacri latini, il Veni Creator, il Benedictus, il Magnificat, ecc.. Ma la Fede, se gli diede il conforto, non gli ridonò il canto sentito e sincero, perchè forse (e ci possiamo anche sbagliare) la Fede per lui fu un ripiego: un rifugio comodo, dopo il naufragio dei suoi ideali folgoranti di libertà che pur avevano sostenuto il suo cuore di figlio della forte Calabria. Quei medesimi ideali che avevano sostenuto tanti altri spiriti gagliardi meridionali, preferendo alla vita comoda la povertà, l'esilio, la galera e la forca.
Ritorna a Tropea. Nella sua avita città, sonante d'onde marine, arrisa di cielo turchino, odorante di zagara bianca, sfatto in salute. Lo zio materno borbonico, il Teologo Paladini, è già morto. Morta ancora la mamma. Altri Ruffa vivono a Tropea: suoi intimi parenti? L'àn seguito da Napoli i Suoi figliuoli? A Tropea trova una vecchia corona di amici che lo consola e apprezza ancora le antiche corde della sua lira. E trova spalancate le porte dell'Accademia degli Affaticati. Ma quello che più lo solleva e lo fa adagiare in un quadro di visioni di dolcezza, tinta di profonda mestizia, è il ricordo della Sua morta, lasciata nel Camposanto di Napoli: Enrichetta. Allora, in un abbandono profondo di silenzi, di tenerezze e di ricordanze, gli ritornano alla mente le rime composte in morte di lei. Con dolci labbra e mesto accento, socchiudendo le palpebre, nella penombra delle sue stanze vuote comincia:
Fra le donne gentili eraven'una Bella, avvenente, semplice, pudica, Degli infelici generosa amica, Anima tutta amor fin dalla cuna. .................................. Era mia questa donna e la perdei !
Il 7 luglio del 1851, Francesco Ruffa, all'indomani della festa di S. Domenica, invitta eroina tropeana, chiudeva gli occhi alla vita. Tropea pianse con aperto core il suo figliuolo. Crediamo, molti compositori di rime, più o meno valenti, di cui la città, di quei tempi, sapeva ornarsi, l'avranno cantato commossi. L'accademia degli affaticati avrà tenuta una solenne tornata per la morte del suo socio illustre, come aveva fatto per Fabrizio e Luigi di Francia. Il Municipio, più tardi, alla memoria di lui à designato una piazza. Poi... silenzio. Tanto, come indicazione storica: rovistando, leggendo, interpretando, ordinando con l'anima negli occhi, alcuni vecchi manoscritti, avuti in visione dall'illustre famiglia Scrugli di Tropea, abbiamo trovata un'Ode in morte del Cavalier Francesco Ruffa di Domenico Antonio Vallone (chi è questo Carneiade tropeano?).
Muta è già quella cetra armniosa.
L'Ode s'ammira, più che per una bellezza intrinsica, s'ammira per l'affetto d'amicizia che legava l'autore al poeta. Mentre resta sempre bella, sentita, animata da un senso squisito d'arte, sebbene soffusa d'un dolce pessimismo, d'un vero e forte poeta tropeano, Luigi Barone, composta nella luttuosa occasione:
Perchè sempre sussurrano le corde Della mia lira un canto di tristezza?
Sette luglio del 1951. Cent'anni dalla morte di Francesco Ruffa! Oggi, dicevamo, lo ricordano pochi. Pochissimi, la data della sua morte. Anche pochi dei suoi concittadini. Lo ricordano solo gli impenitenti nostalgici delle cose coperte di mistero e di polvere. La sua memoria e il suo canto sono nel regno delle cose stinte. Com'è avvenuto per tanti altri illustri rimatori tropeani. Curiosa e simpatica constatazione: i nostri ecclesiastici di ieri, quelli che sapevano e scrivevano, di greco e di latino, conoscevano e apprezzavano il Ruffa, e nelle conversazioni intellettuali (lo ricordiamo) ne declamavano sonetti: andava sulla bocca di tutti. Il leone di Firenze e l'Esilio di Dante. Quelli poi che andavano sognando nell'orto delle Muse, possedevano, trascritti di propria mano ode, canzoni, sonetti e anacreontiche del nostro poeta, come in un florilegio di cose sacre, per ricrearsene nei momenti di riposo dalle cure del proprio ministero.