LE POESIE
di Salvatore Mormone (12 Aprile 1865)
Il nome di Ruffa come di tanti altri della illustre schiera, che non più di venti anni or sono tendeva ricco d'onore l'umile sponda del nostro Sebeto, sarà certo un nome ignoto a molti. Nel rapido succedersi d'uomini e di cose si ha appena l'agio di guardare in viso ciascuno, udirne i pensieri, se pure è concesso, giudicare con facile criterio: e poi tutto è compiuto.
Ruffa sortiva di nascere non poco prima forse del Manzoni: ad ogni modo beendo l'aura infocata di vulcanica terra, col fervido ingegno col cuore ricolmo di passione se l'avrebbe formata, se non avesse rinvenuta ne' maggiori una fede. Ruffa credeva ed amava: ecco sua vita, ecco tutto sè stesso. Indi, perchè pochi vide rispondere all'ideale virtù della propria mente, di pochi, diresti, essersi fatto un mondo soave, col quale corrispondeva di affetti, di speranze, di casti dolori, lasciando di sè conoscere l'ombra soltanto al volgo profano. Rispettiamo il misterioso disdegno di uno spirito che nato a più eccelse regioni fastidisce la misera gleba che per caso lo accoglieMa non è a tenersi aver egli vissuto in vuote astrattezze: che no. Il suo poetare spira una morale santissima che diffondendosi vivifica chi l'ode; la sua lirica deplora una patria caduta per le colpi e la viltadi d'imbelli nepoti: inneggia ai grandi del pensiero, ma piange e freme sull'ignavia de'tempi; ne'suoi tragici voli inculca e 'nsegna la virtù degli antichi. Per dirla in umo, l'animo del Ruffa, se pure è poeta di sè stesso, toglie del lezzo di rabbiosa passione, inebbria, e rapisce quel cuore che l'inende, a purissimi cieli. Ruffa con pochi favella; ma favella, perchè fosse da tutti ascoltato. Pongasi ora mente ad un'avvertenza che se per nulla si trasanda, potrebbe altri inferire esigua stima sul merito del calabro poeta, la qual cosa frantendere mi farebbe. Se qui innanzi mostrai in un rapido cenno il modo come io tengo essersi venuta svolgendo la poesia tra gli uomini; e se dopo l'era della ragione, non è credere che il Ruffa avendo le tendenze della scuola Dantesca, dimentico del Poema divino, digradasse in puerili vaneggiamenti, come sogliono gl'imitatori, e fosse poco men di coloro che inutili a sè ed agli altri favoleggiano di Fiesole e di Roma. Se non mi sono espresso abbastanza di sopra eccomi a chiarire il mio concetto. In natura non sono termini fissi, per cui una cosa incomincia e l'altra finisce; tutto è serie continua, e tutte le cose che si seguono sono anelli inseparabili d'una'aurea catena. L'istante, nel quale notiamo che una modificazione è avvenuta, essa già preesisteva: la mente, successiva e non intuitiva, non crea i termini del suo giudizio, ma li trova esistenti. Laonde i periodi, in cui il pensiero poetico progrediva con la coscienza di sè e del fuori di sè, come tutte le cose naturali, sono l'uno implicato nell'altro, e solo con l'astrazione si possono sceverare e distinguere. Se però noi siamo nel periodo di ragione, non vuol dire che il precedente non debba a continuare ad esistere confuso col nuovo, finchè non sorga meridiana luce. Si aggiunga del pari che oltre al merito letterario i vermi nati a formare l'angelica farfalla con la fede si fecero così da presso al tipo di perfezione, il quale ai nostri sguardi fiammeggia, che non mai tanta celestiale gioja si libava dall'uomo. Per giunger poi a tal punto, per uguagliare, ed anche superar simili gaudii immortali, la poesia che inneggia al vero di ragione, ha mestieri del più alto grado di progresso, quando l'umanità unificata nel vero e nel bene, sentirà il bello nella pace operosa del tutto. Ruffa dunque seguace di quella scuola, a capo della quale il concorde opinare degli italiani pose Alessandro Manzoni, non si debbe tener meno in pregio, che si fosse aggiunto all'opposta schiera in contradizion di sè medesimo. Il più sicuro e facile modo quaggiù a toccar la desiderata metà, si è lasciare che il proprio ingegno segua l'orbita, a descriver la quale esso nacque. Ma si noti altresì che il nostro poeta, mentre il suo animo era assorto nella fede, non trascurava per altro gli affetti e le umane vicende. Era una fede ragionevole, una fede che senza avvilirne, e tollerare ingiurie e sofferenze dai malvagi con umiltà gesuitica, senza essere indifferente al progresso del mondo, dando certezza di miglior sorte, non impediva, anzi faceva buon viso al maestoso procedere innanti dell'uman genere. Così le aspirazioni religiose non vietavano al Ruffa d'avere in pregio le civili, e qualche volta erano occasioni a parlar di queste ultime; nè fecero a lui perdere di vista quella regina che ormai siede sublime sulle cose e sugli uomini: la scienza. Egli sclama:
Del secol nostro io miro Sopra l'ale robuste andar sublime Filosofia che in giro Volge le luci, ed in quel guardo esprime Maestoso contento, Chè a se scorge soggetto ogni elemento.
Affermate tali cose lasciamo pure che soggiunga in forma non meno evidente e gentile:
Ed ecco che la fede La man le stende amica, e la conduce Ove pur cieca vede, Ove le stesse tenebre son luce, Ove presente al senso Dell'intelletto è un vero è un bene immenso.
Ma vediamo Ruffa nella letteratura de'suoi tempi, nelle sue opere: vediamolo più distintamente. E da prima, se col rinascere la civiltà pigliava inizio il terzo sublime ciclo dell'idea poetica, la politica esistenza, l'antica libertà dell'Italia nostra s'estingueva; e gli animi tra'sozzi abbracci della peggiore delle tirannidi, quella che blandisce ed assonna, a servitù rendevansi sacri. Per forma che la poesia fatta cortigiana, era scopo a sè stessa; e ritornando pagana per retorica imitazione, non verità, non virtù ma suoi moventi divenivano il rallegrare le liete brigate, e spesso il dar sollazzo alle turpitudini di un'orgia. E però senza l'afflato divino, reggevasi in piedi cadavere galvanizzato: e però versi a versi succedevansi, fincè all'obbrobrio d'un Casti, al Bettinelli, coi suoi inni al cioccolatte, si pervenne. Furon grandi davvero que'pochi che trassero alla sponda della morta gora, in siffatta tristizie di tempi; ma non così che non rimanessero in parte tanti della medesima pece. Alfieri, Parini, Varano ridestarono i cuori al forte sentire, riscossero le menti, e presero a restaurare il culto di Dante. Fu un ritorno all'antico, e ben si fece, perchè noi dobbiamo aver coscienza di ciò che fummo per divenire quello che di presente non siamo. Però con le vittorie di chi stette arbitro fra due secoli, e già prima con la Rivoluzion Francese l'Italia corse il rischio di perdere quanto forma l'impronta primaria d'ogni nazionalità: la lingua e il pensiero. Destata dal suo lungo sonno, temeva farsi indietro a rimirar le glorie poste in oblio, e tolse a prestanze le opinioni e fin l'idioma d'oltralpe. Alcuni forti suoi figli la salvarono in tempo. Or questo è il punto in che il Ruffa faceva echeggiare i primi accordi della sua lira pura, scevra della paesana inanità, come del fango straniero; e ciò richiedea molto senno in allora, se si ricordi l'Ossian tradotto dal Cesarotti, ed il vanto che quest'ultimo n'ebbe. Si mantenne fedele alle tradizioni di Dante, e se da giovane come il Manzoni ed il Foscolo, sacrificava ai numi d'Omero, l'indole del suo ingegno grave ed a virili studii educato, il rese meritevole d'essere uno della gloriosa moderna falange che ridestando a nuova vita la estinta poesia, preparava gl'Italiani all'unità di nazione. Fede ed amore come innanzi ebbi a notare informano le sue liriche; ma se crede, se ama, al vero, al progresso non son negati i suoi carmi. Nell'ode pel ritratto di Bellini, quel fremito soffocato d'amor di patria è sublime. Per la morte di Antonio Canova apostrofando la degenere Italia mostra così l'animo fiero e sdegnoso, ed in sì nobile maniera che l'ira dantesca bellamente ricorda. Le ottave sull'arrivo di Colombo al regno della gloria compongono uno splendido inno ad uno delle più forti natura d'uomo, ad una delle più grandi opere umane. Per non dilungarci di più la Poesia al secolo decimonono, e l'ode alla Verità descrivono e palesano meglio che io non potrei l'animo, l'ingegno, la meta del Ruffa. La forma intanto che veste i suoi concetti è classica, se guardi alla purità, alla proprietà, alla evidenza del dire, ma non pedantesca da rendere oscura con inadeguate circonlocuzioni una nuova idea, che non trovi vocabolo del buon secolo, da cui vada espressa. L'entusiasmo poi, che accende il nostro poeta, è regolato da ragione, e nol fa trascendere in vuote declamazioni: sobrio, efficace nelle immagini, forse scolpisce più che non dipinga. E qui avrei voluto, a seguire lo svolgersi dello ingegno suo, che nella presente edizione delle poesie si fosse serbato l'ordine del tempo in cui vennero composte; tanto più che non di rado per molte di esse si omise l'epiteto giovanile, che pur si doveva. Laonde parmi bene notarne qui i titoli, cioè: la Morte d'Achille, la Caduta di Lucifero, la Battaglia d'Azzio, il Trionfo di Venere, Artemisia al sepolcro di Mausolo, l'Amante in solitudine e qualche altra che non mi sovviene. Ma tra le liriche sono i sonetti, cui il lettore vorrà in ispecial guisa porre mente. Il sonetto, questo breve poema che può giungere a maravigliosa bellezza è creazione italiana, e tra noi ottiene la massima perfezione. Per non dir dei minori, Dante e Petrarca ne scrissero tali, che saran d'eterno esempio a chi vuol ritentare il difficile aringo. Nei nostri tempi molti vi si provarono con lode; e del bel numero uno non esitiamo a riconoscere il Ruffa. Di vero quel suo ingegno sintetico, quella finissima facoltà di sentire, quella forma propria che possedeva, spiegano abbastanza l'attitudine e l'amore per tal leggiadra poesia dimostrato. Ne fece di tutti i generi, e così bene a mio vedere, che non saprei dirvi, senza nominarveli la maggior parte, quali sieno i più degni della vostra attenzione. Se non che mi piace indicarvi quello d'Alfieri pel mirabile giudizio che dà dell'Astigiano terminando col dire:
Tragico or nell'Italia unico e solo, Di Sofocle minor perchè lo imiti, Greco sei, benchè nato in questo suolo. Oh stati i pensier tuoi fosser più arditi ! Trovato avresti in tuo libero volo Novi mari dell'arte, e novi liti !
E veggasi pure la raccolta di sonetti in morte della signora Langer sua moglie; poichè in essi scorgete non la retorica petrarchesca, ma l'amore, che dentro detta del Dante. Per le sue tragedie infine basterà breve cenno. Ne fece sette: sei si rappresentarono e si pubblicarono per le stampe, una, il Giovan Battista rimase inedita. Inedito pure sappiamo un poema drammatico intitolato la Vendetta di un Goto nel quale spese molti anni di assiduo lavoro. La forma, come i soggetti, meno il biblico Battista, fu classica e foggiata sul greco stampo: e dirò che qui si mostra ligio ai suoi tempi che non per anco s'erano emancipati dalla pedantesca critica francese. Sarebbe dunque da deplorare che la Vendetta d'un Goto, in cui forse alla potente fantasia dava libero e naturale svolgimento non mai vide la luce. Tuttavolta grandi pensieri, qualche risposta che tocca il sublime, maggior varietà nei caratteri di quella che si nota nel tragico subalpino, farebbero desiderare che non solo venissero letti e studiati, ma eziandio che qualche artista drammatico togliesse a rappresentarli, se carità degli estinti muove davvero il cuore degli uomini. E' tempo ormai che cessi la terrena parola ed il linguaggio dei numi incominci: diamo luogo al poeta. Non ho fatto se non introdurvi nel santuario delle muse: perdonerete al buon volere, se non raggiunsi l'altezza del compito mio. Troverete intanto qui raccolte le sole liriche; e se finora non si potè altro pubblicare, non è a dire quale immenso rammarico ciò produca in coloro, cui è dolce la memoria del vate. Ma è peculiar sorte di chi nacque sotto il nostro bel cielo patir sventure nella vita, dispregio, o almeno un facile oblio dopo la tomba. Il che mi addolora sino all'anima; e vie più si accresce la pena, quando penso che se il Ruffa nato fosse nella Francia o in qualunque altra straniera contrada, vivo stima e ricchezze, morto gloria avrebbe conseguita e da noi sarebbe il suo merito, vergognoso a dirsi, meglio conosciuto ! Pongasi modo al triste vero: entra ed adora.
Francesco Ruffa all'età di 18 anni ottenne il posto di Referendario presso la Suprema Cancelleria di Napoli, e poi di Giudice del Tribunale di catanzaro nell'anno 1820. Appena giunto in Calabria, in tale occasione, compose l'Ode 'Alla tomba del padre' che si trova alla fine del volume delle sue liriche, raccolte e pubblicate a Napoli a cura dei suoi figli nel 1865. Per quell'Ode, pubblicata nel 1820 sul Foglio'"Imparziale", per altri componimenti pubblicati sul "Corriere delle Calabrie" e per l'effetto prodotto dalle rappresentazioni della tragedia "Teramene", ha perso il posto nella Magistratura e fu costretto a vivere per molti anni insegnando lettere, storia e filosofia. Di seguito, riportiamo l'Ode scritta dall'autore in omaggio alla memoria del padre che caldo propugnatore di libertà, fu vittima di continue persecuzioni. E' stata pubblicata alla fine del volume "Poesie di Francesco Ruffa da Tropea", Napoli, 1865, perchè rinvenuta quando era già completa la raccolta di tutte le liriche.
ALLA TOMBA DEL PADRE (18 agosto 1820)
Salve onorato sasso Che del mio genitor gli avanzi premi ! O Ciel mentre che il passo A te sospingo al mio tremar tu tremi ! Dunque anche in te penetra Umano senso e ti commove e spetra ?
Lascia che i labbri miei Quelli impriman su te caldi tenaci, Che imprimer non potei Sulla paterna mano ultimi baci. Forse al mio pianto amaro Risentirà la vita il cener caro.
Gran pena è un padre spento. Ma ch'e' sia morto a rio servaggio in seno E' il mio più fier tormento. Oh poche lume avessi il colpo almeno Sospeso, avaro Fato ! Non l'avrei pianto: egli moria beato.
La terra ove riposi, Padre, non è più serva. Eccelsa ammenda Dei lacci vergognosi Il popol fè. Voce innalzò tremenda Che fra gli astri pervenne: Libertà chiese e libertade ottenne.
Il popolo sovrano Ta'dighe impose alla regal possanza Che il più temerla è vano. L'evento oltrepassò l'alta speranza: Costò stragi all'Ibero Ben sì eminente, a noi solo un pensiero.
Qui più non geme il giusto Come in que'dì ch'io te veggendo, o padre, Del regal'odio onusto Segno al furor delle più vili squadre, Stringeati con più affetto E il picciol cor mi palpitava in petto.
Tu allor con secco ciglio E con la maestà propria agli Eroi: No mi dicevi, o figlio, Non pianger su di me, piangi se vuoi Su'popolari inganni, Piangi sull'empietà de' miei tiranni.
E allor che delle scene Adulto, io fe' tuonar la voce ardita Di Penteo e Teramene, Pingi gli Eroi, ma con più ardor gl'imita Tu mi gridavi, e intanto Ti scorrea fra le guance un lieto pianto
Il darmi i dì fu poco, Quel che di libertà tutto mi accende Divino immenso foco Sì ch'è tuo don, sì che da te discende Ma guida e mio decoro: Io figlio t'amo e cittadin ti adoro.
Ma qual fragor rimbomba D'armi, di voci e bellici strumenti? Chi viene a questa tomba? Padre non son già queste estranee genti Di lor conquisto altere, Nostri i vessilli son nostre le schiere.
Odi, consiglio, esempio Chamanti della patria i sacri amici ! Sorgi: or che al prisco tempio Le mistiche virtù tornan vittirici, V'è pur tra' colti allori V'è la parte dovuta ai tuoi sudori.
Odi ch'eccheggia intorno Col nome alto di patria il tuo congiunto; Esci al più atteso giorno Di abbracciare il tuo figlio è questo il punto ! A libertade invito Non ti facciam: puoi tu restar sopito?
Sorgi, l'Erculeo lido Sorgi t'intuona in suon festante e forte. M'ahi ch'è vano ogni grido Orsì che intendo, or sì che sento, o Morte, A queste immobili ossa Tutta l'immensità della tua possa.
L'ITALIA
Chi osa oltraggiar me? Qualunque vento S'abbia del Mondo ogni sovrana parte; Quest'un mi basta: il dono a me soltanto Di addoppiare i portenti il Ciel comparte.
Sursi grande due volte, e crebbi tanto Che due lingue eternate ho nelle carte; Due Virgili, due Plauti io sola vanto, Io sola, dopo un Giulio, un Bonaparte.
Paisil, Cimmarosa estinti ieri Ritornan oggi a rendermi beata, In Bellini, e in chi sommo è tra'primieri.
L'alma di Dante a me da Dio mandata, Rivisse in Michelangelo e in Alfieri, E forse in Cielo non è ancor tornata!
Un'ode composta in occasione della morte di Barbara Galluppi, moglie del filosofo, tratta dai "Componimenti nella morte della Signora Baronesssa D. Barbara Galluppi, nata D'Aquino. Con elogio funebre scritto dal Barone Pasquale Galluppi.", pubblicati a Napoli il 10 aprile 1835. La stessa ode è stata inserita nella raccolta "Poesie di Francesco Ruffa da Tropea", Napoli, 1865, con il titolo 'A Galluppi'. Francesco dimostra l'affetto e la stima che ha sempre nutrito nei confronti della famiglia Galluppi. Siamo quindi nel 1835 e l'autore proietta su di sè la sventura di casa Galluppi: "...ma l'anima mi trema al sol pensiero/ D'esser lasciato.". Sventura che da lì a poco, nel 1840, lo colpì irreparabilmente togliendogli il bene più caro, la sua Enrichetta.
AL SIGNOR BARONE GALLUPPI
Volgo insensato ! illuso illude, e a tutto Prescrive modo, e ci snatura intanto: Da fin leggi al dolor, dà norme al lutto Misura il pianto.
Ma v'è un pianto, v'è un lutto, evvi un dolore Che a tai norme, a tai leggi è contumace; Ch'è peso a un tempo ed è sollievo al core, Che affanna e piace.
Tale, o Galluppi, è il tuo, che all'urna or chiede Invan Lei ch'otto lustri al fianco avesti, Mentre in tredici aspetti la rivedi ne' figli mesti.
Otto lustri d'amor, d'amor sì puro, D'amor sì caldo che fu al Mondo esempio !.... Ah tutto intendo del tuo petto il duro Profondo scempio.
Nè la sola amistà rivela i tui Secreti affanni all'alma mia: chè unita A'miei destini anco è una donna, in cui Sta la mia vita.
Avrò il coraggio di lasciarla io spero, Se accetta me vittima prima il fato... ma l'anima mi trema al sol pensiero D'esser lasciato.
Quanto il tuo dolo a me ti fa più caro ! Nelle tue carte io fin dagli anni acerbi trovai tua mente: or dal tuo duolo imparo Qual cor tu serbi.
Stolto è certo colui ch'esser sopito Crede de'Sofi in cor l'umano senso. Star può che chi si lancia all'infinito Non senta immenso?
Solone leggi a un popolo prescrisse, E di eroi fu quel popolo fecondo. Tra i sette saggi suoi Grecia lo ascrisse, Vi applause il Mondo.
Pur io lo veggio per dolor fremente, Che le vesti dilacera, e dal ciglio Grosse lagrime piove amaramente... Perduto ha un figlio.
Un saggio a confortarlo è sopraggiunto Con dirgli <<Il mal che t'ange, e ond'io pur mango, Nullo ha rimedio>>: ed ei risponde <<appunto Per questo io piango>>.
I prossimi due sonetti sono tratti dalla sezione 'In morte di Enrichetta Langer' del volume 'Poesie' di Francesco Ruffa. In ogni verso traspare lo struggente affetto dell'autore per la sua amata.
IL RITRATTO
Ecco Errichetta mia! Questo è il suo viso Quando a lei sanità non era avara, Quand'ella raddolcia col suo sorriso Qualunque del mio cor pena più amara.
O inspirato pittor, dal vero Eliso Certo a te venne la mia donna cara, Ed ai miei voti ardenti ha certo arriso Svelandoti ogni sua grazia più rara.
Dagli occhi suoi le usate vampe al petto Mi corrono soavi, ma il cor mio Brucian d'ardor più vivo e più perfetto.
Lo sento, al foco loro, a quell'obblio Che in me ne piove d'ogni tristo affetto, Occhi son questi che àn veduto Iddio.
ISCRIZIONE
Ecco il sepolcro suo ! La pietra è questa, Che chiude in grembo a sè la mia diletta, E che da me sensi e favella aspetta Per fare ogni sua gloria manifesta.
Eppur la mano timida si appresta Di mie note a segnar la pietra eletta Perchè può il volgo non tenerla schietta Sapendo quale amor m'arde e tempesta.
Ma pria ch'io scriva quì, come dovrei, La usa lode che lode a molte invola, Vieni, o tu che in accuse indistre sei,
Vieni, o Calunnia, e scrivi una parola Tal, se il puoi, da smentir che fu costei Rara, in più pregi; e per tutti essi, sola.