Il
   Poeta

Come poeta lirico, in special modo per i suoi sonetti di cui fu considerato1 un grande fabbro del secolo XIX, Ruffa va collocato fuori della schiera comune.
Dedito all'arte per elezione del cuore e dall'animo nobile e delicato, informò a tali virtù i suoi componimenti, i cui soggetti egli trasse dalla bellezza diffusa nell'universo, dalla sua vasta erudizione, dalle vicende del suo tempo e dalle sue solitarie meditazioni che, talvolta avevano un carattere filosofico, come si evince dal sonetto "Filosofia del Semtimento" che, con i suoi interrogativi sulla vita dell'uomo e del cosmo, richiama alla mente motivi foscoliani (sonetto "A me stesso") e leopardiani ( "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia"):

Donde venni? Ove andrò? Sono? Chi sono?
Chi mi fè? Perchè femmi? In su la Terra
Perchè mi collocò co' mali in guerra
Sospendendo su me folgore e tuono?
La Terra stessa e i tanti astri che sono?
E perchè d'essi l'uno sta l'altro erra?
E perchè in sè l'alma opposti affetti serra
Perchè vi ha mille iniqui ed un sol buono?
E la vita che è mai?...dal tenebrore
Che incontro fugge, fugge l'intelletto mio
E al cor si volge, e sì gli parla il core:
Io sento, e so, nè più saper desio,
So che v'è un giusto e questo giusto è amore
E questo amore è onnipossente, è Dio!

Ne venne fuori così un bellissimo mondo poetico dove non solo si sente forte la voce della fede e dell'amore che portano Ruffa sulle orme del Manzoni, ma si avverte anche il fremito di altri semtimenti che, per la loro originalità e naturalezza - e quindi senza alcunchè di manierato e convenzionale - indussero il De Sanctis a considerare Ruffa, oltre a Giuseppe Campagna, Vincenzo Padula, Domenico Mauro, Pietro Giannone, Biagio Miraglia, Vincenzo Baffi e Marcello Arcuri, un rappresentante del Romanticismo Calabrese che egli, collocandolo tra il 1830 ed il 1848 quando l'arte romantica era divenuta in Italia "maniera", trattò nel corso delle sue lezioni tenute nell'ateneo di Napoli durante l'anno accademico 1872-73.
Un mondo poetico dove la Fede non si mostra ostile alla Scienza, anzi, come il poeta dice nell'ode "La Poesia del secolo Decimonono", le tende amichevolmente la mano per aiutarla a portare alla luce i segreti della natura:

Ed ecco che la fede
La man le stende amica, e la conduce
Ove pur cieca vede,
Ove le stesse tenebre son luce,
Ove presente al senso
Dall'Intelletto è un vero, è un bene immenso.

E pur preso dall'ardore religioso, Ruffa non si sottrae al fascino delle scoperte scientifiche che esalta con entusiasmo, come fa per la Stampa:

Stampa! l'eco immortal de la parola
E' in te, che la moltiplichi pel mondo;
E tal dai tu al pensiero e moto e pondo,
Che può fermarsi ovunque, e ovumque vola.
Tu della civiltà sei l'arca sola;
Ella per te del  torbido e profondo
Mar degli eventi gir non teme in fondo,
E alle sirti ingannevoli s'invola.
Ben talora ti rendi all'uom funesta,
D'ignoranza strumento e d'ira insana,
Ma tu al danno in te stessa ammenda ài presta:
Tu, ventilabro, che a la gente umana
Separi il ver che ponderoso resta
Dall'error che si solve in aura vana!

Ammira la genialità di Newton, Lavoisier, Degherre e Le Verrier espresse nel campo fisico, chimico, fotografico ed astronomico ed esulta quando, visto nel 1818 il primo battello a vapore, il Ferdinando I, solcare velocemente il mare di Napoli, si rende conto che notevolmente accorciate sono armai le distanze marine, grazie a quel mezzo, del quale nel sonetto "Al Legno a Vapore" dice:

Immagine del Secolo!...tu voli
Contra gli sforzi de' venti e dell'onde,
E sì avvicini le remote sponde
Ch'ànno stupor di essere sì presso i poli.
..........................................

Grande era in Ruffa l'amore verso la patria e la libertà che aveva incominciato a coltivare nella sua tenera età, quando nella propria casa si provavano le amarezze delle persecuzioni politiche e le paure per le frequenti ed improvvise visite poliziesche a causa delle ben note idee liberali del padre.
A rendere, poi, più vivi e più saldi quei sentimenti fu quella cultura illuministica che, agitando ideali di libertà e l'esigenza di nuove forme di governo, aveva dischiuso alle coscienze nuovi orizzonti umani e politici.
Spinto dalla desolante visione di una Italia abbattuta ed umiliata, anche per colpa e viltà dei propri figli, rese la sua poesia suscitatrice di virtù civili e patriottiche, ponendosi sulla scia del Parini e dell'Alfieri.
E compì questa nobile missione di italianità ora richiamando le virtù degli antichi padri, ora esaltando personaggi che avevano dato lustro e decoro alla patria, ora ricordando, a scorno dell'ignavia e della viltà del tempo, l'episodio di quell'Ubaldo, "L'Eroe Spoletino", che intorno all'842, a Spoleto, non tentennò a sfidare a duello e ad uccidere uno spavaldo e forte tedesco che aveva schernito i guerrieri italiani, e l'altro fatto di quei tredici italiani che, nel 1503, per dare prova del coraggio e del valore del soldato italiano deriso dal francese La Motte, agli ordini di Ettore Fieramosca sfidarono e sconfissero in duello altrettanti cavalieri francesi nella radura di Corato presso Barletta (sonetto "I Tredici"):

Qual pugna s'apre appo Corato! A fronte
Di tredici guerrier tra' franchi eletti
Tredici stanno italiani petti,
Cui d'ira il patrio offeso onore è fonte.
Francia ed Italia a misurarsi pronte
D'animo e d'armi or sono. Ed ecco a' detti
Superbi, alternamente contraddetti,
Cercan l'opre agguagliare e i danni all'onte.
Oh! cader veggio co' campioni suoi
la boria Franca che sfidonne a morte
E la Gloria abbracciar gl'itali eroi;
E sento che il Valor dice e la Sorte:
Misera far questa mia terra puoi,
Non me bandirne, chè non sei sì forte.

Con l'ode "In morte di Antonio Canova", un grande dell'arte scultorea deceduto nel 1822, usando il tono delle invettive dantesche ricorda all'Italia di non aver avuto neppure un figlio che potesse posare come modello di eroismo per lo scultore scomparso; era un'Italia tanto imbelle, che alla rapina dei suoi tesori d'arte da parte francese opponeva solo il pianto:

Spento a Canova il giorno
Tu il piangi, Italia, con dolor superbo?
Tu nol meritavi, e scorno
Anzi dovrebbe in te sorgerne acerbo:
Che se quel divo attiene
Di Fidia il vanto, or sei tu forse Atene?
Dì, quai di ardire e d'armi
Del tuo libero braccio apre immortali
Argomento a' suoi marmi
Offrivi, o Italia, e a tanto ingegno eguali?
O quai tra i figli tuoi
Degni del suo scarpel sorsero eroi?

Placa il suo sdegno, Ruffa, quando avverte che l'Italia, malgrado tutto, orgogliosa delle sue glorie passate, è cosciente del suo fatale primato nel mondo (Allocuzione dell'Italia); ed ora, scosso da un fremito patriottico, con l'ode "Arrivo di Colombo nel Regno della Gloria", rivolge un appello agli italiani affinchè non si lottino tra di loro perchè:

Una è la patria, ed è comune il vanto,
L'onta è comun de' figli buoni e rei:
Deh, benchè all'odio lo stranier ci spinga,
Se ne dividon l'armi, amor ne stringa.

Attento com'era ai grandi fermenti non solo politici ma anche letterari, al Ruffa, uomo di grande cultura, non poteva sfuggire la discussione che, ai primi dell'Ottocento, si era riaperta sulla lingua italiana a proposito della preferenza da dare ad uno dei modelli di lingua letteraria offerti dai buoni scrittori del passato.
A dibattere erano i "puristi" (Antonio Cesari, Attilio Puoti), che proponevano come modello gli scrittori del Trecento, considarato secolo "aureo" della lingua italiana; Pietro Giordani, che propendeva per la fusione della lingua del Trecento con lo stile dei greci (purismo e classicismo); l'Accademia della Crusca, che dava la preminenza agli scrittori del Trecento e del Cinquecento; Giulio Perticari, genero del Monti, che asseriva che la lingua letteraria d'Italia si trovava sparsa e raccolta nei buoni scrittori di tutti i secoli e di tutte le regioni.
Ruffa, nel sonetto "La Lingua Italiana", dopo essersi rammaricato che solo l'Italia, in fatto di lingua, è "incerta e balbettante", con vedute moderne sintetizza la sua opinione definendo la lingua "dell'uso figlia" per cui ha un suo spontaneo e naturale svolgimento che - dice nella prefazione al primo volume delle sue tragedie - può accogliere anche "nuovi termini e nuovi modi", non esclusi "quelli di estranea lingua", specialmente "quando l'uso abbia già dato ad essi cittadinanza".
E poichè, afferma nel sonetto "L'Eloquenza",

Arma è all'uom la favella: è più che spada,
Anzi assai più che folgore è possente,
Che in sua virtù per tutto apresi strada,
E tuona e fiede fin che il mondo sente

esosrta la gioventù italiana a coltivare lo studio del patrio idioma in attesa di altri grandi eventi.
Vedeva già, Ruffa, l'unità e l'indipendenza nazionale.

NOTA
1 Antonio Pagano - Un gran fabbro di sonetti del secolo XIX, Napoli, 1915.