L'AUTORE Francesco Ruffa AGLI ITALIANI
ITALIANI !
La traccia di esser voi mancanti di buone tragedie, al sorger dell'Alfieri cessò. L'Europa comincia ad ammirarvi in questo difficil genere di poesia come fin' ora aveavi ammirati negli altri non men difficili. Ma inebbriati della fortuna, simiglianti a poveri ad un tratto arricchiti, sareste mai gonfj di tanta superbia da reputarvi già pervenuti in quest'arte al colmo della grandezza? Molto voi possedete, è pur vero, ma se ad altre Nazioni ben riguardate, forse vi accorgerete che ancor molto vi manca. Vi è dunque forza accoglier benignamente chiunque a voi si presenti recandovi in dono delle tragedie. Chi sa ! fra tanti doni ve ne potrebbero esser pure di quelli, che non apportino disonore nè a chi gli offre, nè a chi gli accetta. Ciò sia detto per semplice amor del vero. Che in quanto alle mie tragedie, a voi non le dono io già, ma le espongo. Crederei veramente leder le leggi del Galateo se cose vi donassi, chìio buone non credo; ma per procurare a me stesso un vantaggio, le pubblico appunto perchè non buone. Quel che a tal passo m'induce è soltanto viva e schietta voglia di venirne corretto, non già cieca pretenzione di esserne commendato: che a tanto per ora non ardirei certamente aspirare in arte sì malagevole, e in un'età che appena il quinto lustro oltrepassa. La mia posizione è tale, ch'io non posso vederle esposte sotto i miei occhi in teatro, e lo affidarle inedite ad attori lontani sarebbe un porle in rischio di esser guaste goticamente della comica ciurmaglia, che nulla sa e tutto ardisce. Ma quando anche avessi potuto darle alle scene, come alcuni infatti ne ho date, la sola rappresentazione bastata non sarebbe al mio scopo. Essa scovre i gran difetti; e tutti i piccioli intanto, l'union de' quali è ciò che forse più nuoce alle opere, sfuggono alla più accurata osservazione, per lo che, al dir del Fontenelle, la stampa di alcune tragedie produce somma gloria agli attori. Il sottoporle al giudizio de' valentuomini era ottimo consiglio, ed in Napoli, ov'io sono, non ne mancano al certo. Io non ho mai lasciato di consultarli; ma parte di loro oppressi da gravi cure con difficoltà posson prestare una fuggevole attenzione ad opere altrui: parte, quantunque ingenui, pure ne' lor giudizj non sanno mai del tutto liberarsi da una certa ritenutezza, alla quale qualche rapporto nato dalla vicinanza dà loco: parte per troppa amicizia sono eglino stessi ingannati intorno al valore dell'opere di un amico: parte (e son questi i più giovevoli) per astio personale ne notan soltanto i difetti; ma oltrepassano quasi sempre i termini del giusto: e, per dirla in breve, tra i prossimi le passioni nuocciono alla verità: molti in fine (dicasi pur liberamente) son così preoccupati da sistemi, e così poco versati nell'arte alla quale io mi sto addestrando, che i lor giudizj, per quanto valgano in tutt'altro, atrettanto in questa parte sono imperfetti. In ogni modo poi il fidarsi al giudizio di pochi è sempre sconsigliatezza in fatto di belle arti nelle quali, a mio credere, l'effetto costante sul maggior numero de' colti è de' pregi e de' difetti delle produzioni il solo segno infallibile. Ecco perchè sendo io bramoso di un giudizio esatto intorno alle mie tragedie, mi sono a pubblicarle deliberato. Ed in vero, in opere di tanta difficoltà, per accostarsi alla perfezione, par che vi bisognino le cure riunite dal pubblico attento, che osserva e giudica, e dell'autore docile, che ascolta, ragiona ed emenda. Da quanto però da me fin'ora si è detto deducesi, che s'io non ho per buone le mie tragedie, pure collo stimarle capaci di miglioramento do chiaro a vedere non crederle del tutto cattive. Forse son anco in errore nel non crederle tali, ma potenti ragioni mi ci hanno tratto. Prima di tutto io le ho scritte spinto quasi da irresistibile forza. Nato tra Calabresi, gente, parte della quale è ancor semiselvaggia, gente coraggiosa quanto feroce, ne' suoi proposti tenacissima, nelle sue passioni eccedente, io non vidi fin da fanciullo che esempj o di eroiche azioni, o di straordinarj delitti. Urti di grandi affetti, sangue, uccisioni, odj animosi, atroci vendette, fratricidj, parricidj, suicidj, misfatti di ogni specie, e dal canto opposto pruove di fermo e fiero coraggio in faccia alla morte più sicura, di fedeltà senza pari, di nobil disinteresse e d'incredibil costanza, leali amicizie, atti di generosità sublime tra nemici stessi, colpivano ad ogni istante la nascente mia fantasia. Le geste de' fuorusciti erano la materia de' racconti di tutti i crocchi. Avevamo anche noi nella nostra picciolezza, a somiglianza della Grecia ne' tempi eroici, i nostri Sinnidi, i nostri Scironi, i nostri Procusti, ed all'incontro i nostri Alcidi, ed i nostri Tesei. La volgar credenza alle fate, alle magie ed alle ombre degli uccisi, dette con vocabolo calabrese Spirdi, aggiungeva a quei racconti tale aria maravigliosa e poetica che gli stessi animi più increduli ne rimanean dilettanti. Io compiaceami di udire, e di narrare io stesso geste sì fatte, e godea d'esser da' fanciulli dell'età mia con piacere ascoltato. Contribuiva a questo anche il mio temperamento melanconico a tal segno, che non passava e non passa nella mia mente oggetto, per lieto che sia, senza tignersi di quel nero che vi predomina. Leggevansi intanto la sera in mia casa le tragedie del Voltaire, e dell'Alfieri, ed io rimaneane così incantato, ch'ogni studio, o fanciullesco trastullo abbandonava per immergere la mia attenzione in quella lettura, che a se traeami possentemente, e ch'era divenuta per me la più deliziosa occupazione. Aveva io appreso a leggere su le novellette del Padre Soave, e non ancor di anni dodici avendomi proposto di scrivere (oh la temerità !) un qualche dramma non seppi altro scegliere per argomento che la tragica avventura di Belfiore, e di Federico Lanucci. Malamente scritta ed anche più malamente rappresentata questa, non saprei come chiamarla, mia composizione, promosse non di meno degli applausi, che forse ebber gran parte nel determinare il destino della mia vita. Scrissi dopo componimeti molti, ma quasi tutti del genere tragico, e per quanto mi sforzassi ad uscir tal volta da questo genere, mai non mi è stato possibile. Pare adunque che a scrivere tragedie la natura abbia forzato me, non io la natura. Della riuscita delle rappresentazioni non parlo, tenendo io questa per la più debole pruova del valore de' teatrali componimenti. Ma, quel ch'è certo, nello scriver tragedie mi ho sentito agitar fortemente dagli affetti che ho immaginati, e tanto fortemente, che la mia salute ne ha risentito gran male, e la mia salute ne ha risentito gran male, e la mia sensibilità si è così esaltata, che ora le menome impressioni, sien dolorose, sien pur piacevoli, tutte mi pongono in iscompiglio le fibre. Nel leggerle poi a persone d'ogni grado di cultura e d'ogni capacità, e mille volte in adunanze pienissime, ho costantemente osservato che in alcuni punti si son provati da tutti i medesimi effetti, e con una conformità e forza che pare non poter essere prodotta da finzione; nè la mia condizione, grazie alla Providenza, è tale che mi esponga al tremendo pericolo di venire adulato. Ma quantunque per le addotte ragioni io non abbia assolutamente per cattive le mie tragedie, pur non ho ardito apporre a' miei tre primi lavori (a) il titolo impertinente di tragedie, come a fronte di molti componimenti con meraviglia ho veduto farsi da taluni scrittori, ma di chiamarli soltanto esercizj tragici io mi son contentato. Non per questo però stimo le altre perfette (b); ma sembrami almeno che assai di più si accostino a quel tipo della tragedia, il qual mi sta in mente (c). In quanto alla condotta in generale ho adoperato economia di personaggi e di episodj per occupar sempre dell'oggetto principale gli spettatori. Questa forma sì favorevole all'unità ed alla semplicità dell'azione, ed in conseguenza alla capacità delle menti umane più adatta, fu stabilita da' maestri dell'arte quali furono i Greci: i Francesi l'adottarono e ne tolsero alcuni inconvenienti, ma la privarono quasi sempre della semplicità, ch'era il suo pregio maggiore: fu rinnovata in fine in Italia dal nostro immortale Alfieri, il quale (che che ne dica egli in contrario) fu il vero imitatore, anzi l'emulo de' Greci, avendo riposto il merito dell'imitazione nel prender il verace bello della lor forma, non già nell'introdurre per forza in tragedia nutrici sciocche, freddi nunzj, e stucchevolissimi cori. Io ho scelto la forma stessa perhè mi è parsa ragionevole, ma del rimanente io non sono nè Corneliano, nè Volterrista, nè Alfieresco e nulla affatto in esco, in ista, ed in ano. Meo sum pauper in aere. ITALIANI ! Io vi ho fatta una schietta istoria de' miei pensieri e delle mie intenzioni, e la proseguirò nelle prose che accompagneranno le tragedie, prose scritte non per mostrar che ho fatto bene quel che ho fatto, secondo il solito degli autori, ma per esporre le teorie, vere o false che sieno, le quali a ben compor le tragedie io stimo opportune; anzi io comparirò sovente simile ad oratore mal costumato che altrui grida onestà e si caccia in bordello. Italiani, voi siete grandi sempre, e non dubito che la mia franchezza non sia un forte sprone alla vostra. Io ho come tutti gli uomini amor proprio, ma questo è così congiunto e confuso con l'amor nazionale, che in me nol riconosco distinto. Collo scriver tragedie io mi ho proposto di far cosa utile alla nostra patria comune, e questa idea bella e grandiosa mi ha dato forza e coraggio. Ma la vostra disapprovazione sarà bastevolissima a farmi retrocedere nel preso cammino, quando i miei sforzi si credano inutili, e a farmi prendere altra strada, nella quale il mio intento esser possa da me con più facilità conseguito.
NOTE
(a) Il Ninia, l'Achille, e le Belidi. (b) Il Teramene, L'Agave, ed il Codro. (c) Queste tragedie furon composte nell'ordine stesso col quale sono nelle note qui sopra enunciate.