MARINA DI ZAMBRONE: Casa colonica - CAMPAGNE DI SPILINGA: Pagghjaru
REALTA' E PROPIZIAZIONE DI UN TERRITORIO.
TROPEA E I SUOI CASALI.
da CALABRIA - L'architettura popolare in Italia, a cura di Francesco Faeta, Laterza 1984, pagg. 91-112
di Francesco Saverio
Meligrana
(Parghelia
«Il territorio di Tropea comincia dal Capo Vaticano e termina al Capo Zambrone. Ha 12 miglia di lunghezza e 6 di larghezza dentro terra sul Monte Poro». «E’ uno de’ meglio coltivati della Calabria. Ciò nasce perché è tutto diffuso di piccioli casali. Tra questi Parghelia è il più grande ed esercita qualche poco la marineria». «Il Monte Poro […] è di una singolare struttura. Ne’ vari ordini di pianure uno sopra all’altro. Quella che è nella cima è di una vasta estensione. […] Tropea è ben situata a piedi di un monte disposto a colline l’una sopra dell’altra»1.
Queste indicazioni, tratte dal Giornale di viaggio in Calabria (1792) di Giuseppe M. Galanti, viaggio effettuato per conto del governo borbonico in seguito al terremoto del 1783, si riferiscono all’insieme demaniale di Tropea con i suoi casali, già riconfermato nel 1445 con privilegio di Alfonso di Aragona e smembrato nel 1806 con i decreti sull’ordinamento dell’amministrazione civile del Regno di Napoli2, che acquistò la sua definitiva fisionomia nel 1816, dopo la restaurazione borbonica, con la creazione di comuni autonomi, compresi nel circondario di Tropea. La zona, che attualmente comprende il territorio dei comuni di Zambrone, Parghelia, Tropea, Ricadi, Spilinga e Zaccanopoli, fa parte del piccolo massiccio granitico del Poro; il complesso montuoso è compreso tra il Mar Tirreno, verso cui scende variamente terrazzato dando luogo a una notevole sporgenza che delimita i golfi di Sant’Eufemia e di Gioia Tauro, e i margini occidentali delle valli dei fiumi Angitola e Mesima (figg. 1-2). La sua superficie terminale (posta fra i 500 e i 580 m sul livello del mare) è pianeggiante e si estende per circa 4.300 ettari. Da essa emergono «la cupola cristallina ed ellittica» del Monte Poro a 707 m e la cresta di Zungri, intorno a 630 m. «Le sue scarpate marginali sono verso il mare (meno che a sud) e verso il Mesima, sagomate da terrazzi quaternari a diversi piani: i terrazzi appaiono evidenti specialmente nella zona di Tropea, ove ne è individuabile una ordinata scala (a 420-475 m, a 330-360 m, a 250-280 m e intorno ai 50-100 m) »3. Questa quadruplice serie di chiane (così sono chiamate localmente le superfici pianeggianti terminali e quelle dei gradini) è congiunta da pareti ripide (petti), profondamente solcate da corsi d’acqua.
Le orlature terrazzate, sul margine esterno, verso il Mar Tirreno, sono segnate da una fila regolare e densa di piccoli centri abitati. Verso i due limiti del territorio studiato, le pareti collinari sono meno sagomate ma le file dei paesi continuano, anche se in maniera meno ordinata.
A livello del mare, al limite del territorio di Ricadi, dopo il capo Vaticano, è posta solo Santa Maria (frazione di Ricadi), un piccolo villaggio di pescatori, ora totalmente trasformato e snaturato per «esigenze turistiche».
Sul terrazzo più basso, fra i 50 e gli 80 m, sorgono Santa Domenica di Ricadi, Tropea e Parghelia. Più in alto, fra i 100 e i 200 m, sono San Nicolò e Brivadi, frazioni di Ricadi. I terrazzi fra 250 e 280 m accolgono il maggior numero di centri abitati: Ricadi (284 m) con le sue frazioni di Orsigliadi, Barbalaconi, Lampazzone e Ciaramiti, tutti posti sulla scarpata marginale del Poro, verso il capo Vaticano e il mare, dove il terrazzamento è meno evidente; Drapia con la frazione di Gasponi; Fitili, frazione di Parghelia; Zambrone (a 210 m circa) con le frazioni di Daffinà, Daffinacello e Madama (o Zambrone Nuovo); questi sorgono, per esempio Fitili da un lato e Daffinà e Daffinacello dall’altro, sui versanti opposti dei profondi solchi percorsi dai torrenti (vajuni).
A 330 m è posto Brattirò, frazione di Drapia e, a quasi 400 m, cioè sul terrazzo posto più in alto e quasi alla stessa altezza dell’altopiano terminale di cui sono ai margini, sorgono Spilinga, Caria, frazione di Drapia, Zaccanopoli e San Giovanni, frazione di Zambrone.
CAMPAGNE DI ZACCANOPOLI: Pagghjaru, dimora temporanea - CAMPAGNE DI DRAPIA: Bresti, mattoni di terra cruda misti a paglia, essiccato al sole. Particolare di una dimora locale.
Fino al 1920 le uniche vie di comunicazione fra i vari paesi, di gestione statale o provinciale, erano rappresentate dalla ferrovia Salerno-Reggio Calabria, costruita fra il 1880 e il 1900, con percorso lungo la costa e stazioni nel territorio del comune di Zambrone, lontana dal centro abitato, a Parghelia, Tropea, Santa Domenica e nel comune di Ricadi, non lontana dalla frazione San Nicolò; dalla vecchia «strada delle Calabrie», che passa sul margine orientale dell’altopiano, da Vibo Valentia a Mileto, e dalla strada, detta «dei Pioppi», che, partendo da questa, scende, attraversando Caria e lambendo Brattirò, Gasponi e Drapia, fino a Tropea (tronco costruito fra il 1860 e gli inizi del 1900) e continua lungo la costa: verso est, attraversando Parghelia e Briatico, fino a raggiungere Vibo Valentia Marina (tronco costruito fra i primi anni del 1900 ed il 19204, divenuto ora strada statale Pizzo-Tropea) e verso sud-ovest, attraversando Santa Domenica e risalendo sull’altopiano, dopo aver percorso Ricadi e Spilinga, fino a raggiungere la «strada dei Pioppi» (tronco costruito dopo il 1920). Dopo tale data, fino ad anni più recenti, sono state costruite le strade di collegamento fra la viabilità principale e i centri abitati, la strada Parghelia-Fitili-Zaccanopoli e quella Zambrone-San Giovanni-Zungri, che si ricongiungono con quella «dei Pioppi». E’ ancora in costruzione la strada Parghelia-Daffinacello-Daffinà.
Tutto il sistema di percorsi stradali ricalca le vecchie vie di comunicazione che collegavano i casali posti sulle colline con quelli della fascia costiera per poi convergere tutte a Tropea, «città principale». Queste strade, quasi totalmente in disuso e solo di recente in parte riutilizzate con opportuni allagamenti e sistemazioni si snodavano lungo le sponde dei torrenti o lungo le pareti dei vajuni o ai margini delle orlature terrazzate.
I collegamenti tra i vari paesi posti alla medesima altezza sui terrazzi marini erano, e lo sono ancora, tranne che sulla fascia costiera, più difficili, data la presenza, già più volte rilevata, di numerosi torrenti che solcano profondamente il territorio; i percorsi, che pure esistevano, prevedevano, con un viottolo, la discesa sul greto del torrente, che veniva attraversato a guado, e la risalita sulla sponda opposta. Gli stessi torrenti segnano anche precisi limiti e confini: spesso, infatti, i vajuni dividono il territorio dei diversi comuni. Nel passato, quando i collegamenti erano tutti e comunque più difficili (le strade erano percorribili sempre a piedi o a dorso di asino o, più raramente, con il carro trainato dai buoi) l’isolamento fra i vari casali era forse meno evidente e comunque rispondeva a un modo di vivere diverso; ora, con la raggiunta individualità comunale, i contatti e la rete degli scambi fra i centri posti sulle sponde opposte dei torrenti sono più difficili e infrequenti, e il collegamento può avvenire dopo lunghi percorsi stradali (per esempio Fitili e Daffinà-Daffinacello, Fitili e Drapia-Gasponi, Zaccanopoli-Caria).
Il vecchio sistema stradale, comunque, collegando i centri posti, a diverse altezze, sulle colline con quelli posti più in basso fino a convergere su Tropea, già ci permette di formulare alcune ipotesi, storicamente confermate da documenti e fonti letterarie5 almeno fino alla fine del secolo XIX, ma più difficilmente verificabili nella attuale configurazione del territorio; lo smembramento dell’antico insieme demaniale di Tropea, i frequenti e catastrofici terremoti, il nuovo aspetto che la zona sta assumendo per il turismo, rendono infatti non sempre leggibile l’appartenenza di ciascun paese, che pur già possedeva una propria realtà e una propria configurazione spaziale, ad una stessa area socio-culturale.
Uno sguardo puramente topografico già dà utili indicazioni: Tropea è più o meno al centro della fascia costiera che va dalla punta di Zambrone al capo Vaticano. Ai due lati di essa, quasi alla stessa distanza, sorgono Parghelia e Santa Domenica. Le retrostanti colline terrazzate, i terrazzi sono particolarmente visibili nella zona compresa tra Parghelia e Santa Domenica, accolgono, come abbiamo accennato, una fila regolare e densa di piccoli centri; troviamo un’altra fila di paesi sul terrazzo più alto, quasi ai margini dell’altopiano.
GASPONI: Stazzo coperto per il ricovero delle greggi - CAMPAGNE DI ZACCANOPOLI: Pagghjaru. Particolare della pinnata, stalla estiva
Tutto ciò potrebbe far pensare che queste forme di insediamento6 si siano plasmate su indicazioni o coercizioni naturali in un’epoca in cui la vita locale era più debole e chiusa, ma soprattutto che il loro sviluppo e la loro storia siano stati condizionati da una combinazione tra aree e diversa configurazione economica o, per meglio dire, che il territorio si sia formato con elementi topograficamente divisi, ma funzionalmente uniti in una complementarietà economica; come nota B. Spano, «villaggi, borgate e casali [sono] coordinati a gruppi da un comune centro di gravitazione»7, Tropea. Su di essa convergevano tutte le attività del territorio che erano distribuite fra i vari casali in funzione di diverse esigenze. I casali erano riconosciuti come università rurali, ma in tutto alle strette dipendenze di Tropea. Nei paesi della fascia costiera risiedevano i marinai, pescatori, gli artigiani e i commercianti e, in misura minore, anche i contadini; l’agricoltura era però condizionata da cause naturali (si coltivavano agrumi ed ortaggi, che hanno bisogno, come è noto, di un determinato clima e di terreni irrigui) e subordinata alle attività artigianali e commerciali (coltura del gelso, del lino e del cotone). Sulla parte collinare risiedeva una popolazione prevalentemente contadina, ma non erano del tutto assenti commercianti (Drapia) e artigiani che, per esempio, preparavano cordami per le attrezzature della pesca, sfruttando lo sparto (gùtamu) che cresce spontaneamente soprattutto in quella zona.
La distribuzione delle colture segue l’andamento dei terrazzi marini e non è molto diversa da quella settecentesca riportata da Sergio8, le uniche colture completamente scomparse sono il lino, il cotone e il gelso. Sulla costa le coltivazioni preminenti sono quelle degli ortaggi (soprattutto le «cipolle rosse di Tropea») e degli agrumi, con alberi da frutta (soprattutto fichi) e viti. Sopra i 200 m i terrazzi sono caratterizzati dalla presenza prevalente di vigneti (con produzione di vini da pasto e buone uve da tavola), principalmente nelle zone di Daffinà, Daffinacello, Brattirò e Ricadi, e dalla coltura promiscua di cereali con olivi, alberi da frutta, e da pochi agrumeti. Più in alto, intorno ai centri di San Giovanni, Zaccanopoli, Caria e Spilinga è diffusa la coltivazione promiscua di cereali (grano, mais), fagioli e patate, con olivi, che scompaiono però ai margini dell’altopiano, dove domina la coltura dei cereali e l’allevamento ovino, con produzione artigianale di ricotte e formaggi (famoso nella zona è «il formaggio di Zaccanopoli»). Il bosco originario che ricopriva l’altopiano e le pendici del Poro è scomparso, sia a causa dei venti impetuosi che hanno avuto e hanno una azione limitatrice della vegetazione arborea, sia per opera dell’uomo. Il bosco nelle pendici, che esiste ancora in luoghi impervi e lungo i valloni, è formato dalla macchia mediterranea con cespugli di mirto, lentisco, corbezzolo, erica arborea, rovere, roverella e sparto9.
La proprietà è frantumata, con poche eccezioni sull’altopiano, dove sussistono grosse masserie, localmente dette feudi. Le forme più diffuse di conduzione dei terreni sono l’affitto, la colonia parziale, ed un’altra forma, detta contratto misto, che combina l’affitto con il colonato10. In verità oggi tanto la colonia quanto il contratto misto vanno scomparendo, sostituiti dalle forme previste dalla normativa vigente a livello nazionale. Ora va sempre più estendendosi la piccola proprietà contadina.
La configurazione del territorio, le colture e i modi di coltivazione, le forme di conduzione della terra e l’organizzazione sociale propria a questa realtà, hanno dato luogo a forme di insediamento che pure apparendo, e in parte essendo, fortemente omogenee, presentano di fatto delle peculiarità specifiche. A Tropea e Parghelia (intendendo solo i centri abitati) si farà solo riferimento in quanto – pur facendo tali paesi parte integrante dell’insieme demaniale di cui costituivano anzi i centri economici più vivaci, ed avendo perciò stesso delle caratteristiche differenti rispetto agli altri villaggi presi in esame – richiederebbero un ulteriore livello di approfondimento e di analisi. Tale diversità si può sinteticamente individuare nel diverso ruolo che l’attività agricola ha svolto nell’economia di queste due comunità; in quella di Tropea e Parghelia, l’agricoltura aveva minore rilievo rispetto al commercio, all’artigianato e ad altre attività di tipo terziario; in quella della zona circostante, il lavoro agricolo era dominante e altre iniziative, ove fossero presenti, avevano un’incidenza minore nel quadro economico e, comunque, erano subordinate a quelle analoghe dei centri suddetti. Inoltre Tropea, centro amministrativo, era la sede di famiglie aristocratiche e borghesi che possedevano terreni, mentre i contadini che li coltivavano risiedevano sui poderi, e, soprattutto, nei casali. Nella «civitas» abitavano le famiglie nobili, organizzate in un sedile di nobiltà11, il clero e gli «onorati del popolo» e, fuori dalle mura, nel «burgus», abitavano soprattutto artigiani tessili e fabbri ferrai. Tale situazione si è tradotta in una strutturazione dello spazio in cui l’elemento culturale contadino era, ed è, di fatto assente12.
La stessa assenza può rilevarsi a Parghelia, anche se, parzialmente, per ragioni diverse. Le attività commerciali – economicamente molto vivaci, soprattutto in rapporto alla situazione del resto della Calabria – e artigianali avevano dato al paese una configurazione in cui gli elementi della cultura rurale erano molto ridotti: tali elementi, in ogni caso, sono scomparsi a causa della totale distruzione seguita al terremoto del 190513. La ricostruzione dell’abitato, iniziata nel 1926, ha dato a questo un aspetto anonimo e in gran parte estraneo alla cultura locale, senza nessun legame organico con il resto del territorio.
Al contrario, gli altri casali consentono una lettura più unitaria.
La caratteristica comune a tutti i paesi è la piattezza e l’uniformità nel blocco delle strutture abitative; non c’è nessun elemento architettonico che emerga o eserciti un particolare richiamo: le case sono quasi tutte uguali fra loro – ad un piano o due, più raramente a tre14 – e creano un ambiente alquanto uniforme in cui però le singole unità abitative non perdono la loro materiale individualità e quindi sono solo radunate, assommate topograficamente. Questa edilizia si svolge sulle linee tradizionali di una architettura fortemente condizionata dal perseguimento di una elementare aderenza ai bisogni e concepita quindi a misura dell’uomo e ispirata a una medesima funzionalità15. «Il processo di aggregazione esalta visibilmente questa tendenza all’uniformità o alla […] semplificazione delle strutture e della scala tipologica» e, anche quando esistono modifiche o totali cambiamenti di una parte di tali agglomerati, è ancora possibile riconoscere nel loro aspetto strutturale quali siano le «forme» più significative e ricorrenti della abitazione16.
In qualche paese (Drapia, Spilinga, Fitili, Caria) esiste qualche fabbrica signorile nata come residenza temporanea di proprietari terrieri e, quindi, di origine non contadina, ma l’aspetto attuale, di frequente in rovina, non fa assumere a tali edifici alcun rilievo nella fisionomia complessiva dell’insediamento. Solo Ciaramiti sembra essere dominato dalla mole, per altro di non notevoli dimensioni, di un palazzotto signorile e della chiesa; ciò però è dovuto, probabilmente, solo alla morfologia del luogo su cui il paese è situato.
CAMPAGNE DI ZAMBRONE: Un calvario - CAMPAGNE DI RICADI: Un calvario
Neanche le chiese hanno un ruolo dominante nella configurazione di questi centri: la totale assenza di campanili o la scarsa elevazione di essi (fenomeni questi dovuti a norme antisismiche) contribuiscono a creare il deciso e armonico profilo volumetrico, senza nessun elemento emergente. A Santa Domenica la chiesa si innalza sull’abitato ma, a parte le incidenze che può aver avuto l’andamento del terreno, ciò può essere stato determinato dalla volontà di solennizzare il luogo di nascita della Santa a cui la chiesa è dedicata e da cui il paese ha preso il nome.
Altre considerazioni generali potrebbero farsi riguardo al rapporto fra architettura e clima e riguardo alla morfologia del suolo. Ma mentre il primo non è di importanza determinante nella struttura generale e nelle consuetudini costruttive ed agisce, eventualmente, in via subordinata su singoli elementi strutturali, il rapporto con la morfologia del terreno costituisce la condizione che per prima dà il carattere dell’agglomerato e contribuisce, ovviamente insieme ad altri fattori, a dare un significato alla sua configurazione spaziale ed alle forme interne ed esterne dell’abitazione17. E’ necessario specificare le diversità, dove esistano, insorgenti «in rapporto all’ubicazione, all’altitudine del sito e all’andamento del terreno di fondazione; all’addensamento, alla statura e all’impianto delle costruzioni; all’età del caseggiato e alla quantità delle modifiche successivamente ricevute; ma pure in relazione ai materiali edili, alle strutture murarie, alle forme dei tetti e a quanti altri elementi, funzionali ed estetici, si inscrivano con una loro espressione corale nel panorama dell’abitato. […] Il mutare di una condizione fondamentale, come può essere nell’ordine dei determinanti geografici la posizione e l’altitudine della sede o la morfologia del piano di impostazione, trae con sé normalmente anche un cambiamento nell’assetto e nel modo di atteggiarsi del fatto edilizio inteso come organismo collettivo e come episodio»18.
L’uniformità che caratterizza tutti i paesi e i villaggi è dovuta all’omogeneità dei modi di produzione e dell’organizzazione sociale di cui fanno parte, la quale a sua volta è determinata da un insieme di fattori molteplici di cui si è già fatto cenno.
La conformazione topografica dei centri abitati è molto simile; sono in buona parte situati su un terreno pianeggiante e quasi tutti, come è stato rilevato, sono posti sui versanti opposti dei vajuni.
Dove le sagome dei terrazzi marini sono meno pronunciate i paesi sono posti in leggero declivio sul terreno che scende verso il mare senza balzi notevoli.
San Giovanni, Zaccanopoli, Caria, Panaja, Orsigliadi, Lampazzone, Barbalaconi, Santa Maria, Brattirò, Gasponi, Drapia, Fitili, Daffinà e Daffinacello sono adagiati su terreni del tutto pianeggianti o con minimi dislivelli; a Zambrone, Santa domenica, San Nicolò, Brivadi e Spilinga il dislivello aumenta, ma non in maniera considerevole, per cui le differenze che la diversa situazione topografica potrebbe creare sono quasi insignificanti. Solo Ciaramiti può considerarsi in parte, come un «centro inerpicato»19 data la sua posizione su un risalto del terreno.
Bisogna tener presente che la maggior parte dei centri abitati è di dimensioni molte ridotte, per cui spesso è molto difficile stabilire una netta differenza di impianto della loro struttura urbana. Questa è dovuta oltre che ad un’esiguità del primitivo impianto, anche a successive degradazioni causate da molteplici fattori, tra i quali, certamente non trascurabili, sono le distruzioni in seguito ai terremoti20 e l’abbandono da parte degli abitanti dovuto all’emigrazione. Questi fenomeni d’altra parte sono presenti in tutti i «casali e villaggi» del nostro territorio, ma ovviamente la loro incidenza è maggiore e più evidente su nuclei di insediamento già di per sé di scarsa entità. In certi casi la parziale distruzione dei centri dovuta ai terremoti ha causato il sorgere di «baraccopoli» che, come vedremo più precisamente in seguito, hanno alterato in vario modo la conformazione originaria, o ha determinato la loro totale scomparsa, come è accaduto per Alafito, frazione di Parghelia, che, distrutto parzialmente dal terremoto del 1905, non è stato più riedificato e i suoi abitanti si sono trasferito in altri luoghi.
Le diversità che questi agglomerati presentano sono già rilevabili da alcune caratteristiche: una prima differenza di impianto e conformazione, relativa alla planimetria e quindi in stretto rapporto con la struttura urbanistica, possiamo vederla nella «forma»; distingueremo, per comodità di discorso, i «centri allungati» dai «centri a varia conformazione». Del primo gruppo fanno parte Zaccanopoli, Drapia, Brattirò, Santa Domenica, Panaja, Daffinacello e Barbalaconi, che sono caratterizzati da un asse stradale che si svolge fra due schiere compatte di fabbriche e dalla presenza di pochi e non molto ampi spazi aperti di uso pubblico. Dove esistono degli spazi più ampi, sono di recente formazione con lo scopo di dare una piazza al paese.
Del secondo gruppo fanno parte Zambrone, San Giovanni, Daffinà, Fitili, Gasponi, Caria, Ciaramiti, San Nicolò, Brivadi, Orsigliadi, Ricadi, Lampazzone e Spilinga che sono caratterizzati da una maglia urbanistica sviluppatasi in maniera diversa in ogni singolo paese e che presenta, anche in una stessa situazione, caratteri ora più regolari, ora di maggiore addensamento del caseggiato.
Se per il primo gruppo non è difficile risalire al primo nucleo di insediamento sviluppatosi poi secondo l’asse stradale principale (che spesso era ed è ancora la sola strada comodamente percorribile), per il secondo gruppo bisogna analizzare singolarmente ogni agglomerato per risalire alle cause che hanno determinato una così varia e disordinata struttura urbanistica.
La planimetria di Zambrone, San Giovanni e Daffinà presenta due parti completamente diverse: accanto ad un nucleo più addensato, è visibile una zona più regolare. Non è difficile stabilire che il primo è il nucleo originario a cui si è aggiunto, dopo le parziali distruzioni del terremoto del 1905, un nuovo insediamento, di cui è necessario descrivere il carattere; queste case furono costruite in legno e con mattoni crudi di fango e paglia (detti bresti, di cui parleremo più diffusamente in seguito) come abitazioni «provvisorie», in attesa della ricostruzione della parte del paese distrutta; ma ancora oggi, a quasi ottant’anni dal sisma, la ricostruzione è stata effettuata solo in parte, per cui queste abitazioni sono diventate ormai «definitive»; il loro coesistere con il nucleo del vecchio insediamento, che è spesso in condizioni precarie, e con quello di nuova formazione, costituito da «case popolari», contribuisce a creare uno stato di disagio e di sgretolamento del tessuto urbano, per cui faticosamente si riesce a cogliere una qualche unità ambientale.
Per quanto riguarda Spilinga il discorso è diverso: la sua attuale conformazione è dovuta alla fusione di due paesi, Carciadi e Spilinga, posti, a breve distanza, ma a diversa quota, effettuata urbanisticamente con la costruzione di una rete stradale abbastanza regolare che, partendo da una piazza centrale, collega i due vecchi nuclei.
Ricadi e Caria sono caratterizzati da una maglia urbanistica più estesa ma alla determinazione del loro aspetto concorrono elementi diversi: Ricadi subì parzialmente i danni del sisma del 1905 per cui, insieme a fabbriche nuove e ad alcune ristrutturate, presenta anche alcune case costruite con bresti.
Brivadi, Orsigliadi, Lampazzone, Gasponi, Fitili e San Nicolò mostrano una conformazione senza sostanziali differenze. Gasponi ha un nucleo di formazione recente e San Nicolò sta subendo un processo di «valorizzazione turistica» con conseguente ampliamento della maglia urbana e un rinnovamento e una trasformazione delle strutture edilizie. Le differenze tra i singoli paesi, dovute a parziale ricostruzione, non sono tuttavia così profonde da alterarne completamente la fisionomia e il carattere fondamentale.
La relativa omogeneità riscontrata nella trasformazione di tali centri è anche rilevabile dalla maniera in cui ciascun paese organizza e costruisce il proprio spazio pubblico e privato.
Tutti i paesi articolano la loro vita essenzialmente attorno ad una piazza: di solito si tratta di uno spazio, più o meno ampio, che si apre davanti alla chiesa (Zambrone, Fitili, Zaccanopoli, Ricadi); si rileva anche l’esistenza di spazi creati da differenti elementi di richiamo, quali, ad esempio una fontana, il monumento ai caduti (Zaccanopoli, Drapia, Spilinga) o l’incrocio fra due strade di uguale importanza (Brattirò) e anche, ma più raramente, un palazzotto signorile (Caria)21.
Questa sommaria lettura topografica del territorio, all’interno del suo contesto storico, economico e morfologico, non tiene conto dell’organizzazione dello spazio secondo le coordinate culturali afferenti al modo di vivere tale spazio e di rappresentarselo. L’organizzazione di un paese, infatti, come è noto, risponde a molteplici esigenze dell’ordine del simbolico e del sociale.
Nel descrivere le strutture abitative e produttive presenti su tale territorio si privilegerà un approccio che farà riferimento essenziale alle strutture e alle funzioni da queste svolte nel contesto precedentemente descritto, pur nella consapevolezza che tale approccio consente solo una lettura parziale che andrebbe integrata con vari livelli di indagine22.
Le abitazioni popolari, esterne ed interne al paese, pur nella loro diversità presentano un dato comune: di essere del tutto aderenti e funzionali al modo di produzione e al tipo di organizzazione sociale propri di ciascuna comunità. La «forma» più diffusa dell’abitazione è quella unitaria a due piani, con scala interna di accesso al piano superiore. Nel caso in cui ogni piano contenga due vani affiancati, si tratta di un fabbricato occupato da più di una famiglia o da nuclei distinti di una medesima famiglia eventualmente con uso comune dei vani a pianterreno. Va rilevato che le abitazioni sono costruite in genere per ospitare la famiglia nucleare. Non sono presenti forme di coabitazioni tra persone legate da rapporti di parentela o di alleanza e vige, al contrario, la regola della neolocalità23.
Questo tipo di abitazione è definito normalmente dalla sovrapposizione a un vano terraneo o parzialmente incassato di uno o più ambienti unicellulari, serviti da una rampa di scale montate dal locale inferiore.
A Brattirò, Ciaramiti, Caria, Spilinga, Barbalaconi, Orsigliadi, Fitili e Zambrone ne troviamo anche con la scala di accesso all’ambiente superiore costruita esternamente, in genere a ridosso della facciata. L’ingresso del seminterrato è posto sotto il ballatoio. Questo vano era un ricovero per gli animali e quindi era necessario separarlo dall’abitazione. Ora queste case sono quasi del tutto disabitate e in rovina: nelle poche ancora in uso, in parte ristrutturate, il ricovero per gli animali è diventato magazzino. La presenza del ricovero per gli animali e del magazzino all’interno della casa, pone in evidenza i nessi tra economia, lavoro, organizzazione familiare e struttura abitativa; il modo di produzione dunque influenza la maniera del costruire e dell’abitare24.
Il modo di utilizzare lo spazio non differisce sostanzialmente da un centro all’altro: a pianterreno è situata normalmente la cucina e al piano superiore le camere da letto. Quando il terraneo è destinato agli animali, la cucina è sistemata nel primo vano del piano superiore; accade talvolta che per mancanza di spazio la vita si svolga in un unico ambiente.
A Gasponi, Drapia, Brattirò, Spilinga, Lampazzone e Zaccanopoli si nota la presenza di fabbricati con tre piani di cui il primo viene utilizzato come deposito e i due successivi per l’abitazione, con scale interne (di legno) di accesso ai vari piani. A Drapia troviamo una fabbrica con tre piani sovrapposti al terraneo, con una scala esterna che conduce al primo piano, mentre i successivi sono collegati da scale interne. L’ingresso al terraneo è posto sotto l’arco del ballatoio della rampa esterna.
L’origine della diversa sistemazione (interna o esterna) della scala è da considerarsi più in relazione a problemi di spazio, sia riguardo al singolo edificio, sia al rapporto tra esso e lo spazio fra le case, che come soluzione a problemi climatici; infatti troviamo, a diverse altitudini e variamente dislocate, sia l’una che l’altra soluzione, quindi il freddo e la pioggia non esercitano un’azione veramente costrittiva nei confronti della posizione delle scale. Naturalmente l’uso della scala esterna conferisce un diverso movimento alla continuità degli schieramenti edilizi lungo le strade, creando un maggior risalto volumetrico. Ciò è facilmente visibile a Brattirò, dove esiste una zona formata esclusivamente da abitazioni con scala esterna. Negli altri centri troviamo invece degli episodi isolati o comunque posti in maniera tale da costituire un’eccezione nello schieramento compatto e uniforme delle abitazioni.
La dimora contadina è spesso una casa a livello del piano stradale formata da uno o due ambienti. Talvolta è tutta una zona a prendere l’aspetto di un «accampamento» di piccole case disposte a lunghe file. In questi casi al disagio di vivere in uno o massimo due ambienti, si aggiunge spesso la precarietà del materiale impiegato per la costruzione, cioè dei mattoni di fango e paglia induriti al sole (bresti). Tutto ciò è in ogni caso espressione di più esasperate ristrettezze economiche, ma è anche conseguenza dei catastrofici sismi che periodicamente si sono verificati in Calabria e che hanno creato un’architettura perennemente provvisoria.
A questo riguardo un proverbio calabrese dice: terri quanti nd’abbisti – casi quantu mu stai (terreni quanti riesci a venderne – case giusto per viverci); il senso di tutto ciò è che conviene possedere molti terreni, che «danno un utile maggiore delle case, le quali possono, in breve, essere distrutte da un terremoto»25.
Va precisato che l’uso della terra secca (che ora va quasi scomparendo) non è dovuto a norme antisismiche, ma i bresti sono, o erano, un materiale impiegato là dove, o per la mancanza di altro o per l’eccessivo costo o per la più facile messa in opera, non era conveniente o possibile costruire in altro modo. Tale materiale, che ha anche proprietà di isolamento termico, veniva impiegato abitualmente nelle abitazioni temporanee sui campi e più raramente nella costruzione di quelle urbane, per cui la presenza di esso nei paesi è dovuta alla particolare situazione di contingenza. Anche nelle abitazioni a due piani è diffuso l’impiego delle bresti ma solo per il muro del piano superiore. La parte inferiore della muratura è costruita in pietra; l’uso dei diversi materiali non è sempre riscontrabile a prima vista in quanto la superficie muraria è ricoperta spesso dall’intonaco.
A Zambrone, Daffinà e San Giovanni troviamo intere aree costituite da lunghe file di case elementari formate, in genere, da un solo ambiente in cui si svolge tutta la vita di un’intera famiglia: la cucina è posta in un angolo e talvolta è separata da elementi provvisori. Nel caso di due vani affiancati, il primo viene occupato dalla cucina e dal «soggiorno» e il secondo dalla camera da letto.
Le caratteristiche comuni a tutte le case rurali sono le dimensioni essenziali dello spazio per vivere, dove, ovviamente, i confini tra l’indispensabile e il superfluo variano secondo le diverse situazioni: taglia della famiglia e condizioni sociali della stessa, usi propri a ciascun paese, etc; la «riservatezza» e l’individualità, che è possibile riscontrare comunque in ogni episodio, vanno fatte risalire a un tema fondamentale della cultura di questo gruppo umano, quello della famiglia come soggetto sociale privilegiato. Per questa ragione è assolutamente indispensabile «guardarsi» dagli estranei ricorrendo a oggetti a cui si dà un valore magico capace di allontanare le forze del male e creando uno spazio vitale il più possibile lontano dagli altri, chiuso a qualsiasi contatto con l’esterno; si permette di frequentare la propria casa solo a chi dà dimostrazioni di affetto (cu’ ti voli beni – ‘n casa ti veni) e bisogna diffidare di chi lascia la porta aperta (a porta aperta trasi di hiancu26 – entra di fianco nella casa in cui la porta viene lasciata aperta). Tutto ciò si traduce in elementi architettonici che, interpretati spesso come determinati da condizionamenti del clima, sono invece in massima parte dovuti a una precisa volontà di isolamento e di intimità familiare. Nelle case in cui la cucina è posta a pianterreno – L. Gambi a questo proposito individua un preciso rapporto tra la frequente posizione del focolare nell’ingresso e il lararium27 – le porte d’ingresso, a uno o due battenti, sono caratterizzate da un taglio orizzontale tale da consentire l’apertura della sola parte superiore dell’infisso (nelle porte con un solo battente è presente un piccolo sportello) con lo scopo di dare luce e aria all’ambiente, data la totale assenza di finestre o le minime dimensioni di esse. I piani superiori sono caratterizzati, in genere, dalla presenza di balconi più o meno ampi.
Questi caratteri non sono solo dipendenti da fattori naturali, ma anche da fattori culturali. A tali soluzioni, infatti, si fa ricorso in situazioni che, sia dal punto di vista dell’altitudine che da quello dell’esposizione al sole, sono obiettivamente diverse; evidentemente la loro presenza, o assenza, è in relazione con una intenzione di «chiusura» delle abitazioni nella parte esposta alle «indiscrezioni» che la strada adiacente può causare. Nelle abitazioni sparse tale situazione spesso si esaspera a tal punto che si riscontra la mancanza assoluta di aperture sulla strada che costeggia il fabbricato.
Per quanto riguarda le case poste fuori dai centri bisogna precisare che esse rispondono a funzioni diverse in rapporto alla loro destinazione, cioè secondo il loro ruolo di dimora stabile o temporanea. Generalmente i contadini si recano sul fondo per attendere ai lavori agricoli tornando la sera nelle loro abitazioni nei paesi, quindi la maggior parte dei fabbricati sparsi ha la funzione di dimora diurna, di ricovero per gli animali e di deposito per gli attrezzi. Nella zona dell’altopiano che fa parte del nostro territorio, le case sono abitate temporaneamente da maggio ad ottobre, per il periodo del raccolto; ma anche qui il numero delle persone che vivono stagionalmente sui campi va sempre più assottigliandosi. La maggior parte delle abitazioni si caratterizza come casa elementare di due o tre vani, con pochi esempi di case unitarie a due piani con più elementi sovrapposti, localmente detti casini; in essi il piano inferiore era usato dai contadini e il piano superiore era riservato al proprietario che si recava al feudo per la riscossione dei canoni o per la villeggiatura estiva. L’uso dello spazio è simile a quello già descritto per le case «urbane», ma va tenuto presente che sull’altopiano la popolazione è dedita, oltre che all’agricoltura, alla pastorizia; ciò determina l’esigenza di ricoveri per gli animali separati dalla casa vera e propria e di dimore temporanee per i pastori, dislocate variamente secondo la distribuzione delle zone destinate al pascolo.
L. Lacquaniti descrive dimore temporanee costruite con «solide armature di pali incurvati che formano una volta a botte e rivestite da steli secchi di lupini o da terra battuta» che forma un anello intorno alla base della capanna28, ma queste dimore, se ancora esistono, sono completamente in disuso. Un altro tipo è quello costruito con la base di pietra e il tetto con steli secchi di lupini; anche se in origine tale costruzione era adibita a dimora temporanea dei pastori, ora ha solamente la funzione di ovile fisso o è adibito alla lavorazione del formaggio e delle ricotte. A Brattirò troviamo lo stesso tipo di ricovero per animali, ma con la copertura di gùtamu e canne. Accanto alle case sorgono anche tettoie per animali, il forno, il pollaio.
In due fabbricati situati ai margini del territorio di Spilinga (uno è in rovina e l’altro non è più abitato, ma adibito a deposito), il ricovero per gli animali è addossato all’abitazione ed è costituito da una tettoia sorretta da pilastri in muratura.
Il casino del feudo in località Lemis nel territorio di Zaccanopoli è chiaramente un’abitazione padronale, per le dimensioni e il numero dei vani.
I due piani (al superiore si accede mediante una scala esterna) sono attualmente adibiti a deposito. Intorno al fabbricato principale sorgono vari ricoveri per animali e gli ambienti per la conservazione del formaggio, che ora sono in disuso e anch’essi adibiti a deposito.
Il piano superiore è formato da un piccolo ingresso a cui segue un grande ambiente con il camino, da cui si accede poi ad altri due vani, uno dei quali molto piccolo. E’ presente anche un piccolissimo vano che era adibito a gabinetto. Tutto è ora quasi completamente in rovina. I contadini si recano sul fondo giornalmente e la sera ritornano a Zaccanopoli.
Man mano che dall’altopiano si scende verso il mare, le case ancora abitate stabilmente diventano più rare e la loro conformazione non cambia, anche qui i tipi più frequenti sono la casa elementare con uno o due vani e la dimora unitaria a due piani, prevalentemente con una scala esterna.
Il fondo «Contura» nel territorio di Parghelia permette di analizzare più compiutamente il rapporto tra la casa e il circostante terreno coltivato. Il fondo, infatti, era costituito, prima di essere tagliato dalla ferrovia e, più recentemente, dalla superstrada Pizzo-Tropea, da un unico ed omogeneo appezzamento di terreno pianeggiante di circa 20 ettari; è naturalmente individuato e delimitato, per tre dei suoi lati, dal lido del mare e da due vajuni paralleli; verso la collina la delimitazione è costituita da un muro di cinta che fiancheggia la strada che porta a Parghelia. Nella sua parte centrale questa recinzione è costituita dal muro perimetrale di un gruppo di abitazioni continue occupate da contadini, affittuari del fondo. Tale continuità è interrotta per dare un ingresso al fondo. Tale continuità è interrotta per dare un ingresso al fondo, ingresso che è sottolineato dal curvarsi del muro; le curvature coprono le scale di accesso al piano superiore di due singole case, poste simmetricamente ai lati dell’ingresso; quella di sinistra conserva anche materialmente la sua individualità, l’altra segna l’inizio delle abitazioni in linea.
Questi fabbricati presentano la sovrapposizione di due piani, che, a causa del dislivello esistente tra la strada e fondo, è percepibile soltanto all’interno del fondo stesso e non dalla strada, sulla quale, tra l’altro, non è praticata alcuna apertura, fatta eccezione per due piccole feritoie che si aprono simmetricamente sulle curve dell’ingresso, in corrispondenza di due piccoli vani-cucina, ricavati sul ballatoio delle scale di accesso al piano superiore. Il collegamento fra i due piani è esterno per le due case ai lati dell’ingresso, in cui il piano inferiore è adibito a magazzino, interno nelle altre abitazioni, in cui il piano inferiore funge da ingresso e cucina.
Il materiale impiegato per la costruzione è la pietra rivestita da intonaco; il tetto è a spioventi ricoperto di tegole curve.
Sul terreno sono presenti altre costruzioni sparse rispondenti a diverse esigenze: si tratta di case elementari, isolate o raggruppate, con funzione di deposito per attrezzi, di ricovero temporaneo o di stalla; solamente una è a due piani, cui si accede separatamente sfruttando il diverso livello del terreno; il vano più basso è adibito a palmento e quello superiore era riservato al proprietario.
Per quanto riguarda le case che segnano l’ingresso al fondo è evidente l’influsso esercitato dall’architettura non contadina: la simmetria degli elementi architettonici dell’ingresso fa pensare al preciso intervento di una cultura diversa (quella dei proprietari) rispondente a determinati canoni; si dice questo non perché l’abituale e apparente «irregolarità estetica» dell’architettura contadina significhi necessariamente la mancanza di un piano e di un modello da seguire per cui si possa ritenere «spontanea» e solo episodicamente condizionata dall’architettura «colta», ma al contrario perché si vuole ribadire che la società contadina proietta i suoi modelli culturali nell’architettura, che quindi testimonia la difficoltà per la sopravvivenza, il condizionamento dovuto a forze spesso ostili e avvertire come soprannaturali, a rapporti di classe all’interno di una società gerarchizzata, in cui l’individuo o il gruppo più debole subisce un processo di «civilizzazione» che è in effetti una forma di espropriazione culturale. E’ chiaro che l’architettura rurale tende alla conservazione della propria specificità culturale, ma non ha un’assoluta capacità di resistenza rispetto a quella dominante, che spesso propone modelli e tecniche più avanzate.
P. Marconi rileva a questo proposito che fra «le due architetture» «non esistono distacco o alterità, ma stretti rapporti d’interdipendenza: rapporti non unilaterali nel senso che una delle due formazioni discenda dall’altra, ma reciproci nel senso che ciascuna delle due influisce sull’altra»29. Egli però tralascia di rilevare come questa reciprocità di rapporti si realizzi, per i vari gruppi sociali, da posizioni obiettivamente diverse che consentono talora più che la compenetrazione, la sovrapposizione di due culture.
A ciò si aggiunga che spesso costruzioni definite contadine sono divenute tali per il cambiamento della loro funzione originaria o derivano da edifizi realizzati in campagna ad uso dei proprietari. Un fabbricato posto nei pressi dell’abitato di Zaccanopoli, sulla vecchia strada che portava a Parghelia, può costituire un esempio in tal senso. La presenza in esso di un piccolo portico archiacuto, coperto da volte a crociera che sostengono una parte del piano superiore, induce a credere che si tratti di un manufatto rispondente originariamente a una funzione diversa da quella attuale: con la chiusura degli archi è stata poi ricavata da contadini una stalla, per altro ora in disuso.
Anche il nucleo di case in località Torre Marino, nel territorio di Ricadi, testimonia del rapporto fra le due architetture. La sua conformazione è stata determinata dall’edificio padronale che, posto come sfondo scenografico al viale di ingresso, delimita con uno dei due lati minori la corte aperta formata da due lunghi fabbricati a un piano in cui sono poste le varie abitazioni dei contadini. L’insieme costituisce un piccolo borgo autosufficiente, provvisto anche di una chiesa.
I materiali impiegati nelle costruzioni del nostro territorio sono, ovviamente, come accennato, quelli «presenti entro i ristretti limiti dell’ambiente […] e più semplici a mettere in opera»30. Prevalentemente venivano impiegate la pietra e le bresti. Le rocce usate sono il calcare tenero e il granito che spesso si trovano contemporaneamente, in pezzi informi e di varie dimensioni, nelle murature insieme con il mattone o con frammenti di esso, spesso disposti ordinatamente intorno ad ogni pietra, troviamo anche dei muri costruiti con pietre squadrate di calcare tenero, cui talvolta si uniscono i mattoni posti in doppia fila orizzontale ad intervalli regolari. Il granito lavorato è in genere usato per le soglie, i gradini e i portali; per gli architravi spesso il legno sostituisce la pietra. Il mattone viene adoperato specialmente per la costruzione degli archi, degli stipiti, delle piattabande.
Il legno compare abitualmente nelle orditure dei solai e dei tetti; i solai vengono eseguiti con un’orditura principale di travi più grosse innestate nella muratura, sulle quali poggia un secondo ordine di travicelli di minor sezione e sopra di essi è posto il pavimento, spesso in assi di legno. L’orditura dei tetti è costituita da travi che poggiano sui muri perimetrali o anche da capriate, quando la luce da coprire è notevole. Nelle coperture vengono impiegate generalmente le tegole curve.
Sono anche presenti a Tropea, lungo la strada che porta alla marina, alla marina di Zambrone e nei pressi di Drapia, alcuni mulini coperti con volta a botte e numerosi pozzi coperti a cupola (per esempio a Caria e in località «Spartà» del comune di Ricadi). L’esistenza di tali costruzioni dalle forme caratterizzate, simili a quelle di numerosi luoghi dell’Africa del Nord, potrebbe indurre a comprendere anche la Calabria nell’area cosidetta «architettura mediterranea».
G. Valussi riscontra un influsso arabo a proposito di analoghi «pozzi-cisterna a cupola» siciliani31 e R. Biasutti riconosce ai Bizantini e agli Arabi la funzione di tramite per la diffusione dello «stile a terrazza o a volta» nella Spagna meridionale, nelle isole Eolie, in Campania, in Puglia e nelle isole dell’Egeo32.
Tracce più evidenti potrebbero essere state cancellate nel nostro territorio dai vari catastrofici terremoti, che hanno anche potuto determinare, di volta in volta, mutamenti nelle tecniche e nei modi di costruire.
Abbiamo sin qui visto come si strutturano le architetture popolari, in una determinata area, attraverso l’osservazione diretta confortata dall’analisi storico-territoriale. Abbiamo altresì osservato come in un territorio rurale quale quello da noi preso in esame i due fondamentali elementi di interesse siano il paese e la casa.
Un’indagine sulla casa rurale (parte della cultura materiale) deve anche porsi il problema di come il tema della casa sia vissuto a livello ideale (cultura ideologico-letteraria). Accanto dunque all’analisi sul campo dei manufatti e alla ricognizione delle fonti storico-letterarie riguardanti il territorio, bisogna tentare anche una rilevazione della presenza (o assenza) di riferimenti alla gestione dello spazio nei documenti della cultura folklorica tradizionale.
Nei racconti popolari calabresi esiste una particolare dicotomia tra casa contadina e casa signorile, che letterariamente diventano casa taciuta o presupposta e casa descritta.
Si potrebbe dire che la casa contadina sia il punto di partenza, il luogo da abbandonare nella ricerca simbolica e nello sviluppo della progressione narrativa; il luogo negato, in questo particolare settore della percezione spaziale popolare, in quanto dialetticamente connesso alla ricerca di un nuovo status o di una diversa situazione. La casa signorile, invece, sia nella sua struttura architettonica esterna, sia nella composizione interna, viene vista ed osservata appunto nel e per il suo essere esterna e incombente sulla esperienza quotidiana del contadino. Il rapporto tra i due poli architettonici nella struttura narrativa il senso del rapporto contadino-padrone, schiavitù-signoria.
Una valenza specifica del silenzio letterario può ritrovarsi nella necessità culturale di vivere la casa contadina come spazio protetto, in quanto spazio privato, familistico, anche se l’uso di lasciare la porta aperta o socchiusa sta a significare, forse, un’incertezza sospesa tra la negazione e la nostalgia e la possibilità diffidente e vigile di un rapporto e di una solidarietà più vasta e costituisce, quindi, la casa come luogo da cui si dipartono o in cui di ricapitolano dinamiche e traiettorie – realistiche e simboliche – di più estesa socializzazione.
Nella tipologia narrativa, nelle case povere, l’estraneo – cioè chiunque non appartenga alla famiglia – non entra. Se la vicenda narrativa conduce un estraneo sino alla casa, questi comunque si arresta alla porta. Altre volte troviamo dei personaggi in una casa a essi estranea, ma si tratta di personaggi negativi, anche nel senso che sono portatori della negazione dei valori dell’etica contadina: lealtà. amicizia, fedeltà, rispetto della donna altrui, riservatezza. Il compare – quasi sempre il sagrestano o il prete – sta con l’adultera nella casa del contadino, mentre questi è a lavorare nei campi; ma questa è un’infrazione alla rigida etica folklorica, infrazione che verrà immancabilmente punita attraverso l’intervento di un santo, che ritorna sulla terra per attuare direttamente o indirettamente la punizione degli adulteri.
Per quest’ordine di considerazioni, si potrebbe individuare la casa anche come spazio proibito per l’estraneo, concretizzazione dell’esigenza di salvare, in un’esigenza oggettivamente invasa, un margine di autonomia e di libertà.
Per questo rapporto così denso di implicazioni si potrebbe parlare di una umanizzazione della casa; questa non è tanto una res quanto il centro di sicurezza e di riparo. Per cui – anche se ciò può essere visto come razionalizzazione di una condizione di precarietà economica – la casa si costituisce per una essenzialità che consenta lo stare e non per una combinazione o una organizzazione spaziale che consenta un dinamico e articolato svolgersi della vita secondo moduli realistici. Il proverbio già ricordato terri quantu nd’abbisti – casi quantu mu stai indica un diverso rapportarsi alla terra e alla casa; l’una viene recepita come mezzo economico – essenziale in una civiltà agricola – e, in quanto tale, si valorizza nella quantificazione (anche se la ricchezza per il subalterno calabrese è essenzialmente elemento mitico da richiamare a livello simbolico, più che la possibilità realistica, che presupporrebbe una società ad alta mobilità sociale), e quindi è definitivamente cosa, anche se importante, e addirittura fondamentale per la sopravvivenza. L’altra è cosa solo nella sua materialità ma, in quanto umanizzata, in quanto spazio reale che coincide con lo spazio simbolico degli affetti e della memoria (difeso ossessivamente quale ultimo argine rispetto all’invasione esterna e al dominio sociale), non è più soltanto cosa seriale, ripetibile, ma è la cosa, cioè il luogo nel quale l’oppressione di classe trova il suo limite e il controllo sociale una tregua.
Proprio in quanto cosa umanizzata o spessore che consente l’umanità, la casa deve essere protetta come abbiamo visto con mezzi analoghi agli amuleti cui il contadino ricorre per salvare la sua presenza nel mondo.
La casa signorile, invece, si configura nella visione contadina come organizzazione di spazio caratterizzato dalla indistinzione tra essenziale e superfluo. La sua struttura architettonica a diversi piani ripete e materializza la stratificazione sociale, il contadino sale nella casa signorile in un’accezione duplice: realistica e simbolica e viene ammesso in quanto titolare di doveri contrattuali33 e il rapporto tra casa signorile e casa contadina sostanzia il tessuto e la configurazione urbanistica dei paesi meridionali. Il palazzo signorile, a volte incombente e centrale nel paese, altre assente, miticamente distante, si pone in Calabria come coordinatore e polo delle prospettive spaziali, avverate e segnate dalle basse case contadine, pietre miliari del dominio. Nella dinamica narrativa popolare il palazzo signorile viene visto e osservato e si costituisce come un luogo di partenza e di arrivo di tante storie private che formano insieme il senso della storia del paese meridionale. E nel suo interno non più la essenzialità spaziale dello stare, ma la superfluità e la possibilità di una vita senza lavoro. Le camere chiuse34 a testimoniare la superfluità, l’ingresso a decantare e filtrare l’estraneità del visitatore, come un limbo o un diaframma spaziale, la dislocazione delle camere come risposta a una serie di bisogni inessenziali. La casa diventa come la terra – di cui al proverbio precedente – luogo da misurare e con cui misurarsi, privo di quella umanizzazione dolente, disperata e ristretta della casa contadina. La casa signorile, simbolo di status, esercita una funzione di richiamo e si può porre come meta ed è perciò, anche, che, nell’articolazione narrativa, la casa contadina è taciuta, in quanto luogo da abbandonare e luogo da cui partire nella ricerca e nel viaggio che con il ricorso all’astuzia e con l’aiuto di «soccorritori magici» - per esempio il chicco d’uva nella favola in cui il povero riesce a salvare la principessa moribonda e, quindi, ad ottenerne la mano; o in quella in cui il povero con l’aiuto di un cane dotato di poteri magici, uccide l’animale con le sette teste e riesce a sposare la figlia del re35 – condurranno il protagonista da una condizione di miseria a una condizione di ricchezza e tramuteranno la sconfitta sociale di partenza nella vittoria della acquisizione di un diverso e prestigioso status. La casa povera si configura in questi racconti anche come casa cui, a volte, si ritorna nelle fasi dell’azione realistico-magica, e in qualche caso come luogo in cui si ritorna definitivamente alla felice conclusione dell’avventura, per viverla finalmente – e ormai lo si può, in quanto vittoriosi – come luogo della pace, del godimento, della serenità36.
Si intende come la casa nella sua configurazione rifletta l’ideologia della famiglia delle classi subalterne meridionali. Essa si configura, nella cultura folklorica calabrese, come si è detto, come centro degli affetti, come sede della famiglia (tema assoluto e comunità metastorica), come concertazione materiale dei valori fondamentali dell’ethos contadino. Ma essa non è tanto la sede del maschio, quanto della sua famiglia e soprattutto della donna. Si potrebbe sostenere che nella divisione dello spazio contadino connessa alla divisione tra ruolo maschile e ruolo femminile, la casa si ponga essenzialmente come spazio femminile.
«Quando nasce una bambina o un bambino, si suole conficcare un chiodo in una trave della copertura; ciò facendo, il padre del neonato dice: Mentu ‘stu chiovu pe’ sustegnu e pe’ saluti di ‘stu bambinu. E ad ogni lieto evento il chiodo non deve mancare per la buona fortuna del neonato (Dasà) »37. Tale credenza sottolinea come vi sia uno stretto rapporto tra uomo e casa che egli abita. Il chiodo viene conficcato nel legno, ma lo è «per sostegno e per salute di questo bambino». Vi è, cioè, una precisa identificazione bambino-casa, attraverso il principio dell’analogia magica. L’orizzonte magico è richiamato, anche, da tutte quelle credenze secondo le quali «quando entra in casa ‘u vespuni, si crede che sia di buono augurio, onde il proverbio. Quando intra lu vespuni, - bona nova allu patruni. (Umbriatico). […] Quando entra in casa un calabrone di color rosso, si crede sia indizio di buona fortuna, perché si pensa che esso è d’a Madonna di la Rumania; come pure è lieto presagio ‘u lapuni niru (calabrone nero) perché è di San Francesco e, quando uno di questi entra in casa, i presenti si inginocchiano (Tropea). Quando entra in casa una lucertola piccola, credesi di buon auspicio e viene chiamata ‘a miriana d’’a casa (Tropea)»38. Tali credenze testimoniano l’esigenza di stendere tra il caos dell’esistenza, minaccioso e incombente, e l’individuo modelli protettivi e schemi interpretativi di una realtà che altrimenti resterebbe ostile ed enigmatica.
Nelle credenze riportate l’esigenza protettiva si distende in uno spazio che è già, a sua volta, spazio difeso, struttura difensiva: la casa. Questa svolge, come è ovvio, la funzione di difesa delle intemperie, del rigore del clima, dalle asprezze della fatica, dai pericoli della «natura», dalle insidie degli altri (alla scarsezza dei beni elementari corrisponde proporzionalmente la paura dello sguardo invidioso degli altri: Ad ogni sipaleja – Nc’ è ‘na sentineja – vicino ad ogni siepe c’è una «sentinella») e svolge anche la funzione di difesa dalle forze del male, dagli spiriti maligni. Sui tetti di molte costruzioni sono posti recipienti, in genere anfore di terracotta, o sui muri sono infissi o appesi ferri di cavallo, corna, maschere, forbici o una grattugia. E’ evidente la funzione apotropaica di tali oggetti che tengono lontano le forze ostili, le fermano creando nell’universo dell’ostilità, l’isola di solidarietà.
La casa è la struttura di riferimento di tutti gli appartenenti al nucleo familiare, siano essi viventi o defunti. Anche i defunti, infatti, continuano, anche se con ruoli e obblighi differenziati rispetto ai viventi, a far parte della famiglia. Essi sono presenti nelle loro case in numerosissime fotografie appese ai muri o poggiate sui mobili con il lumino davanti o conficcate tra il legno e il vetro della «cristalliera».
L’esperienza della precarietà, dell’invasione e del dominio come tratto comune alle storie familiari porta anche ad una «difesa» simbolica del paese, che conferisce e testimonia una concezione del tempo e dello spazio come concezione magico-religiosa. Il paese è chiuso dal Calvario, piccolo monumento a tre o cinque nicchie su cui sono raffigurate scene della passione di Cristo.
Ha come significato generale una funzione protettiva e segna pertanto un preciso limite urbanistico, delineando una definizione dialettica dello spazio «urbano» e di quello «extraurbano». Quando si verificano esigenze di ristrutturazione dell’abitato, il Calvario viene spostato, come è accaduto a Fitili. Lo spazio «urbano» è uno spazio protetto nel segno del dolore di Cristo, è lo spazio della famiglia (casa), dei rapporti umani, del riposo, della festa, della morte. Il cimitero è il paese dei morti, posto al di là del Calvario: tra i due paesi una continuità di memoria e di credenze che fanno la totalità drammatica della storia39. Andare al di là ad abitare vorrebbe dire rompere un equilibrio culturale, intaccare non soltanto gli assetti e gli esiti urbanistici, ma anche e soprattutto gli archetipi culturali profondi (il turismo ha rotto infatti questi equilibri, come è accaduto a Tropea, dove è sorto un grande albergo al di là del cimitero, allo spazio sacralizzato segue lo spazio mercificato). Lo spazio resta così scoperto ed è necessario pertanto stendere sulle singole azioni o cose lo schermo più intensamente protettivo della magia, che, specificando sino al dettaglio le modalità da seguire o quelle rigorosamente vietate, sottrae alla minaccia dell’ignoto anche l’ulteriore spazio, al di là del paese. Ma l’orizzonte magico, proprio in quanto schema protettivo, non può non inglobare tutta l’esistenza e quindi tutti gli spazi; a un più profondo livello di analisi la stessa religiosità popolare si rivela, quindi, un elemento di un più ampio orizzonte magico, in cui il rapporto con il trascendente si risolve in tecniche, a loro modo realistiche, di costrizione e di propiziazione del divino, in rapporto di reciproca condizionalità con la struttura della civiltà agraria.
NOTE
1 Cfr. G. M. Galanti, Giornale di viaggio in Calabria (1792), ed. critica a cura di A. Placanica, Napoli 1981, pp. 229-35; per le citazioni v., rispettivamente, pp. 231, 230, 232, 229. Va precisato, come rileva A. Placanica nel saggio introduttivo, che la descrizione presenta alcune contraddizioni: «del territorio di Tropea in un primo momento si dice che ‘è uno dei meglio coltivati della Calabria’, ma poco dopo si afferma che ‘l’agricoltura è in pessimo stato’», pp. 29-30.
2 Cfr. Divisione dei Distretti del Regno, e dei Governi compresi in ciascuno di essi, in «Monitore napolitano», n. 85 del 19-12-1806; U. Caldora, Calabria Napoleonica (1806-1815), Napoli 1960, p. 36.
3 L. Gambi, Calabria, vol. 16° della collezione «Le regioni d’Italia», Torino 1965, p. 31.
4 Ibid., cartina dimostrativa sullo «sviluppo delle ferrovie e delle strade carrozzabili principali, fino al 1920», p. 400.
5 Per notizie riguardanti il territorio demaniale di Tropea cfr.: G. Barrio, De Antiquitate et situ Calabriae, Roma 1571; G. Marafioti, Croniche et antichità di Calabria, Padova 1601; G. Fiore, Della Calabria Illustrata, tomi II, Napoli, tomo I 1691, tomo II 1743; F. Sergio, Chronologica collectanea de civitate Tropea eiusque territorio, libri III, Tropea, manoscritto del 1720; T. Aceti, In Gabrielis Barrii libros quinque prolegomena, Roma 1737; G. M. Galanti, Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie, Napoli 1790; Id., Giornale di viaggio in Calabria (1792), cit.; L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, voll. 10, Napoli 1797-1804; D. Taccone Gallucci, Memorie di storia calabra ecclesiastica, Reggio Calabria 1887; N. Scrugli, Notizie archeologiche e storiche di Port’ercole e Tropea, Napoli 1891; D. Taccone Gallucci, Cronotassi dei Metropolitani, Arcivescovi e Vescovi della Calabria, Tropea, 1902; Id., Epigrafi cristiani del Bruzio (Calabria), Reggio Calabria 1905; U Caldora, op. cit.; E. Pontieri, Divagazioni storiche e storiografiche, Napoli 1960; Id., la Calabria a metà del secolo XV e la rivolta di Antonio Centelles, collez. Storica per la Deputaz. Di Storia Patria per la Calabria, vol. IV, Napoli 1963.
6 Per le forme di insediamento, cfr. L. Gambi, Calabria, cit., capitolo ottavo, pp. 253-84.
7 B. Spano, Le case degli agglomerati compatti nell’Italia meridionale, in La casa rurale in Italia, a cura di G. Barbieri e L. Gambi, vol. 29 delle «Ricerche sulle dimore rurali in Italia», Firenze 1970, p. 309.
8 Per le colture e le attività mercantili e artigianali nel secolo XVIII cfr. F. Sergio, op. cit., capitoli VI, VIII, XIII.
9 Cfr. L. Lacquaniti, Le case rurali e le capanne del monte Poro in Calabria, in «Atti del XVII Congresso di Geografia Italiana», vol. III, Bari 1957.
10 Per i contratti agrari cfr. J. Meyriat (a cura di), La Calabria, Milano 1961, pp. 213-19; L. M. Lombardi Satriani e M. Meligrana, Diritto egemone e diritto popolare, Vibo Valentia 1975, pp. 242-82 e 313-45.
11 Cfr. F. Toraldo, Il sedile e la nobiltà di Tropea, Pitigliano 1898, II ed., Tropea 1916.
12 Per una trattazione più dettagliata sull’assetto amministrativo ed economico e sull’aspetto architettonico di Tropea, oltre alle opere già citate nella nota 5, cfr. V. Capialbi, Memorie per servire alla storia della Santa Chiesa Tropeana, Napoli 1852; M. Paladini, Notizie storiche sulla città di Tropea, Catania 1930; A. Frangipane, L’arte in Calabria, Messina, s. d.; per la tessitura e la lavorazione del ferro battuto cfr. anche A. Frangipane, Nobiltà Artigiana, in AA.VV., Capire la Calabria, Milano 1957.
13 Per le attività commerciali di Parghelia v. G. M. Galanti, Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie, cit., vol. II, p. 330; Id., Giornale di viaggio in Calabria (1792), cit., p. 230; A. De Custine, Mémoires et voyages, Paris 1830, vol. I, p. 379; U. Caldora, op. cit., p. 326; per l’aspetto architettonico e le attività artigianali, quali tessitura, lavorazione della pietra e del ferro, v. F. Sergio, op. cit., pp. 60-71; C. Botta, Storia d’Italia continuata da quella di F. Guicciardini, Milano 1844, vol. VIII, libro 49°, p. 224; «Brutium», anno III, n. 6, 1924; A. Frangipane, L’arte in Calabria, cit., p. 30; Id., Nobiltà Artigiana, cit., pp. 176-80.
14 E’ opportuno sottolineare che la «qualité caractéristique du batiment indigène est qu’il permet l’agrandissement […]. C’est cette qualité qui permet aux batiments indigène de supporter des changements et des additions», A. Rapoport, Pour une Anthropologie de le Maison, Paris 1972, pp. 7-8; ma, mentre le strutture abitative interne ai paesi consentono l’«agrandissement» in senso verticale, quelle esterne lo consentono sul piano orizzontale.
15 A questo proposito cfr. B. Spano, op. cit., pp. 314-15; si può ricordare quanto osserva Rapoport quando nota che «la tradition populaire, d’autre part, est la traduction directe et non consciente d’une culture sous la forme matérielle, de ses besoins, de ses valeurs – aussi bien que des désirs, reves et passions d’un peuple. C’est une conception du monde écrite en italiques; c’est l’entourage idéal d’un peuple qui s’exprime dans les constructions et dans l’habitat, sans l’intervention d’architectes, artistes ou décorateurs agissant dans un but déterminé (bien qu’on puisse discuter le point de savoir si l’architecte est réellement un ‘créateur’ de forme). La tradition populaire a des liens beauque la haute tradition architecturale qui représent la culture de l’élite. La tradition populaire constitue aussi la majeure partie de l’environnement bati»; A. Rapoport, op. cit., p. 3.
16 B. Spano, op. cit., p. 315.
17 Ivi, p. 317.
18 Ivi, p. 315.
19 La classificazione di «centri inerpicati», «centri adagiati» e «centri infossati» è di B. Spano, op. cit., p. 317; tali classificazioni, ovviamente, sono da riferirsi a considerazioni generali, non sempre valide o applicabili in situazioni particolari.
20 I terremoti più disastrosi per la nostra zona sono stati quelli del 1783 e del 1905; cfr., fra gli altri, O. Colace, Dialoghi intorno a’ tremuoti di quest’anno 1783 Napoli 1783; F. A. Grimaldi, Descrizione de’ tremuoti accaduti nelle Calabrie nel 1783, Napoli 1784; M. Baratta, I terremoti d’Italia, Torino 1901. Per la ricostruzione dei paesi cfr., ad esempio, P. Maretto, Edificazioni tardo-settecentesche nella Calabria meridionale, in «Studi e documenti di Architettura», n. 5, 1975.
21 Per la funzione svolta da tali spazi quali luoghi d’incontri, di riunione, di relazioni, si veda il saggio di M. Minicuci, che, prendendo in esame la comunità di Zaccanopoli, ne analizza gli spazi infantili, femminili e maschili e in genere gli spazi «vissuti»; cfr. M. Minicuci, «Il disordine ordinato». L’organizzazione dello spazio in un villaggio rurale calabrese, in «Storia della città», n. 24, anno VIII, 1983, pp. 93-118.
22 L’analisi dello spazio e delle architetture non è più da tempo, ormai, esclusivo appannaggio di urbanisti e architetti, ma anche di sociologi, psicologi, fenomenologi, antropologi, etc, vale a dire di studiosi delle scienze umane. A questo proposito si veda il volume di T. Bettanini, Spazio e scienze umane, Firenze 1976.
Per quanto concerne la problematica dello spazio rurale, in particolare dello spazio vissuto, si veda, a parte le opere dei geografi e degli storici francesi, A. Fremont, La regione. Uno spazio per vivere, Milano 1981.
L’antropologia ha privilegiato nell’analisi dell’organizzazione dello spazio, costruito e non, la ricerca dell’ordine cosmogonico o comunque di un ordine simbolico, magico e/o religioso, come testimonia abbondantemente la letteratura etno-antropologica, soprattutto quella relativa ai paesi extra-europei. Per la Calabria si veda F. Faeta, Territorio, angoscia, rito nel mondo popolare calabrese. Le processioni di Caulonia, in «Storia della città», n. 8, anno III, 1978, pp. 4-32; F. Faeta, M. Malabotti, Imago mortis, simboli e rituali della morte nella cultura popolare dell’Italia meridionale, Roma 1980; L. M. Lombardi Satriani, M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, Milano 1982, in particolare il cap I, Ideologia della morte e organizzazione dello spazio, pp. 11-120.
23 Sul rapporto tra residenza, strutture di parentela e modalità di trasmissione del patrimonio a Zaccanopoli, uno dei paesi della zona presa in esame, cfr. M. Minicuci, Le strategie matrimoniali in una comunità calabrese, Soveria Mannelli 1981; Id., «Il disordine ordinato». L’organizzazione dello spazio in un villaggio rurale calabrese, cit.
24 A questo proposito si vedano, a titolo esemplificativo, E. Guidoni, Architettura primitiva, Milano 1979; Id., L’architettura popolare italiana, Roma-Bari 1980; AA.VV., Antropologia della casa, Lanciano 1981.
25 R. Lombardi Satriani, Proverbi in uso in San Costantino di Briatico, Monteleone 1913, 2a ed. Messina 1969, p. 138; la citazione è dalla 2a edizione.
26 Ivi, rispettivamente p. 195, p. 52.
27 L. Gambi, op. cit., p. 433.
28 L. Lacquaniti, Le case rurali e le capanne del monte Poro in Calabria, cit., p. 90.
29 P. Marconi, voce Rustica, Architettura, in Enciclopedia Italiana, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1949, vol. XXX, p. 334.
30 R. Martelli, I materiali e gli elementi costruttivi, in La casa rurale in Italia, cit., p. 37.
31 G. Valussi, La casa rurale nella Sicilia occidentale, vol. 24° delle «Ricerche sulle dimore rurali in Italia», Firenze 1968, pp. 20-2.
32 R. Biasutti, L’abitazione nelle regioni aride e polari, voce Abitazione, in Enciclopedia Italiana, cit., vol. I, p. 85.
33 Cfr, ad esempio, R. Lombardi Satriani, Racconti popolari calabresi, vol. IV, Cosenza 1963, p. 87.
34 Ivi, p. 167.
35 Id., Racconti popolari calabresi, vol. I, Napoli 1953, p. 90.
36 Ivi, p. 69.
37 Id., Credenze popolari calabresi, Messina 19702, p. 23.
38 Ivi, p. 51.
39 Per un’analisi di come «l’organizzazione territoriale del paese meridionale si presenti segnata profondamente dall’ideologia della morte, che ne scandisce strutture e modalità e orienta significati fino a configurare una simbolica città sepolta, polo dialettico della città dei viventi», si veda L. M. Lombardi Satriani, M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, cit., cap. I.