La Galea
di Angelo Jachino (1971)
La galea esisteva da almeno sei secoli nel Mediterraneo, sia pure con alcune varianti nelle dimensioni e nell'armamento; il suo nome proveniva dal greco galeas (pesce spada). Nel secolo di Lepanto, la galea era una nave sottile in legno, di circa 300 T. di dislocamento, completamente pontata da prora a poppa, con circa 1,5 m. di opera morta e circa 1 m. di pescagione, lunga da 40 a 50 m. e larga circa 6. Sulla coperta erano sistemati i banchi dei rematori (da 26 a 30 su ogni lato), ciascuno con un lungo remo, maneggiato da 3 uomini; gli scalmi dei remi erano fissati su una costruzione rettangolare in legno, detta posticcio, che sovrastava e proteggeva i vogatori. Nei primi tempi, sul posticcio venivano sistemati gli scudi delle fanterie, o pavesi, per cui tutta la struttura protettiva era chiamata inpavesata. Bisogna tener presente che l'armamento principale di ogni galea era costituito dai soldati che vi erano imbarcati e che andavano all'assalto della galea nemica, subito dopo che essa era stata investita con lo sperone. Il piccolo numero di cannoni di bronzo e di breve gettata, che ogni galea portava sulla prora, era soltanto un armamento ausiliario, che veniva impiegato in genere una sola volta, poco prima dell'abbordaggio. In quell'epoca, le artiglierie di bordo erano tutte ad avancarica e non si potevano brandeggiare, cosicchè, per puntarle sulla nave nemica, bisognava manovrare la propria col timone. Tra i vogatori di dritta e di sinistra della galea, a un metro di altezza sulla coperta, correva da prora a poppa la cosidetta corsia, larga circa due metri, che consentiva il passaggio degli uomini della rembata (la piazzuola prodiera dove stavano i soldati pronti per l'arrembaggio) al castello di poppa, che era protetto da una paratia resistente e dove stava il comando della galea. Questo castello, alto sulla corsia e protetto da una tettoia, custodiva in una chiesuola la bussola e tutti gli strumenti necesari per la navigazione; esso era la parte più nobile della galea, poichè vi stava normalmente il comandante ed eventualmente l'ammiraglio; esso veniva perciò decorato riccamente e ricoperto da un ampio tendale di seta e di panno con sopra ricamati stemmi, emblemi araldici e disegli allegorici ornamentali. La prora della galea si affinava in un acuminato sperone in legno duro, lungo circa 6 m., alto poco più di un metro sul galleggiamento (nelle vecchie trireme dell'antica Roma esso era invece completamente immerso) e destinato, nell'abbordaggio, a sfondare la prora e i fianchi della galea nemica. Più tardi, con l'avvento di artiglierie più potenti, lo sperone non fu più utilizzato e si trasformò in bompresso per la manovra della vela prodiera, ornato con figure allegoriche (polene). Nella parte prodiera della galea erano disposti i cannoni per battere l'unità nemica nella fase dell'avvicinamento prima dell'urto. Le galee del XVI secolo avevano un equipaggio di due o trecento uomini, dei quali circa due terzi alla voga. Il comandante (sopracomito nella Marina veneta) apparteneva quasi sempre all'aristocrazia e aveva due o più giovani nobili alle sue dirette dipendenze, oltre al cosidetto padrone e al cappellano. Tutti costoro non avevano generalmente alcuna esperienza di mare e di navigazione. La condotta della nave in mare era perciò affidata a un comito e a due sottocomiti, che erano gente del mestiere, al pilota e a una trentina di marinai, addestrati alla manovra dei pennoni e delle vele, oltre che al maneggio degli alighieri, cioè dei ganci di accosto per l'abbordaggio. In tempo di guerra, si imbarcavano su ogni galera da 100 a 150 soldati, che, al comando di un capitano e di altri ufficiali, si raccoglievano sulla rembata, pronti ad abbordare l'unità nemica e respingere gli attacchi dei suoi armati. I soldati erano protetti da elmo e corazza e armati con archibugi, spade, mazze, lance e coltellacci. I soldati turchi (che generalmente erano truppe scelte come i famosi giannizzeri) non portavano invece corazza e impiegavano di preferenza archi e frecce, con risultati paragonabili a quelli degli archibugi. Inizialmente i vogatori delle galee erano uomini liberi, come il resto dell'equipaggio; ma ben presto furono sostituiti da schiavi prigionieri di guerra e da condannati, i quali, in navigazione, erano tenuti incatenati al banco di voga. Vi era però quasi sempre, su ogni galea, un gruppo di rematori liberi, volontari e perciò chiamati bonavoglie, che, come distintivo, portavano i baffi, mentre i condannati avevano testa e viso completamente rasati; gli schiavi portavano in più, al sommo della testa, un caratteristico ciuffo di capelli. Le bonavoglie non erano tenute incatenate al remo, anzi di giorno godevano di una certa libertà e, in porto, potevano talora avere anche il permesso di scendere a terra.
Quando la galea era in disarmo, rimanevano a bordo il comito, il sottocomito e l'aguzzino; le bonavoglie venivano sbarcate, mentre i galeotti rimanevano a bordo, sempre incatenati, ma con maggiore spazio a loro disposizione. Solo quando, d'inverno, la galea veniva per vari mesi disarmata completamente, tutto il personale era sbarcato e i galeotti erano rinchiusi in una darsena a terra. La vita a bordo di una galea era quanto mai penosa; basta pensare che, in uno spazio di poco più di 300 metri quadri, doveva vivere un mezzo migliaio di uomini, esposti giorno e notte alle intemperie, senza protezione adeguata dal torrido sole d'estate e dai freddi piovaschi d'inverno, e spesso investiti dalle ondate di tempo cattivo su una fragile imbarcazione di due o trecento tonnellate di dislocamento e di assai discutibili qualità marinaresche. In navigazione, la vita su una galea era dura per tutti, comandante, ufficiali ed equipaggio; ma era durissima per i condannati al remo, legati continuamente con la catena al banco di voga, senza potersi mai distendere per dormire o riposare. L'igiene di bordo era poi trascuratissima: l'equipaggio e specialmente i galeotti erano continuamente infestati da parassiti di ogni genere e da malattie, che spesso degeneravano in pericolose epidemie. Data la scarsità dell'acqua dolce a bordo, i galeotti si lavavano, e non tutti i giorni, con acqua di mare e sabbia. In porto, essi facevano i loro bisogni accoccolandosi sul parapetto esterno e senza staccarsi dalla catena; in navigazione, li facevano invece sotto lo stesso banco di voga, e allora i sorveglianti provvedevano a una sommaria pulizia locale con grandi bugliolate di acqua di mare. Sulle galee quindi vi era un permanente e terribile fetore, specialmente d'estate e tutto il personale doveva riempirsi le nari di tabacco per combattere quelle insopportabili esalazioni. Le malattie poi si diffondevano facilmente a bordo, sia per la mancanza di dottori e di cure adeguate, sia perchè la resistenza fisica degli uomini era molto ridotta a causa del vitto spesso insufficiente. La razione giornaliera dell'equipaggio di una galea era di due libbre di biscotto, una di carne fresca o mezza di carne salata, mezza di formaggio, una pinta di vino e un'oncia d'olio; però la carne era servita solo tre volte la settimana. Gli ufficiali, i timonieri e le maestranze di bordo avevano una doppia razione, i marinai scelti una razione e mezza. I galeotti e gli schiavi al remo avevano invece una miserabile razione di trenta once di biscotto e niente carne; nelle feste principali ricevevano in più una caponata e un poco di vino. Il vitto di quei poveri diavoli era quindi molto scarso e del tutto insufficiente a sostenere a lungo la bestiale fatica, cui erano sottoposti in navigazione, obbligati com'erano a vogare per ore e ore, spesso per giorni interi, quando non si potevano alzare le vele perchè il vento mancava o era contrario. La voga era diretta dal comito e dall'aguzzino, i quali vigilavano continuamente lungo la corsia centrale e scudisciavano a sangue i vogatori poco zelanti, infierendo su quelli che si mostravano più fiacchi. Qualcuno di questi finiva per cadere svenuto sotto il banco e talvolta le staffilate non bastavano a farlo rinvenire; se moriva (il che avveniva non di rado), il cadavere veniva senz'altro gettato a mare. Qualunque mancanza da parte di un galeotto veniva subito punita duramente; la pena più comune era la fustigazione, eseguita sullo stesso banco di voga da un altro galeotto sotto la sorveglianza dell'aguzzino, che a sua volta frustava a sangue il fustigatore, se quest'ultimo non dimostrava sufficiente zelo punitivo.
Date queste condizioni di vita, se tale si può chiamare quella dei galeotti, è ben naturale che essi cercassero di evadere; qualche volta ci riuscivano, di notte in porto, ma l'aguzzino era pecuniariamente responsabile di ogni evasione e il marinaio di guardia che non l'aveva impedita veniva condannato al remo al posto del fuggitivo e per lo stesso numero di anni. I compagni di banco dell'evaso, che non avevano denunciato in tempo il tentativo di evasione, venivano poi puniti col taglio del naso e delle orecchie. Sotto il ponte di coperta della galea (cioè quello dove stavano i vogatori) si stendeva, da poppa a prora, la stiva, suddivisa in sei o più locali, separati da paratie trasversali e privi di qualunque apertura verso l'esterno. In questi locali, ben scarsamente aereati, gli uomini dell'equipaggio si stendevano per dormire quando erano in porto e quando, in navigazione, non erano di guardia. La stessa stiva serviva come deposito di viveri e di acqua, oltre che di munizioni, di cordami e vele di ricambio; vi era inoltre un locale riservato al barbiere, che era il medico di bordo.
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Uffizi. Baccio del Bianco (1626-1627). Combattimento fra una galeazza e due galere. Disegno a penna e inchiostro bruno su carta.
Le flotte di galee del XVI secolo contavano spesso 200 o più unità, che, quando navigavano riunite, si disponevano in colonne parallele con le unità di ogni colonna in linea di fila. Per il combattimento invece, le galee si schieravano fianco a fianco su una linea di fronte leggermente incurvata a mezzaluna, con la concavità rivolta verso la flotta nemica, che si avvicinava con la stessa formazione e su rotta opposta. Questa formazione iniziale di combattimento era logica, poichè in essa ogni galea risultava protetta sui fianchi dalle due adiacenti e non esponeva così alle offese nemiche le sue parti più vulnerabili, cioè il palamento dei remi (l'apparato motore) e i rematori (la forza motrice). Inoltre questa formazione faceva sì che ogni galea presentava al nemico la prora, cioè la sua parte più resistente alle offese e meglio armata, grazie alla presenza dello sperone e dei cannoni. A proposito di questi ultimi, va però ripetuto che le artiglierie dell'epoca avevano una gettata assai limitata e un lento ritmo di fuoco; esse venivano perciò impiegate a distanza molto ravvicinata, in modo da infliggere il massimo dei danni materiali e di perdite umane alla galea nemica, poco prima di investirla con lo sperone e abbordarla con i soldati. Al centro della formazione, schierata in linea di fronte per il combattimento, si trovava la galea del Comandante in capo, che si chiamava la Reale se vi era imbarcato il Sovrano o un suo rappresentante. La galea, dove era invece imbarcato l'ammiraglio, o, come si diceva a Venezia, il Capitano generale da Mar, si chiamava la Capitana e, per farsi riconoscere, portava sulla poppa tre alti fanali, riccamente decorati. Ai due estremi dello schieramento si trovavano le galee dei due Capi più elevati in grado dopo il Capitano Generale; essi avevano il compito di difendere le ali della formazione dai tentativi di aggiramento del nemico e tentare invece di aggirare le sue ali estreme; queste galee si riconoscevano perchè portavano, a poppa, un grande fanale. In generale, lo schieramento comprendeva un gruppo di galee centrale, due gruppi di galee sui due lati e uno di riserva in posizione arretrata. Fra i vari gruppi esisteva generalmente una distanza di circa 80 metri, mentre le galee di ogni gruppo navigavano il più vicine possibile tra di loro, compatibilmente con l'uso dei remi (circa 20 m. l'una dall'altra), in modo da potersi aiutare in caso di bisogno, e da impedire infiltrazioni di galee nemiche. Nello stesso tempo, questa formazione serrata permetteva la sorveglianza reciproca fra le galee vicine, intesa a evitare defezione, quali talvolta avvenivano tra le galee alleate o, più spesso, tra quelle degli assentisti.
Uffizi. Baccio del Bianco (1626-1627). Gruppo di galere in porto con barche e un galeone sullo sfondo”. Disegno a penna e inchiostro bruno su carta.
Lo scontro di due flotte di galee era un evento molto complesso e veramente drammatico; anche se inizialmente, per evitare che le unità perdessero il contatto e non si potessero aiutare tra di loro, le due formazioni si mantenevano piuttosto rigide, esse, nel calore del combattimento, venivano presto a scompaginarsi, dando luogo a mischie tumultuose e confuse. Mentre le due linee frontali si gettavano l'una contro l'altra, facendo forza sui remi fino a raggiungere velocità di 7 o 8 nodi (le vele, in combattimento, erano sempre ammainate), gli equipaggi e i soldati delle galee si eccitavano a gran voce alla battaglia fra il clangore delle trombe e il fragore delle armi da fuoco fino al momento in cui ogni unità si veniva a scontrare con quella nemica che si trovava di fronte. Lo sperone era destinato a sfondare l'opera morta dell'unità nemica, cioè l'incastellatura di prora o il posticcio sui fianchi. Dopo lo scontro, le due unità si avvinghiavano l'una all'altra a mezzo degli alighieri (ganci d'accosto) e continuavano a colpirsi con proiettili e frecce fino al momento in cui le fanterie potevano lanciarsi all'abbordaggio, trasformando così il combattimento navale in qualcosa di simile a un combattimento terrestre. Dopo un avvicendarsi di attacchi e di contrattacchi, la battaglia si conchiudeva col prevalere dei soldati dell'una o dell'altra parte, che prendevano possesso della galea nemica, uccidendo o buttando a mare fanti ed equipaggio avversari. La galea soccombente veniva presa e rimorchiata via come preda di guerra, se non era stata prima affondata o incendiata. In sostanza, non si poteva, in quell'epoca, parlare di una vera e propria tattica navale, in quanto i combattimenti fra le galee somigliavano molto a quelli campali terrestri; la vittoria era infatti determinata dalla superiorità numerica e dall'ardore combattivo dei soldati, più che dalla capacità manovriera dei comandanti delle galee. Tuttavia sull'esito di uno scontro in mare influiva anche l'abilità con cui l'ala di una flotta riusciva eventualmente ad aggirare la corrispondente ala della flotta nemica, creando una superiorità numerica locale e superando così la resistenza nemica. Abbiamo finora parlato soltanto di galee, ma le flotte del XVI secolo erano composte anche di altre unità, di minore dimensioni, più veloci e più maneggevoli, come le galeotte, le fuste, le fregate e i brigantini, tutte unità leggere destinate al servizio di ricognizione a distanza, a mantenere i collegamenti fra i vari gruppi della flotta in navigazione, e a portare messaggi a comandi distaccati. Tuttavia le galeotte prendevano spesso parte al combattimento a fianco delle galee, specialmente nelle flotte dei corsari barbareschi. Oltre a queste unità minori, le flotte veneziane avevano quasi sempre anche un piccolo numero di galeazze, unità di dimensioni alquanto maggiori delle galee (dislocavano 1.500 T. circa) e di tipo intermedio tra i legni a remi e quelli a vela.
Uffizi. Baccio del Bianco (1626-1627). Galera andata in costa. Disegno a penna e inchiostro bruno su carta.
In seguito alle oservazioni di Don Giovanni, Sebastiano Veniero fece qualcosa per migliorare lo stato delle proprie galee e specialmente di quelle giunte da Candia in disordine. Alla fine, accettò anche, se pur malvolentieri, di imbarcare truppe italiane e spagnole per rinforzare il numero di quelle venete, che era veramente un pò scarso. Con tutto ciò, alla partenza di Messina, i soldati imbarcati su ogni galea veneziana non superavano in media il numero di cento. Questi contrasti sullo stato e sull'armamento delle galee fornite alla Lega di Venezia finirono per rendere poco cordiali a Messina i rapporti tra Spagnoli e Veneti e a creare fra loro spiacevoli screzi, che culminarono venti giorni dopo, nel porto di Gomenizza, in un increscioso incidente a bordo di una galea veneziana (ndr: alcuni dei soldati veneziani rimasero uccisi e Sebastiano Veniero per ristabilire l'ordine e la disciplina, dopo un giudizio sommario, fece impiccare un capitano e tre soldati spagnoli). I rapporti tra Veniero e Don Giovanni ne vennero a soffrire, tanto che i due Capi evitarono di incontrarsi da quel giorno fino a dopo la vittoria di Lepanto. La partena della flotta da Messina venne confermata per il 16 settembre dopo che furono arrivate le prime informazioni sulla forza e sulla dislocazione della flotta ottomana. Si venne infatti a sapere che essa era tutta riunita nella importante base navale di Lepanto (golfo di Corinto) e che era costituita di un numero di galee di poco superiore a quello della flotta cristiana, ma di dimensioni e potenza minori. Queste notizie rafforzarono in Don Giovanni e nei Capi italiani la decisione di muovere senza ritardo incontro al nemico; e infatti, la mattina del 16 settembre, tutta la flotta cristiana uscì dal porto di Messina, defilando a breve distanza da un brigantino, dal quale, all'estremità del molo foraneo, Mons. Odescalchi impartiva solennemente la benedizione papale a tutte le unità, man mano che passavano. Le galee rispondevano, con gli equipaggi inginocchiati, ammainando i pennoni, in segno di omaggio devoto. Prima di partire da Messina, ogni comandante di galea ricevette dal Comandante in capo un memorandum con le disposizioni per la navigazione e per il combattimento. Secondo una norma molto saggia, si evitò di riunire le galee in gruppi a seconda della loro nazionalità, si rinunciò cioè a suddividere le 208 galee della flotta in tre Squadre, una pontificia, una spagnola e una veneziana, e si preferì ripartire la formazione di combattimento in cinque gruppi: un'ala sinistra, un corpo centrale e un'ala destra, oltre a una avanguardia e a un corpo di riserva. In ognuno di questi cinque gruppi, le galee delle varie nazionalità erano mischiate tra loro, in modo da evitare possibili rivalità nazionalistiche ed eventuali manifestazioni di indipendenza o addirittura di abbandono del campo, come si era verificato qualche volta, nel passato. L'avanguardia, al comando di Don Juan de Cardona fiu quindi composta da otto galee, quattro di Sicilia e quattro di Venezia; esse, in caso di incontro col nemico, dovevano ripiegare sul grosso e disporsi tra il gruppo centrale e l'ala destra della flotta. L'ala sinistra, al comando di Agostino Barbarigo, era formata da 52 galee, distinte da un guidone (bandierina triangolare) giallo; 41 di esse erano veneziane, 7 di Napoli, 3 di assentisti genovesi, e una del Papa. Il gruppo centrale, al comando diretto di Don Giovanni, era costituito da 64 galee, distinte da un guidone blu in testa d'albero: 27 erano veneziane, 9 spagnole, 4 di Napoli, 7 del Papa, 6 di G. A. Doria, 3 di Malta, una di Savoia, 5 di Genova e 2 di assentisti genovesi. L'ala destra, al comando di Gian Andrea Doria, era composta di 52 galee, che portavano un guidone verde in testa d'albero e delle quali 25 erano veneziane, 6 di Napoli, 5 di Sicilia, 5 del Doria, 2 di Savoia, 2 pontificie, una di Genova e 5 di assentisti genovesi. Infine il corpo di riserva, al comando del marchese di Santa Cruz e distinto da un guidone bianco, contava 31 galee, di cui 12 di Napoli, 2 di Sicilia, 3 spagnole, 11 veneziane e 3 del Papa. La galea Reale, dove era Don Giovanni, e le galee Capitane dei vari gruppi portavano in testa d'albero, in luogo delle bandierine distintive, lunghe fiamme dello stesso colore. Le sei galeazze veneziane, al comando di Francesco Duodo, non avevano bisogno di ditintivi, date le loro maggiori dimensioni; esse navigavano in un gruppo autonomo fuori formazione, per approfittare di ogni favorevole occasione di spiegare le vele, data la loro scarsa mobilità con i remi. Spesso, se il vento era contrario e il mare agitato, bisognava incaricare qualche galea di prenderle a rimorchio. Durante la navigazione, l'avanguardia precedeva il grosso di una trentina di miglia (ridotte a 10 durante la notte); seguivano, a circa 7 miglia di distanza l'una dall'altra, la Squadra verde del Doria (cioè l'ala destra della formazione di combattimento) la blu di Don Giovanni (il corpo centrale) e infine la gialla di Barbarigo (cioè l'ala sinistra). Ciascuna di queste tre Squadre navigava su quattro colonne parallele e, nella stessa formazione, seguiva, a sei miglia di distanza, il gruppo di riserva. Fuori formazione, e a più grande distanza, navigavano a vela (non avevano remi) le navi onerarie, che dovevano tenersi lontane dal campo di battaglia. A tutti i comandanti erani state distribuite le norme generali per la navigazione, per le segnalazioni di giorno e di notte e per il combattimento. Tutto era stato previsto con ogni cura onde evitare equivoci e far tacere le animosità esistenti tra le varie nazionalità, che componevano la flotta. Era questo infatti il punto debole della Lega cristiana, e cioè la fatale mancanza di coesione spirituale in una massa così numerosa di bastimenti di diversa nazionalità, riuniti per la prima volta nell'imminenza dell'incontro col nemico. La battaglia di Lepanto fu una battaglia consensuale, cioè voluta da ambedue le flotte, dato che tanto i turchi quanto i cristiani ritenevano di essere superiori di forze all'avversario; tuttavia, in pratica, lo scontro ebbe luogo di sorpresa poichè, dati gli insufficienti mezzi di esplorazione dell'epoca, nè da una parte nè dall'altra si sapeva con precisione dove era l'avversario. Avvenne così che quando, il mattino del 7 ottobre, al sorgere del sole, le due flotte, in assetto di navigazione, si avvistarono a poco più di 10 miglia di distanza fra loro, al largo di Punta Scropha, esse ne furono ambedue sorprese. Si affrettarono tuttavia subito a prepararsi per il combattimento; e don Giovanni fece alzare sulla galea reale, appoggiandola con un colpo di cannone, la grande bandiera bianca che ordinava alle sue unità di schierarsi al più presto in linea di fronte per la battaglia.