ED UNA INCURSIONE BARBARESCA
di Domenico Taccone Gallucci
Fra gli scrittori Calabresi, il primo che abbia fatto cenno del villaggio di S. Domenica presso la città di Tropea fu l'erudito Gabriele Barrio da Francica, alla metà del secolo decimosesto. Egli era un valente latinista e storico, addetto in Roma alla corte del nostro famoso Card. Guglielmo Sirleto e del Card. Giulio Antonio Santoro Arcivescovo di S. Severina e protettore della Badia della SS. Trinità in Mileto. Scrisse cinque libri De situ et antiquitate Calabriae, dedicati a Bernardino Sanseverino, Principe di Bisignano, pubblicandoli in Roma nel 1571, col favore del Pontefice S. Pio V e col plauso dei più illustri storici dell'epoca sua e posteriori, anche esteri, come il Burmann ed il Grevio, che diedero all'Autore il titolo di Strabone Calabro. Il Barrio fu contemporaneo di Francesco Grano da Cropani scrittore di un carme De situ laudibusque Calabriae, e di Lorenzo Dardano tropeano, il quale nella Cronaca inedita del Sito della città di Tropea tratta al capitolo V del modo come fu preso il casale di Ceramiti e di un miracolo fatto da S. Domenica. Della Chiesa di S. Domenica nel villaggio omonimo, oltre il Barrio, rendono testimonianza i cronisti Crescente, Fazzari, Sgambati etc. Il Barone aggiunge, che quantunque niente di commendabile per magnificenza di lavoro e di mole vi fosse in quel sacro luogo, pure era più in venerazione degli altri; e nella ricorrenza della festa della Santa Martire vi concorrevano devote processioni dei paesi circostanti, mentre i naviganti salutavano dal mare (p. 62). Or ecco il racconto di una incursione barbaresca, come dallo stesso Barone: << Eransi le galee, o fuste di Tunisi, in conserva d'altri legni pur turcheschi, di notte tempo nascose sotto una punta, che sporge in mare, nel luogo detto le Formicole dai paesani, guastone il vocabolo antico e suo proprio di Forum Herculis. E così chiamavanlo, a cgione d'una famosa fiera, ivi solita a bandire in honor d'Hercole, che quivi da presso in un magnifico tempio, e per gli oracoli, che vi si davano, celebratissimo, era da' Tropeani adorato, qual proprio dio del paese, e primo Fondatore, e Padre della Città. Hor attendendo i Barbari l'opportunità di qualche preda, s'avvidero sopra d'unavicina collinetta di molti lumi, et accese faci: e saggiamente giudicando di qualche villaggio, e di molta gente ivi accolta, verso colà, per brama di qualche bottino, cheti s'incaminaro. E tanto del villaggio, che con greca voce Ciaramiti chiamano, quanto di molta gente accoltavi, tutto era vero: che a quell'ora, a lume di fiaccole ardenti, et a Cielo aperto, vi celebravano, festeggiando con balli e canti, le nozze di due paesani, e senza nulla temer disastroso, lietissimi. Quando improvisi furo lor sopra i Turchi: e tutti, huomini, donne, fanciulli, e fanciulle, che parte ballavano, parte assistevano al ballo, a man salva gli debbono schiavi: e tra di essi anche i due sposi, gravati a un tempo stesso da due legami da que' del matrimonio, e da que' della schiavitudine: catene amendue dure, non saprei quali più, se non che pajono più dure quelle del matrimonio, perchè sono più indissolubili. Lieti dunque della preda fatta, ma non già paghi; nel far ritorno a' legni vollero dar sopra al Casale della Santa, che era tra via, come interrogandoli, da' presi riseppero. Ma non fu vero, che i Barbari questa volta l'indovinassero. Messi s'erano que' del Paese, in niun timore di cosa sinistra, a profondamente dormire; ma per essi, et a difesa del suo villaggio vegghiava Domenica. Perciò, avvicinandosi i rei ladroni, andò Ella, o vi mandò Angioli a sonare all'arme colle campane del luogo, e con quelle singolarmente della sua Chiesa: col cui suono gettato sopra de' Turchi, credutisi già scoverti, un gran timore cacciolli in fuga: onde montati su' legni, salparono. Destaronsi ancora al suono gli abitatori del luogo: i quali non trovatane la cagione, rimasero ammiratissimi, fino a tanto che da' cattivi, rihavuta dopo gran tempo col riscatto la libertà. e ritornati a casa, riseppero il gran miracolo>>. In quale anno sia ciò avvenuto, ignoriamo. Le scorrerie degli Algerini alle riviere di Calabria e di Sicilia, sotto la guida dei fratelli Arudi e Kareddin soprannominati Barbarossa, cominciarono nel 1505 e si proseguirono per più di un secolo, non ostante la conquista di Tunisi fatta da Carlo V nel 1535 e la famosa vittoria di Lepanto nel 1571. Il Galibert le descrive ad una ad una nella pregevole sua Storia dell'Algeria antica e moderna (Napoli, 1846). Or noi crediamo che la incursione barbaresca, di cui sopra si è fatto cenno, sia successa prima della venuta in Calabria di Pietro de Toledo, vicerè di Napoli nel 1540, poichè nel racconto di Barone non si fa alcuna allusione alle torri di guardia che quel provvido principe fece edificare sul littorale del Regno. I Turchi o pirati, essendovi presso i villaggi di S. Domenica e Ceramiti un luogo d'ispezione, non avrebbero avuto l'audacia di accostarsi, per depredare a sorpresa. Allora i cavallari ed i torrieri si sarebbero accorti della fermata delle navi nemiche; e ne avrebbero avvisati i terrazzani. Dunque l'audace tentativo a danno della nostra riviera fu uno dei tanti del Barbarossa o del terribile Dragut Rais. Il primo produsse immensi danni a Reggio, a Gioia, a Palmi e ad altri nostri luoghi marittimi; ed anche il celebre santuario di S. Francesco in Paola fu saccheggiato nel 1555. Pochi anni prima Kareddin era stato in Tropea, dove dimorava la Flavia Gaetano, figlia del Governatore di Reggio, a lui data in moglie (Muratori, Annali d'Italia, 1544). Il feroce Dragut poi fu il terrore delle nostre contrade, finchè non venne ucciso a Palmi o a Malta, verso il 1565. Sotto Dragut si crede avvenuta l'altra incursione, della quale in Parghelia conservasi a ricordo un elmo turco, nella Chiesa della SS. Vergine di Portosalvo. I corsari della Barberia vennero per l'ultima volta in questa parte di Calabria al 29 giugno 1638, quando saccheggiarono la città di Nicotera, e portarono molti di quei cittadini in ischiavitù, essendo Vescovo il zelante Mons. Carlo Pinto da Salerno. Un Crocifisso, che si conserva in quella Cattedrale, mostra ancora i colpi di archibugio esplosi dagli empi Maomettani in quella giornata di rovina e di morte.