IN MEMORIA DI GIUSEPPE LO CANE
(23.10.1925- 16.12.2003)
RITRATTO DI UN UOMO DI DIO
di Rocco Pititto
(S. Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo)
Nel mezzo di una vita operosa e instancabile, vissuta sempre di corsa, nel segno dell’amore più grande, una vita trasparente e piena di luce, perché spalancata sull’orizzonte dell’Assoluto e dell’uomo, il Signore della vita e della morte si è accostato al nostro carissimo fratello Peppino per chiamarlo a sé e condurlo tra gli eletti nel suo Regno celeste. Le iniziative in corso, ora interrotte, erano ancora tante e importanti i progetti per il futuro, rimasti in sospeso. Su tutto questo, che ha costituito lo spazio d’azione di una vita, è calato il sipario. E noi, di fronte alla sua scomparsa, siamo rimasti increduli e costernati. Una vita, che ci apparteneva, era stata sottratta al nostro conversare e noi, privati del nostro interlocutore e della sua presenza materiale, ci siamo sentiti, e ci sentiamo, ancora più soli e meno sicuri. La fine di Peppino, avvenuta così in fretta, fu inaspettata per molti di noi. La freschezza dei suoi anni e il vigore giovanile, che manifestava in tutte le cose che faceva, il suo continuo andare su e giù, l’entusiasmo e la prontezza nel farsi coinvolgere in nuove iniziative, caricandosi di altri impegni e di più gravose responsabilità, facevano di lui un uomo sempre giovane, e quasi senza età, così che nessuno di noi si chiedeva mai quale fosse la sua età reale. Era certamente il più giovane della sua generazione e, forse, anche, di generazioni più giovani anagraficamente. In realtà, nonostante le lunghe frequentazioni d’amicizia e di affetto con lui, molti di noi ignoravamo le sue reali condizioni di salute e le sue pene più segrete e lui stesso non ce ne dava la possibilità di conoscerle, tanto era schivo e riservato. Sapeva soffrire in silenzio e tacere. Fu sottratto così, quasi all’improvviso, alla nostra presenza e al nostro parlare. E tutti noi siamo rimasti privi chi di un amico, chi di un fratello, chi di un padre. Rimane il rammarico di essere stati poco vigili e solleciti, di non aver saputo cogliere da piccoli segnali, a volte impercettibili, che le sue condizioni di salute stavano deteriorandosi. Forse avremmo dovuto insistere perché i ritmi delle sue giornate fossero stati meno frenetici. Sappiamo, però, che consigli in tal senso non sarebbero mai stati presi in considerazione da lui. Forse, stanco com’era, bruciava il tempo rimasto a sua disposizione e tutte le sue energie, perché aveva fretta di incontrare il suo Dio. E Dio, ascoltandolo, gli si è fatto incontro nell’abbraccio definitivo, che conclude ogni cammino dell’uomo nel mondo, spalancandogli le porte dell’eternità.
2. La figura di Peppino Lo Cane
E, intanto, nel ripensare a lui, quasi per ricostruire e per conservare dentro di noi un’immagine nitida della sua figura, la più fedele possibile, scorrono di seguito nella nostra memoria come tanti fotogrammi parole e gesti che hanno accompagnato la sua vita in mezzo a noi e che solo ora acquistano il loro significato più pieno, perché letti insieme definiscono la realtà più profonda del suo essere tra di noi: una presenza amica discreta e mai invadente, credente tutto d’un pezzo eppure così tollerante, uno che voleva capire prima di esprimere giudizi, un uomo che è diventato un testimone dell’Assoluto in mezzo a noi e come tale lo vogliamo ricordare. La semplicità di vita, con la quale si è manifestato a noi, non deve trarre in inganno, perché la sua vita fu un dono di Dio offerto a tutti noi, una vita che egli, da parte sua, fece ricca di opere e di attenzioni verso tutti, senza mai risparmiarsi. Nella sua esistenza si è manifestata la tenerezza di Dio. Nelle sue più diverse espressioni la sua vita fu, soprattutto, un esercizio di cristianesimo e una testimonianza dell’amore di Dio per l’uomo, per ciascuno di noi. Oggi siamo riuniti qui non per piangere l’amico scomparso. Sappiamo per certo che, fin dal momento del suo passaggio dalla temporalità all’eternità, che ha segnato l’ultimo istante della sua vita terrena, Egli vive ormai in Dio, "faccia a faccia" con lui, di una vita senza fine, insieme con i santi di questa terra. Siamo, invece, qui riuniti per riflettere insieme sulla sua eredità spirituale e tentare di riprendere da lui, dalle parole e dai gesti della sua vita, un viatico di fede e di speranza per i giorni che verranno. Nella comunione dei santi, della quale come credenti facciamo parte, perché legati tutti insieme come un’unica famiglia in Gesù Cristo, continueremo a godere della sua presenza e a parlare con lui. Siamo certi che Egli vive in noi e che tutti noi viviamo in lui e che il nostro discorso con lui continuerà ancora come prima e più di prima, perché non conoscerà alcuna limitazione di tempo e di spazio. Giunto davanti al cospetto di Dio, Egli avrà potuto rivendicare, come l’apostolo Paolo, la sua assoluta fedeltà agli impegni della sua professione cristiana e religiosa e il positivo compimento della sua corsa nel mondo, chiedendone, per questo, la giusta ricompensa: "ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede" (2 Tm 4, 7). E Dio, dopo averlo ascoltato, avrà ripetuto a lui le stesse parole che rivolge ai due servi fedeli, protagonisti della parabola dei talenti, che hanno fatto fruttificare i talenti messi a loro disposizione dal loro Signore, prima della sua partenza: "Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone" (Mt 25, 21). La fatica di una vita, e quella di Peppino è stata tanta, accettata pienamente e con amore come espressione della volontà di Dio su di sé, diventa, allora, la gioia eterna insieme con Dio nella visione beatifica. Le parole della parabola di Gesù, tante volte ascoltate da Peppino e meditate nel suo cuore, sono l’epilogo di una vita spesa per Dio e per l’uomo. E noi, pur nel momento della sua scomparsa, siamo orgogliosi di averlo conosciuto e di averlo amato. Rimane per noi un esempio da imitare nel nostro difficile andare verso la casa del Padre. Ora sappiamo con assoluta certezza che qualcuno dall’alto con la premura di un fratello maggiore segue e accompagna i nostri passi nel mondo.
3. Il ricordo di un uomo vero
Ora, a noi rimane il compito gravoso di ricordare la figura di un uomo, come Peppino, vissuto tra noi in un tempo così difficile e così contraddittorio, quando la fine delle certezze si è accompagnata alla maggiore coscienza di sé dell’uomo e siamo precipitati, per questo, nella paura dell’incertezza e del dubbio, se non, talvolta, dell’angoscia e della disperazione, una condizione di vita, assai diffusa e, apparentemente, senza vie d’uscite. Solo una fede ferma e forte, come un sigillo posto da Dio sul cuore dell’uomo, potrà rappresentare la fine della paura e l’inizio di un cammino di salvezza sulla scena di questo mondo, vissuto con gioia insieme con gli altri, nella consapevolezza del nostro essere plurali, la parte più preziosa dell’eredità di Dio. Come ricordare, allora, Peppino senza cadere in una celebrazione di maniera, retorica e un po’ ipocrita, che lui stesso non avrebbe gradito e che, anzi, avrebbe rifiutato, sentendosi in parte tradito, sottraendosi così alla mozione dei nostri affetti? La sua discrezione, fatta di lunghi silenzi, di mezze parole e di sguardi imbarazzati, non può essere violata proprio da noi, che siamo stati suoi compagni di viaggio. Il rispetto dell’amicizia e dell’affetto ci impone la sua stessa sobrietà nel parlare su di lui. La discrezione come pudore era una parte non secondaria di sé e della manifestazione della sua personalità. L’ostentazione non faceva parte del suo carattere e lo stare in prima fila non faceva per lui, perché, dopo tutto, si sentiva tanto a disagio. Gli onori e le cariche non lo tentavano. Se qualcuno insisteva nel congratularsi con lui e nel fargli dei complimenti, del resto meritati, per la buona riuscita di qualche iniziativa, da lui intrapresa, si schermiva e gentilmente li rifiutava, restituendoli al mittente. Preferiva lavorare in silenzio, senza attendersi dal suo lavoro grandi risultati o attestazioni gratificanti. Se i risultati non erano positivi o erano inferiori alle attese non se ne faceva un dramma o una malattia; soprattutto non perdeva quel suo sorriso un po’ melanconico, eppure così disarmante, quel sorriso, stampato sul suo volto, che nessuno di noi, dopo averlo visto, anche una volta, potrà mai dimenticare. Rispetto ai comportamenti correnti di molti degli individui della società di questo tempo, caratterizzati spesso da forme di prepotenza, di arroganza, di arrivismo e di pressappochismo, Peppino sembrava essere un uomo d’altri tempi, tanto diversi erano il suo stile di vita, la serietà e la sua sobrietà. Dietro la ruvidezza di carattere nascondeva una forma di timidezza, che si accompagnava a quella discrezione, tratto comune della sua personalità. La fedeltà alla sua memoria, più che un’esaltazione della sua persona e della sua attività, ci impone, invece, uno sforzo diverso, quello, cioè, di scavare dentro la sua figura complessa, per ricostruirne il profilo umano, lo spessore intellettuale, il suo impegno di fede. Un’operazione di comprensione questa non facile, considerate le tante sfaccettature della sua ricca personalità, sempre inquieta, eppure così rassicurante e, soprattutto, così vicina a Dio e all’uomo. La lezione più profonda della sua vita sta tutta qui, nell’aver saputo coniugare insieme queste tre dimensioni della sua personalità, mediante le quali si è manifestata e si è realizzata concretamente la sua esistenza umana, facendo della sua vita un cantico di lode a Dio, pur nella consapevolezza di essere sempre un "servo inutile". Tra queste tre dimensioni non c’era rottura o discontinuità, né prevalenza di una sull’altra o viceversa. Perché ognuna di loro rimandava all’altra come ad un suo completamento naturale. Erano come le stanze successive del Castello interiore di Teresa d’Avila, che, secondo la spiritualità carmelitana, portano l’anima a Dio, una spiritualità che Peppino conosceva bene, perché di essa si era nutrito per la crescita della sua vita interiore sulla scia della lezione di vita e di parola, così coinvolgente, di don Francesco Mottola, suo maestro nella fede. Era, dopo tutto, un contemplativo nella città della confusione e del frastuono, perché la parte più significativa di sé, la sua interiorità, non era un oggetto di cui poteva disporre a suo piacimento, era soltanto di Dio e proprio perché di Dio poteva essere spesa per l’uomo senza riserve e senza limiti. Su questo piano era come arrivato ad una forma di spoliazione assoluta di sé, per cui nella sua vita tutto era ridotto all’essenziale. Ecco perché la sua ricchezza interiore faceva da contraltare alla sua sobrietà nell’agire, nel parlare e nel porsi davanti a ciascuno. Il suo sguardo andava oltre l’immediatezza degli avvenimenti del mondo e delle cose di questo tempo, perché viveva già nell’eternità di Dio.
4. Un intellettuale impegnato
A Tropea e in Calabria, soprattutto, ma anche altrove, Egli era diventato da tempo un punto di riferimento per la società civile e per il mondo cattolico. Sempre attivo nei movimenti ecclesiali, ha attraversato tutte le esperienze del cattolicesimo italiano del secondo dopoguerra, dall’impegno politico nell’amministrazione cittadina alla lotta per l’affermazione dei valori cristiani nella società italiana, dalla militanza nell’associazionismo cattolico alle lotte per la promozione dello sviluppo dei ceti meno abbienti, dalla difesa ad oltranza dell’ortodossia cattolica alla partecipazione al rinnovamento della chiesa conciliare, passando attraverso la cura di un servizio all’uomo di questo tempo, la cui penuria di beni, che lo caratterizza, si accompagna spesso ad una povertà spirituale non meno grave. Sono due realtà, - la penuria dei beni e la povertà spirituale -, che interpellano i credenti, perché se la penuria dei beni ai limiti della sussistenza rappresenta lo scandalo della società opulenta, la povertà spirituale è, assai spesso, la conseguenza immediata di una modernità, che si è costituita contro Dio e contro l’uomo stesso. Considerare le due realtà intrecciate tra di loro e operare perché il raggiungimento del benessere materiale non sia causa di allontanamento da Dio, ma viceversa sia la condizione di uno sviluppo integrale dell’uomo, che si risolve nell’incontro con Dio nella forma del proprio fratello, è stato parte dell’impegno umano e cristiano di Peppino Lo Cane. È questa una prima lezione di cristianesimo che noi non possiamo dimenticare e che dobbiamo fare nostra. Fu, per molti anni, professore di filosofia nei licei di stato, e, più recentemente nello Studio Teologico di Catanzaro e nell’Istituto di Scienze Religiose di Vibo Valentia. Fu, soprattutto, un educatore appassionato, un maestro di vita per generazioni di studenti, per i quali seppe essere, in tempi diversi, padre amorevole, se pure un po’ burbero, fratello affettuoso, amico sincero. Io stesso sono testimone di questi cambiamenti di ruolo, assunti da Peppino nei miei riguardi nel corso degli anni. Conobbi Peppino nel 1963, nel Liceo di Tropea, in occasione del mio esame di passaggio come candidato esterno dal I liceo classico al II liceo. Io studente, lui mio esaminatore. Sono passati da allora 40 anni e ricordo ancora quel mio esame con lui. Forse quel risultato, così positivo, non fu estraneo alla mia successiva decisione di studiare filosofia e di diventare più tardi filosofo di professione. Quel primo incontro si trasformò nel corso degli anni in un rapporto di grande amicizia e di collaborazione, passando anche per qualche forma di incomprensione da parte sua nei miei confronti, a motivo di scelte personali non sufficientemente comprese. Fu proprio questo rapporto di grande amicizia che mi portò ad organizzare con lui il V Congresso di studi galluppiani, coinvolgendo nell’iniziativa l’Università di Napoli Federico II, della quale mi onoro di appartenere e nella quale Galluppi aveva insegnato Logica e Metafisica Giuseppe Lo Cane fu maestro non per una sua scelta personale, ma perché gli altri, -tutti noi -, nel tempo della diaspora dei padri e dei falsi maestri, lo elessero e lo vollero loro maestro, partecipe delle storie di ciascuno e delle scelte di vita, che faticosamente, ognuno andava facendo in assoluta fedeltà ai dettami della propria coscienza. Non tutte le scelte fatte da ciascuno, intellettuali o di vita che fossero, trovarono la sua approvazione, ma la sua amicizia e il suo affetto non vennero mai meno. Se fosse dipeso soltanto da lui, si sarebbe limitato a pubblicare i suoi libri, scrivendone altri ancora, a coltivare i suoi studi sul pensiero filosofico meridionale, contribuendo, insieme a mons. Francesco Pugliese, alla riscoperta del tanto amato Galluppi e alla rinascita degli studi galluppiani, dialogando puntigliosamente con Rosmini, ricostruendo i termini della polemica intercorsa tra Francesco Acri e Francesco Fiorentino, proponendo un’interpretazione controcorrente del Fiorentino, di cui, accanto ad un saggio sul suo pensiero, aveva ripubblicato il giovanile Volgarizzamento dell’itinerario della mente a Dio di Bonaventura, aprendosi, soprattutto negli ultimi tempi, alle correnti più vive del pensiero filosofico contemporaneo, stabilendo un ponte ideale tra la fenomenologia husserliana e il pensiero scolastico. Non gli mancavano altri impegni ed interessi e certamente non sarebbe rimasto disoccupato. Il merito conseguito nei riguardi della conoscenza e della riproposizione del pensiero filosofico di Pasquale Galluppi è stato enorme e non può essere misconosciuto da alcuno, come immenso è il debito di riconoscenza, che il Comune di Tropea deve a lui, come all’operatore culturale che maggiormente ha messo in circolazione il nome Galluppi associato alla sua città natale. Se oggi si continua a parlare di Galluppi, filosofo di Tropea, e si dispone di maggiori strumenti bibliografici per il suo studio lo dobbiamo proprio all’opera di Peppino e di quanti hanno creduto nel progetto che ha dato vita al Centro studi galluppiani, quel centro, nato nei primi anni settanta del ‘900 da indicazioni emerse nei convegni galluppianii tenutesi a Tropea nel 1946 e nel 1970, riprese e fatte proprie da mons. Pugliese e portato avanti dall’impegno costante e dalla generosità, davvero impagabili, di Peppino e degli altri componenti del Centro studi galluppiani. Nel Centro studi galluppiani, durante questi anni, il ruolo di Peppino è stato di animazione e di promozione, sia sul piano organizzativo (organizzazione di convegni, di incontri, di seminari e di conferenze, presentazione di libri), sia sul piano editoriale (pubblicazione degli atti dei convegni, ristampa in due volumi degli Elementi di Filosofia di Pasquale Galluppi, pubblicazione e curatela dell’inedito galluppiano Filosofia della matematica), sia sul piano pubblicistico (relazioni a convegni, introduzioni a testi galluppiani, curatele), sia sul piano del coinvolgimento di un maggior numero di studiosi attorno alla figura e all’opera di Pasquale Galluppi, quasi a prepararsi una successione. Relativamente a quest’ultimo piano della sua attività, io stesso devo a Peppino il mio interesse verso Pasquale Galluppi, un interesse che continua ancora oggi, nonostante che i miei studi mi abbiano negli anni portato in altre direzioni. Sollecitato nel 1987 da Peppino, in occasione del III Convegno di studi galluppiani, ad interessarmi di Galluppi, come potevo rifiutarmi senza essere sgarbato? Scrissi in quell’ occasione il saggio Galluppi lettore e interprete di Condillac, che a Peppino piacque molto, perché inseriva il filosofo di Tropea in un ambito di dibattito più ampio, quello della filosofia europea del ‘700. Il suo lavoro di promotore culturale non si limitò a favore del Centro studi galluppiani. Non si dirà abbastanza della grande attività profusa da Peppino, nell’ambito della "Fondazione don Mottola", della redazione delle due riviste "Parva favilla" e del "Il bene", dell’associazione culturale "Antropos" e dei "Gruppi ecclesiali calabresi"( G.E.C)- "incontri tropeani", iniziative tutte finalizzate nel mettere insieme delle energie da impiegare nella costruzione della città dell’uomo, come preparazione e anticipo della costruzione del Regno di Dio, già adesso, nella concretezza storica del nostro presente. La raccolta di firme, da lui promossa in tutta la Calabria, per la presentazione di una legge d’iniziativa regionale sul lavoro giovanile, dà il senso di un uomo di grande sensibilità civile, impegnato realmente e concretamente nel sociale, alle prese con i problemi della disoccupazione e della sottoccupazione, mali endemici di una regione che non offre ai suoi abitanti la possibilità con il lavoro di realizzarsi come persone e li costringe all’emigrazione o, peggio ancora, ad una vita senza prospettiva e senza speranza.
5. Una lezione di cristianesimo
Uomo semplice, retto e puro di cuore, Peppino ha attraversato la scena di questo mondo lavorando, pregando, amando Dio e l’uomo. Comprensivo verso tutti e vicino ai problemi della gente, da lui non ho mai sentito esprimere giudizi negativi sulle persone. Sollecitato più volte da me a prendere una qualche posizione critica, non mi ha mai assecondato, limitandosi a manifestare il suo imbarazzo con un lieve rossore sul suo volto e cambiando immediatamente discorso. Non è che non avesse le sue opinioni, anche negative, sulle persone; semplicemente non voleva esercitare un giudizio di critica, tanto era il suo rispetto per le persone. Discreto e umile, era sempre assorto, quasi come rapito, perché, forse senza nemmeno saperlo, godeva della grazia di Dio e viveva già al suo cospetto. Nel silenzio del suo cuore e della sua mente ascoltava le sue voci di dentro e rincorreva i suoi pensieri e, per questo, spesso lo si poteva trovare distratto rispetto agli avvenimenti del mondo. Non era solo la fatica del pensare all’origine di questa distrazione, era piuttosto la difficoltà di vivere pienamente la sua vita interiore dovendo fare i conti con la durezza della vita quotidiana. Tuttavia, solo apparentemente era distratto, perché, in realtà, era assorto in Dio, la gioia piena della sua vita. Sul suo volto si rifletteva una gioia interiore profonda, dote non naturale, ma frutto di una conquista, posseduta da chi ha fatto della sua vita una offerta a Dio e vive già in Dio. Noi tutti, che l’abbiamo conosciuto ed amato, e che siamo stati noi stessi conosciuti e amati da lui, noi tutti che con lui abbiamo fatto un tratto di strada insieme, conserviamo nel cuore la memoria di gesti e di parole della sua vita, una vita da protagonista, forse senza volerlo, vissuta e spesa nel servizio a Dio e all’uomo. Se in lui l’amore a Dio era totale e definitivo, l’amore all’uomo era la conseguenza immediata del suo amore a Dio, così che l’amore all’uomo costituiva la validazione stessa dell’amore a Dio. Secondo la fede cristiana, il Dio incarnato si rende visibile a noi nel volto dell’uomo, in noi stessi, nel nostro prossimo, nel volto d’altri. Di questa verità cristiana Peppino era pienamente consapevole ed ha speso la sua vita per testimoniare che l’amore a Dio e l’amore all’uomo sono, in realtà, la stessa cosa, perché non si può amare Dio senza amare l’uomo e viceversa. La rottura, che la cultura contemporanea, o, almeno, parte di essa, aveva operato tra la realtà di Dio e la realtà dell’uomo, era stata nefasta sul piano delle relazioni tra Dio e l’uomo e tra gli uomini tra di loro e non poteva, perciò, costituire l’ultima parola della riflessione umana. Nella prospettiva di Peppino, questa rottura poteva e doveva essere ricomposta, perché la domanda dell’uomo su Dio non poteva rimanere senza risposta e il desiderio dell’uomo d’incontrare Dio non poteva rimanere inesaudito. "Il nostro cuore è inquieto, - aveva affermato Agostino, un padre della Chiesa tanto caro a Peppino -, fino a quando non riposa in Te", perché l’anima di ciascuno di noi anela a Dio, come una cerva anela ai corsi d’acqua. Era questa, del resto, la caratterizzazione che esprimeva maggiormente la condizione dell’anima di Peppino Lo Cane: una passione per Dio, che era inquietudine e tormento, desiderio struggente di eternità e consapevolezza dei limiti della condizione umana. Ma anche una passione per l’uomo, perché proprio l’uomo rappresenta il campo d’azione in cui si manifesta e si esplicita la passione per Dio. Prescindere, perciò, dalla cura dell’uomo significa tradire lo spirito del cristianesimo. Ogni pratica di cristianesimo passa, infatti, attraverso una duplice fedeltà: una fedeltà a Dio e una fedeltà all’uomo, sapendo che Dio e l’uomo si tengono insieme e che non c’è maggior tradimento del cristianesimo che separare le due fedeltà, come se fosse possibili essere fedeli a Dio senza essere fedeli all’uomo o essere fedeli all’uomo senza essere fedeli a Dio. La crisi della modernità nasce a questo punto, dalla difficoltà di assumere insieme le due fedeltà, scegliendo l’una contro l’altra o viceversa.
6. Un maestro di fede
Cresciuto alla scuola di un santo di questa terra, - don Francesco Mottola -, i cui bagliori di santità sono ancora tanto vivi nelle contrade di questa terra e illuminano le strade dei nostri cammini, Peppino riprese da lui l’idea di una fede, che non è una eredità da conservare, ma una passione da coltivare, una sfida da raccogliere e che nel suo esplicitarsi diventa carità nella speranza del Regno da costruire qui ed ora. Ma se passione e sfida, la fede deve essere posta sul candelabro, non sotto il moggio, per rischiarare e illuminare le menti degli uomini, ma soprattutto il loro cuore. La formazione religiosa delle coscienze costituì, per questo, un impegno prioritario dell’attività di Peppino, che diede vita alle settimane di studi cristiani, settimane che avevano una cadenza annuale e si tenevano nel mese di agosto. Le settimane di studi cristiani, come il Premio "Don Mottola", da lui promosso nell’ambito della "Fondazione don Mottola", i vari incontri formativi dell’associazione "Antropos", dei " Gruppi ecclesiali calabresi" costituivano l’occasione, offerta alla cittadinanza di Tropea e non solo ad essa, per una riflessione sui grandi temi della società e dello sviluppo, come pure della fede cristiana. Da parte sua non mancava mai agli incontri estivi, promossi a Stresa dalla Cattedra Rosmini, come per alimentare nel confronto con altri studiosi le ragioni del suo credere e del suo sperare. Nello studio e nella riflessione maturò la sua vocazione religiosa, guidato da don Francesco Mottola e trovò la sua naturale conclusione nel movimento da lui fondato. Fece, perciò, la sua professione religiosa nella Famiglia oblata del Sacro Cuore e del movimento laicale diventò fratello maggiore, senza chiudersi per altro ad altri impegni nei gruppi ecclesiali, primo fra tutti la militanza nell’azione cattolica, di cui fu anche presidente diocesano. Si comprende dagli impegni assunti nelle istituzioni ecclesiali dagli oblati, e da Peppino in particolare, come il movimento oblato non fosse in contrapposizione con le istituzioni diocesane, ma fosse, invece, uno strumento più efficace per innestare sulle istituzioni preesistenti, in anni così difficili, nuovi germi di vita per una rinnovata primavera della Chiesa. Le incomprensioni, causa di tanto dolore, che si ebbero negli anni cinquanta a questo proposito tra il vescovo dell’epoca e la famiglia oblata nella persona di don Mottola erano in parte immotivate, frutto di personalità molto forti, difficilmente conciliabili tra loro. L’esercizio del magistero di Peppino trova la sua origine e la sua fine proprio nella sua professione religiosa. La scelta religiosa nel movimento di don Mottola non fu una scelta di routine o di comodo. Affascinato da una figura che dal calvario della sua sofferenza seppe seminare gioia e speranza, ai vicini e ai lontani, Peppino offrì la sua intelligenza per dare al suo magistero lo stesso compito e lo stesso respiro: seminare gioia e speranza, rimanendo nel mondo nella quotidianità dell’esistenza, che diventa il suo capo di attività. Nel tempo dei suoi giorni, Peppino si è dato una missione da realizzare: la missione di spiegare la sete dell’uomo e la sua inquietudine, riferendola alla sua origine, a Dio, autore della vita, che nel cuore di ogni uomo ha messo una scintilla del suo amore, una scintilla che deve essere alimentata, perché possa trasformarsi in quell’incendio delle coscienze, così come si era espresso tante volte il servo di Dio don Francesco Mottola. Questa missione ha costituito l’orizzonte di senso di tutta la sua vita, e al suo compimento Peppino ha dedicato tutte le sue energie, prodigandosi senza stancarsi mai, soffrendo in silenzio, anche quando le forze non lo sostenevano più, fino alla fine. L’incontro con il Signore Gesù nella morte del suo corpo è arrivato nel mezzo di tanti progetti annunciati e di idee che stavano maturando. Forse, ne avevamo parlato più volte, avremmo voluto sviluppare insieme altre iniziative. Soprattutto, avremmo fatto qualcosa per far conoscere qui, a Tropea, la figura di Edith Stein, ebrea tedesca, discepola di Husserl, convertita al cristianesimo, entrata nel Carmelo di Colonia, che termina la sua ricerca della verità sul Golgota di Auschwitz, dove entra nell’ultima stanza del Castello interiore di Teresa d’Avila, come la regina Ester in difesa del suo popolo. La curiosità di Peppino di conoscere meglio Edith Stein non era una semplice curiosità. La vita di Edith dava una serie di risposte alle domande di Peppino: l’inquietudine è solo provvisoria, perché è la condizione dell’homo viator. Oltre l’inquietudine dell’uomo c’è Dio stesso, che si fa incontro all’uomo e si dà a lui nell’esistenza concreta di ciascuno. "Venite a me, voi tutti che siete stanchi e affaticati, io vi ristorerò". L’inquietudine nell’uomo è la traccia di Dio nell’uomo. Far emergere dal sottosuolo dell’anima e mettere in primo piano questa traccia è stato lo scopo dell’esistenza di Peppino, uno scopo che ci viene ora consegnato come eredità da custodire e da far fruttificare.