Delle cose non dette
di Giuseppe Tortora
Lui ed io sapevamo di essere diversi. Eravamo consapevoli delle ragioni della nostra reciproca diversità. Ragioni che, in fondo, si riducevano essenzialmente ad una. La fede religiosa. Quella fede cristiana che, in lui, dava significato e senso a tutta la sua vita. Che era la radice del suo desiderio di conoscenza come – che so! – dell’amicizia, dell’impegno sociale. Uomo di una fede integrale e indefettibile. Uomo di fede rigoroso e coerente. Che induceva di fatto al rispetto. E per me, anche ad una sincera e immediata ammirazione. Poche persone – credo – hanno potuto e possono vantare una così piena corrispondenza tra quel che si pensa, quel che si crede e quel che si fa. Una corrispondenza che Peppino sapeva che non può mai diventare uno stabile possesso, ma che si deve conquistare sul campo, giorno per giorno, in una sorta di militanza permanente e continua. La sua fede era serena, ma il suo impegno - per un cristianesimo vivo e fattivo – doveva risultargli laborioso e oneroso. Almeno così è apparso a me, quando l’ho colto, qualche volta, con la fronte corrugata in un pensiero che attendeva la trasformazione in una deliberazione, in una scelta. Diversi, dunque. Ma la diversità non ha impedito il sorgere di una naturale simpatia e di un’amicizia autentica, anche se non alimentata né da assidua frequentazione, che per forza di cose è stata poco intensa, né da parole. Lui era temperamentalmente taciturno; io un po’ più ciarliero ma con un estremo pudore dei sentimenti. E pensare che il nostro primo vero incontro fu uno scontro! Ci divideva l’interpretazione del pensiero di Galluppi. Al punto che, all’uscita della mia monografia, Peppino, in pubblico consesso, ne fece un resoconto critico che, a volerne tener conto davvero, avrebbe fermato sempre la mia mano nell’accingermi a scrivere ancora della filosofia del tropeano. Eppure "sentivo" che dietro le sue contestazioni, – così dure, ed espresse senza infingimenti, e in maniera decisa e ruvida, a tratti sbrigativa e virulenta – c’era stima. La nobiltà della sua intelligenza trapelava comunque. Una stima inconfondibile, rimasta sempre inespressa, tranne che in un caso, di cui non riferisco, ma che conservo tra i ricordi più cari. Va da sé che anch’io stimavo lui. Per l’amore per la sua terra. Per la sua sensibilità culturale. Per l’onestà intellettuale. Per la serietà e il rigore con cui parlava e scriveva di filosofia. Per aver aperto squarci su aspetti del pensiero di Galluppi rimasti sempre in ombra. Una stima, la mia, che quando riusciva a esprimersi per imbarazzati accenni, lo confondeva: lui, così riservato, così schivo... No, della sua malattia non sapevo nulla. Certo, in occasione dell’ultimo convegno di Tropea m’era parso – come dire? – più debole. Lui, sempre così magro, in quell’occasione addirittura m’è sembrato voler quasi scomparire per dissolvenza. Ma non pensai ad una malattia. Eppure la sensazione fu netta. Era una tranquilla sera d’ottobre … camminavamo affiancati per una strada silenziosa di Tropea … gli stavo proponendo occasioni di collaborazione a progetti di ricerca e ad iniziative editoriali; e mi sentii dire che, sì, erano cose importanti, ma in quel momento il suo interesse, più che verso oggetti filosofici, voleva indirizzarlo a temi di spiritualità. Di certo era un segnale. Un dire senza dire. Ma confesso che in quel momento non ho capito. Eppure... in quella tranquilla sera d’ottobre.... per una strada silenziosa di Tropea... sì... ho avvertito in lui qualcosa che assomigliava a un desiderio di smaterializzarsi, al desiderio del passaggio ad una condizione totalmente spirituale.