Un caso della pittura italiana:
Albino Lorenzo
 
 

di Maurizio Calvesi
 




Quando Tropea, la splendida cittadina calabra, fu cantata dal Tasso nella Gerusalemme Liberata ("Tropea, là 've del mar corrente / Rapido si rivolge indietro e torna"), la sua fama era affidata tra l'altro a un'attività prodigiosa, per noi quasi incredibile, che vi svolgevano i fratelli Vianeo: eseguivano, primi al mondo, operazioni di chirurgia plastica. E' rimasta celebre la lettera di un cavaliere del XVI secolo che, avendo perso a Lepanto il proprio naso per un colpo di spada, lo riebbe grazie a uno di questi interventi, con un trapianto di tessuti dal braccio.
Già, l'immagine di Tropea non è fatta di sola natura; ma anche di storia e di cultura, di una storia ricca di commerci marinari e di risposte armate agli assalti del turco, di una cultura che dai Vianeo fino a Pasquale Galluppi, divulgatore in Italia della filosofia di Kant, ha prodotto un suo nobile filone di sperimentazione scientifica e di pensiero. E' fatta infine di un'aristocratica dignità che ha lasciato le sue tracce nei palazzi affacciati al riscontro luminoso e antico del mare, nelle torri mozzate dai larghi squarci che troneggiano sui dirupi, nelle dimore incastonate nei vicoli con pochi ma puntuali orpelli di portali e di stemmi.
Queste mura biscottate dal sole, come d'età indefinibile, evocano al visitatore una sovrapposta idea di medioevo e di barocco, rifusa ormai nel corrosivo alito di una luce sfolgorante che rivendica a se stessa ogni trionfo. Attraverso le crepe dei mattoni infiltrate d'erbe selvagge, il battito della storia sembra riassorbito dalla natura.
Eppure questa cultura restituita ai liberi elementi dell'aria e dell'acqua, della terra e del fuoco delle estati, riserva ancora una sorpresa, esprimendo se stessa, con la propria intensità naturale di luce, nell'opera di un pittore che è certamente il più notevole del mezzogiorno d'Italia: Albino Lorenzo.
Nei soggetti, egli sembra acciuffare per gli ultimi lembi un repertorio contadino in accelerato processo di dissolvimento, integrando all'acutissima percezione la memoria affettuosa di anni non lontani, in cui Tropea e il suo entroterra erano ancora così: con i mercati affastellati di cassette rosse di pomodori o luccicanti di pesce, con le coppole e i fagotti dei braccianti, con le sporte delle donne incupolate da grandi fazzoletti sulle largheggianti tonache nere, con le camicie che barbagliano sulle pelli conciate dei pescatori e dei paesani, con il transito solenne delle mucche e il trotto dei somari.                                                                      Autoritratto, 1983
Nella pittura di Lorenzo la cultura contadina esprime se stessa senza deformanti filtri intellettuali, benchè gentili e sapienti, come può essere stato il filtro intellettuale di un Carlo Levi, intento a rinfrescare e tradurre valori cristiani in una versione "ad hoc", meridionalistica, del socialismo, affidando il pathos di una fragile e sofferente umanità alle movenze di un espressionismo o realismo pittorico analogamente "di traduzione"; cioè d'imprestito da un codice centrale, adattato alle peculiarità di una periferia.
Questi termini, invece, non si addicono alla leggerezza ruvidamente elegante di Lorenzo, a una schiettezza d'umanità che non è fotografata dal di fuori, come spettacolo populista, ma espressa dal di dentro, come ricombaciante impulso dell'artista verso temi profondamente introiettati, in una dimensione senza tempo. Infatti i contadini dipinti da Lorenzo, dalle vesti sformate e rudi come il saio, dello stesso colore della terra, dai passi pesanti e magnetici di grosse calzature, abitano ab aeterno tra questa luce accecante, tra queste solenni metereologie di nuvole, tra queste zolle che si sfaldano sotto il piede zavorrato...
Vista nel contesto dell'arte italiana, la pittura di Lorenzo è quello che si dice, e infatti è stato detto, un "caso". Un caso vuol dire un'emergenza a sè stante benchè valida, che non si spiega con altri parametri se non interni a se stessa; ma interni poi anche a quel particolare ambiente in cui si produce, rispetto al quale l'apparente e mal classificabile eccezione può essere invece letta come un'espressione del tutto naturale.
Post-impressionismo? Ma in termini tecnici, il tocco impressionista elimina le ombre per intensificare la vibrazione della luce, Lorenzo invece esalta la luce a macchie e non a filamenti, nel contrasto fortemente sottolineato con l'ombra.
L'impatto scrosciante e corposo della luce sul dorso della terra, sulla porosità delle mura, sui volumi affastellati e sghembi delle figure, degli asinelli caricati di soma e degli uomini caricati da un domestico e credente destino di vita, di operosità e di trapasso, è questo che Lorenzo dipinge, con una tavolozza-mortaio in cui sembra pestare gli elementi: l'aria, il sole, la polvere, il fango, e i succhi amari e dolci delle piante e dei campi.
Gli impasti hanno uno spessore e un sapore. Sulla piattaforma sempre uguale a sè stessa della natura e del tempo che stagionalmente si riforma, su questo contesto lento e grave, scoccano i giorni captati da Lorenzo come flash attimali, come fotogrammi ridotti densamente all'essenziale nel tragitto dall'apparizione al ricordo, quasi estratti di percezione, ripeto, infilzati dalla memoria.
Quelle forme, quei movimenti, quei controluce, quel disporsi delle immagini nel telaio abbreviato ma solido e percorribile dello spazio, secondo aggregazioni ricorrenti e variate, sono nell'occhio interno di Lorenzo, nel suo occhio che distinguendo e associando, leggendo gli scorci e le istantanee prospettive, guida automaticamente la mano e le cede la sua tempestiva sicurezza. L'"impressione" si solidifica attorno a pochi nuclei portanti, nuclei di una plasticità contratta, informalmente assiepata nel punti strategici di tensione e tenuta del quadro, in cui torna a splendere, cagliata, quella corposità della pittura che evoca liberamente il Seicento. La rapida annotazione impressionista reincarna le "sprezzature" di un pennello pre-moderno che nel meridione rinviano sino a Luca Giordano e, in Calabria, agli splendenti contrasti del "Cavalier calabrese", Mattia Preti.
In dipinti come Al sole del 1983, i bianchi della cuffia e del lenzuolo o tovaglia, nudamente vividi e però modellati in un luminoso tutto tondo, potrebbero addirittura richiamare la cristallina pienezza di luce accagliata in un interno di Verneer; anche se quel cristallo s'è ormai rotto in grosse schegge e se l'ombra coagulata del controluce nella figura a riscontro, fondendosi con l'ombra portata della seggiola, disegna una trama abnorme e mobilmente rappresa: simile ad un mosaico di pietre viste sott'acqua, con la fluttuante vitalità di apparenze sommerse, sommerse dall'insostenibile accumulo della luce.
E' qui, in queste storture e rotture dell'asse che dovrebbe classicamente guidare la visione al suo punto di fuga e conseguentemente dei segmenti e delle curve che dovrebbero comporre l'intarsio prospettico, è in queste spezzature come proprio di un bastone osservato sott'acqua, nell'acquario della luce liquefatta, fluidificata, dell'asse e degli assi visivi, in questo loro storpiarsi e contrarsi talvolta rachitico fino quasi ad accennare alle storpiature fisiche di una umanità caricata dal peso dell'esistenza, ma pur agilmente e nervosamente reattiva, è in questo sistema di stacchi e suture traverse, come in questo espressivo e "sgraziato" dar di spalle di molte figure (ma di una sua rude, dura grazia tagliata addosso con i panni strapazzati), è in questa ineffabilità di un modo ritorto come un vecchio albero che risiede l'apparente "espressionismo" di Lorenzo.
Non espressionismo invece, ma semmai dinamismo irrequieto, nervosamente inconcluso, nel friggere perpetuo di uno stimolo verso il movimento senza arresti nè chiusure; con accenti che mimando l'apparente goffaggine del povero ne esaltano l'autentica, antica sapienza "naturale" di armonizzarsi con i movimenti della natura: dai tagli delle rocce, al piegarsi degli olivi come le schiene sui campi, al flettersi di un ramo nel vento, al tendersi del mare o al sobbalzare di una groppa d'asinello.
In un dipinto del 1973 che raffigura due contadine, la strada allargata di sole riflette come un acquitrino il cielo sbiancato, sfinito dalla luce; in questo spazio all'infinito s'incunea la prospettiva rugginosa dei campi, segnando la direzione lontana verso cui tendono le due sagome femminili, esilmente incamminate, con le mani cariche di masserizie. Qui il senso del movimento che è caratteristico di Lorenzo, scopre il suo esito di spiritualismo, nella convergente dissolvenza di un "andare verso", che è anche simbolico di un moto dell'animo.
La stessa fuga di linee "direzionali", lo stesso alitare di un destino, nel Contadino sul carretto del 1979, dove però s'ingrandisce l'effetto plastico, nei volumi bloccati della figura, pur sempre di spalle, deposta come un macigno sulle traballanti assi, contro la muraglia verde scuro dell'orizzonte. Quasi un Permeke nostrano, volendo ancora chiamare in causa nomi.
Di spalle: le spalle che sostengono il peso della fatica, ma su cui si posa anche la carezza di Dio. Non è davanti ai nostri occhi, questa entità in cui Albino e i personaggi del suo racconto profondamente credono, ma è appunto come una mano posata sulla spalla, che sostiene e sospinge.