Pasquale Galluppi, nel contesto della filosofia europea con particolare riferimento alla filosofia anglosassone
di Ludovico Fulci
Premessa Questa relazione si compone di due parti. La prima di interesse storico-filosofico consiste nell’inquadrare il pensiero di Galluppi in quel contesto europeo nel cui confronto e nel cui ambito se ne ripropone oggi lo studio. La seconda parte mira a rispondere alla questione se la filosofia galluppiana, ovviamente adattata ai tempi di oggi, possa ancora suggerire una prospettiva utile alle attuali indagini filosofiche. In entrambi i casi avremo particolarmente cura di confrontare il pensiero di Galluppi con quello del primo Ottocento anglosassone che, sebbene limitato al mondo britannico all’epoca in cui Galluppi vi si accostò, è oggi la base della cultura filosofica statunitense, canadese e australiana.
In che senso può Galluppi ritenersi filosofo europeo? Se la risposta a un tale quesito emergerà meglio dalle conclusioni di questo Convegno, è pure giusto che da parte nostra si dia qualche indicazione. Per noi sono tre le ragioni che decidono della dimensione europea della filosofia galluppiana. La prima è la formazione culturale di questo pensatore. Egli ebbe conoscenza delle lingue classiche, la padronanza del latino in particolare, una buona conoscenza del francese, una nativa propensione alle scienze esatte che studiò e approfondì, giungendo a una competenza da sempre nota e che ci è stata illustrata dalle ricerche che da diversi anni ormai conduce il prof. Lo Cane, al quale dobbiamo la pubblicazione della galluppiana Filosofia della matematica apparsa nel 1995(1). Tutti questi strumenti consentono a Galluppi di inserirsi nel dibattito filosofico attingendo alle stesse fonti le informazioni necessarie per la delineazione di un esauriente quadro d’assieme del panorama culturale internazionale della sua epoca. La seconda ragione per cui rivendichiamo per Galluppi la collocazione in uno spazio europeo è data dai contatti da lui stabiliti con i filosofi stranieri in un momento particolarmente difficile che nella storia italiana ha un carattere di vera e propria eccezionalità, dopo un Settecento dinamico che aveva visto Beccaria a Parigi e Alessandro Verri a Londra(2). Certamente lo status sociale e la condizione di agiatezza agevolò non poco l’opera del filosofo calabrese, i cui biografi raccontano peraltro del rifugio in Tropea specialmente nella sua tarda età. Rifugio che non valeva comunque, per l’esponente di un antico e glorioso casato la sola pace della meditazione filosofica, ma anche con tutta probabilità l’agio di più facili comunicazioni con l’esterno, agevolate senz’altro dall’essere considerato una gloria cittadina. Va comunque detto che Galluppi era riuscito a farsi conoscere in Sicilia, a Napoli, negli Stati italiani, in Francia, in Inghilterra e perfino in America, dove, secondo quanto riferisce Giuseppe Tortora trovò un estimatore in G.W. Greene, il quale pubblicò un articolo su di lui su un periodico di Boston(3). I personaggi con i quali entra in contatto sono alcuni tra i nomi più noti della filosofia dell’epoca. Si tratta di Victor Cousin, del quale Galluppi tradurrà e curerà le Lezioni sulla filosofia di Kant, stampate a Napoli nel 1842; c’è quindi Sir William Hamilton, considerato tra i maggiori esponenti della Common Sense Philosophy, o come preferisce dire Galluppi, della Scuola Scozzese. Ad occuparsi della sua opera ci sono in Italia autori di gran nome. Gian Domenico Romagnosi ne recensì l’opera sulla "Biblioteca Italiana", Rosmini e Gioberti furono suoi corrispondenti, il milanese Baldassare Poli definisce opere classiche gli scritti di Galluppi. Le Lettere filosofiche vennero tradotte in francese e il già ricordato Hamilton pubblicò un articolo su di lui in una delle più autorevoli riviste filosofico-letterarie del mondo anglosassone, la "Edinburgh Review", che si stampò ovviamente a Edimburgo a cominciare dal 1802, con la collaborazione dei maggiori nomi della filosofia scozzese dell’epoca. Fu inoltre, forse proprio per il tramite di Hamilton, che Galluppi stabilì un carteggio con Francis Haywood (1796-1858), primo traduttore di Kant in inglese, personaggio con un profilo intellettuale almeno interessante, essendosi indirizzato allo studio della lingua tedesca per interessi specifici che riguardavano la spiritualità religiosa del popolo germanico(4). Ma c’è un ultima e più importante ragione per la quale riteniamo che Galluppi possa dirsi filosofo europeo. Riguarda la prospettiva dei suoi studi, il frutto delle sue applicazioni circa la situazione delle ricerche filosofiche del suo tempo. Se si hanno in mente le tre principali opere di Galluppi, vale a dire il ponderoso Saggio filosofico, apparso in sei tomi dal 1819 al 1836; le già ricordate Lettere filosofiche e gli Elementi di filosofia, si coglie immediatamente l’originalità di una sintesi vigorosa che ha due aspetti che si inseguono l’uno con l’altro, quello storiografico e quello teoretico, situazione che ci ha suggerito di seguire nella nostra esposizione l’ordine che abbiamo stabilito di seguire, vale a dire quello di una ricostruzione storica e l’altro di una discussione dell’aspetto più propriamente teoretico della ricerca condotta da Galluppi. L’interesse per la vicenda storica della filosofia europea in Galluppi è indice di una grande modernità. Gli studi di storia della filosofia nascono quasi in quell’epoca. Se la formula delle Lettere filosofiche non è nuova, e Galluppi trova in Montesquieu, Voltaire, Genovesi illustri precedenti, è fuori discussione l’originalità dei nessi che egli rinviene tra i vari filosofi delle cui teorie propone l’esame. Importantissima ci appare la decisione di iniziare da Cartesio. Cartesio e Kant sono i due termini di un’esposizione che evidenzia il punto cruciale di passaggio in Hume e nello scetticismo humiano. Chiunque abbia confidenza con la vicenda storico-filosofica europea ricorda benissimo che ne sono proprio questi i nodi fondamentali. C’è naturalmente anche Locke, come c’è Leibniz, autori ai quali Galluppi deve pure qualche importante e sostanziale ispirazione, specialmente al primo dei due che lo conduce a una assai prudente valutazione del pensiero di Hume, più prudente e più equilibrata a nostro avviso di certe sottovalutazioni del problema che questo grande e geniale pensatore scozzese ha posto alla filosofia europea. D’altronde sui rapporti del pensiero del tropeano con la filosofia di Locke ha già parlato ieri il prof. Pititto e non riteniamo di dover aggiungere osservazioni ulteriori a un discorso che, nella nostra intenzione, deve cercare di coprire il più ampio campo di indagine possibile. Cominciamo qui a entrare nella seconda fase della nostra esposizione. Ma a un taglio storico-storiografico rimarremo ancora vincolati per una necessaria delineazione dei problemi filosofici per come essi si presentano agli inizi dell’Ottocento nella prospettiva che Galluppi ci sembra suggerisse.
Iniziando da Cartesio L’idea, che dicevamo importantissima di iniziare a illustrare lo sviluppo storico del pensiero europeo partendo da Cartesio, mostra quanto in Galluppi fosse chiarissimo il differente atteggiarsi delle scuole filosofiche che erano sorte dalla pianta comune del Cartesianesimo. In Francia si proseguiva un discorso che aveva piuttosto l’aspetto di una ricerca di tipo "fisiologico" della conoscenza umana, dove il cartesianesimo si farà promotore da un lato di quello che oggi chiamiamo "fisicalismo", e che all’epoca di Galluppi trovava i suoi campioni in d’ Holbac, Condillac, Helvétius, Bonnet e dall’altro di quello che oggi chiamiamo "vitalismo", di cui furono anticipatori filosofi meno noti, ma ugualmente degni di menzione come Jean Saury, Charles Boullier o l’abate Yvon. In fondo sono queste le ricerche condotte in ambiente francese e rimbalzate anche in Italia circa la differenza tra l’uomo e l’animale, con le varie questioni se "i bruti posseggano anch’essi un’anima" che avevano interessato Genovesi, Gioia e il giovanissimo Leopardi(5). In Germania, con Kant, Cartesio diventa piuttosto punto di riferimento per altre analisi e la gnoseologia kantiana meglio si direbbe a nostro avviso epistemologia. Questo punto ci pare importantissimo anche a qualificare l’orizzonte d’indagine del Criticismo kantiano, che non si contiene nei limiti di una ricerca "sull’intelletto umano", come era accaduto per Hume e per Leibniz. E’ la questione del metodo, ed è anche la tutela del sapere scientifico che Kant vuole salvaguardare rispetto allo scetticismo di Hume. Non vogliamo peraltro affermare che in questo orizzonte si esaurissero i temi del kantismo. Avendo però d’occhio anche e soprattutto l’ambiente anglosassone, ci pare che nei confronti di quest’ultimo l’attenzione accordata ai temi di una riflessione circa il metodo scientifico, sia la ragione di un maggiore apprezzamento e di una maggiore fortuna che in Inghilterra ha trovato Kant, assai più favorevolmente accolto degli idealisti. Ciò vale in particolare, come vedremo, per la Common Sense Philosophy che con il già ricordato Hamilton inclinerà decisamente verso il kantismo. Ma a questo punto ci pare indispensabile richiamare rapidissimamente alla memoria i tratti fondamentali della filosofia galluppiana, altrimenti perdiamo di mira lo scopo che ci siamo prefissi che è quello di stabilire in che misura essa rispondesse alle esigenze culturali dell’epoca, in che misura sia oggi riproponibile.
Caratteri fondamentali del pensiero galluppiano Per Galluppi l’intelletto umano opera secondo tre distinte facoltà: la percezione, il giudizio, il raziocinio. Operativamente queste facoltà si traducono sempre in diversi momenti e come la percezione è estranea al giudizio, così il giudizio è estraneo al raziocinio, anche se il raziocinio utilizza i giudizi e il giudizio utilizza le percezioni. Esiste dunque un mondo dei cui molteplici aspetti acquisto consapevolezza per la percezione, sui quali formulo giudizi assertivi o negativi, che poi collego in discorso col raziocinio. Per esempio assaggio la mela, trovo che è buona, formulo un giudizio in tal senso e poi discuto sulle ragioni per cui questo frutto fa bene. Come si vede si tratta di un mondo non troppo diverso da quello del senso comune. Se vado a chiedere in strada alla prima persona che incontro che cosa pensa di una tale teoria, quasi sicuramente mi sentirò rispondere che è ovvia. C’è il me, c’è il fuori di me, c’è il senso, c’è il parere e infine il pacato ragionare, come combinazione e virtuale confronto delle opinioni. Ma qui non dobbiamo trarci in inganno. Non è per l’ovvietà, che di un tale discorso Galluppi si farà paladino, quanto piuttosto per la forza intrinseca di una coerenza che ai suoi occhi esso mantiene. Anticipiamo fin da ora questa tesi che, mano a mano, si farà strada nel nostro discorso. Aggiungiamo solo per dovere di chiarezza che in fondo anche per gli Scozzesi valse l’ambizione di riuscire a chiudere un discorso coerente su quello che essi definirono common sense, a cui dobbiamo riconoscere, giusto il significato del termine sense, qualcosa di più che non la communis opinio.
Contrasto fra la filosofia galluppiana e le tendenze del pensiero moderno Non a caso, per quanto pacificamente ovvio possa apparire l’edificio metafisico di Galluppi, da noi ridotto nei suoi termini essenzialissimi che investono l’aspetto gnoseologico, tutta la vicenda della filosofia europea ha finito col mettere in crisi proprio una tale visione del mondo. E’ infatti proprio il confine fra giudizio e percezione che ha perso i suoi precisi contorni, ponendo in pericolo l’immagine di un mondo, o per dirla con Wittgenstein, di uno stato di cose così e così, intorno al quale noi ragioneremmo. Un ruolo importantissimo nella ridefinizione di questo rapporto, in Galluppi così rigidamente stabilito, ha avuto la filosofia kantiana, o, per meglio dire, ha avuto l’epistemologia moderna. Se in Condillac, e in Galluppi la percezione viene studiata e intesa come momento di un processo conoscitivo attuato dalla persona, in Kant la realtà sensibile è lo stesso del mondo fenomenico e l’esperienza di cui ragiona Kant è anche il complesso dei fenomeni osservabili da parte dello scienziato. E’ una cosa che non possiamo ignorare, se riandiamo con la memoria a quanto Galluppi scrive nella Lettera XII:
Perché diciamo che Galluppi colse questo orientamento della filosofia a lui contemporanea? Torniamo al passo citato delle Lettere filosofiche, quello che indicavamo come possibile punto di partenza per certe "accuse" che Galluppi rivolse a Kant. Alludiamo al soggettivismo. Alludiamo al fatto che, secondo la citata espressione di Galluppi la causalità, secondo Kant, non starebbe nelle cose osservate, ma nell’osservatore. E l’osservatore è appunto il soggetto. Secondo il parere generalmente e ormai tradizionalmente accolto dagli studiosi tale accusa sarebbe però infondata. La filosofia di Kant sarebbe infatti sorta dall’esigenza di descrivere il campo delle conoscenze oggettive, di dare ad esse una fondazione. Questa operazione ne riduce il valore assoluto, in quanto l’oggettività nella concezione kantiana è oggettività relativamente all’intelletto umano(8). Per dirla in termini più semplici, secondo noi il fatto è che, se veramente consideriamo l’aspetto epistemologico della filosofia kantiana, dove l’opzione primaria è quella di tutelare l’oggettività della ricerca scientifica, che è altro dall’oggettività del "reale", l’accusa di soggettivismo si sfalda. Inoltre, a questo punto, è facile sostenere che l’ "osservatore", (termine a cui Galluppi vuol dare evidentemente una qualche sottolineatura in senso negativo), al di là dell’antropomorfismo che il termine possiede, diventa in questo caso qualcosa di più e di meno del semplice soggetto umano. Ma, se restiamo a un orizzonte gnoseologico e a un approccio psicologico, quale quello suggerito da Galluppi, il discorso cambia. Sicché il problema diventa a questo punto stabilire se Galluppi avesse o non ragione a mantenersi su un piano di riferimento che in certo modo indebolisce il suo discorso, ma che, d’altra parte, lo salva da possibili equivoci.
Galluppi e la Scuola Scozzese E’ a questo punto che dobbiamo procedere al confronto fra le tesi di Galluppi e quelle degli esponenti della Scuola Scozzese. Presso gli Scozzesi l’orizzonte teoretico complessivo non muta granché rispetto a quello kantiano. La preoccupazione epistemologica finisce infatti nel giro di poche generazioni con l’avere il sopravvento anche nella cultura anglosassone e specificamente presso gli Scozzesi i quali furono precisi nel rivendicare l’eredità di Bacone e di Newton. E’ proprio Reid ad affermare: Lord Bacon per primo ha delineato gli unici solidi fondamenti su cui costruire la filosofia naturale [oggi diremmo la conoscenza scientifica, n.d.r.]; e Sir Isaac Newton ha ridotto i principi additati da Bacone a tre o quattro assiomi, che egli chiama regulae philosophandi(9). Per noi questo punto è essenziale. A suscitare l’interesse dei filosofi dell’epoca non è la conoscenza quale avviene in un mitico Adamo che si affaccia alla scoperta del mondo -e alla quale si sforzava di guardare con occhio disincatato David Hume(10)- ma la conoscenza che si attua nelle strategie messe a punto dalla scienza moderna. Non sono dunque a rigore le certezze interiori a volersi salvare dallo scetticismo di Hume, ma quelle esteriori che legano l’uomo al mondo fenomenico. Del resto è ancora Galluppi ad asserire, nella già ricordata lettera XII delle sue Lettere filosofiche che proprio il fondatore della Scuola Scozzese, Thomas Reid, avrebbe aperto la strada a Kant, suggerendogli l’ipotesi del giudizio sintetico a priori. Qui probabilmente Galluppi difetta di un certo senso storico e noi non sappiamo dire se non veda o non voglia vedere che il comune orientamento che ci può essere fra Reid e Kant nasce dall’urgere di questioni nuove, quelle che inducono a mutare sostanzialmente il vocabolario di Hume, dando al suo problema una soluzione che può non apparire diretta né rigorosa, ma che ha pure una sua ragion d’essere. D’altronde mancando nell’obbligo di scomporre nei suoi elementi la tesi da invalidare, essa urta con l’onestà intellettuale di Galluppi che preferisce restare alla lettera del problema piuttosto di correre il rischio di stravolgerne i contorni. Insomma Galluppi ha pure le sue ragioni, al di là del fatto che la storia, vale a dire la rivoluzione industriale e l’enfatizzazione creatasi attorno al progresso delle scienze, abbia dato ragione a Kant. Dicevamo dell’onestà intellettuale di Galluppi. E’ questo un aspetto che ci sta estremamente a cuore in questo filosofo, che ci pare già solo per questo meritevole di una particolare attenzione. Galluppi prende molto sul serio l’impegno assunto di replicare in modo soddisfacente allo scetticismo humiano. Replica che per lui, se ben comprendiamo lo spirito della sua ricerca, non può passare attraverso salti di nessura natura perché ciò significherebbe tradire l’esigenza dell’unico corretto argomentare "contro" Hume. Chi abbia presenti le pagine del Saggio filosofico, sa che per il tropeano l’unico modo di contrastare le idee degli altri filosofi consiste nel confrontarsi direttamente con esse, riproducendo innanzitutto le tesi che si vogliono combattere il più fedelmente possibile. Il lettore ha così davanti, in rapida successione, lunghe, a volte perfino estenuanti citazioni che mettono alla prova la sua passione per le questioni filosofiche, ma in compenso ha la possibilità di un onesto confronto di posizioni. Su questa base diventa possibile assumersi la responsabilità di una scelta. Circa lo scetticismo di Hume, ci pare che, come per altri filosofi, anche per Galluppi non ci siano alla fine possibilità effettive di negare le conclusioni cui giunge Hume, ponendosi sul suo stesso cammino. Non resta allora che discutere la validità delle premesse, come Reid aveva del resto iniziato a fare. Ma poi Reid e dopo di lui, più di lui i suoi discepoli e Kant, lavorano sulla possibilità di mutare il rapporto sensazione-idea, andando oltre quella parete che per Galluppi risulta invece invalicabile. Di fronte a questa altenativa Galluppi preferisce seguire il percorso contrario e tenere distanti tra loro conoscenza sensoriale e analisi argomentativa, secondo un programma inverso a quello degli Scozzesi(11). Nel 1995 è apparso sul "British Journal for the History of Philosophy" un articolo di Alistair Sinclair The Failure of Thomas Reid’s Attack on David Hume, nel quale si racconta di come essendo ancora in vita Hume, Reid gli sottoponesse, per il tramite di un comune amico, Hugh Blair, la sua critica alla dottrina di Hume circa la corrispondenza fra le impressioni e le idee, che per Hume è biunivoca, a ogni impressione corrisponde un’idea nella nostra mente e viceversa. Reid, al contrario, ricorrendo a quello che in matematica come in logica si chiama un artificio, interpone tra impressione e idea, l’agire di una legge naturale sui sensi dell’uomo, in base a cui si passerebbe dalla sensazione intesa come dato puramente soggettivo e affettivo alla percezione, nella quale si realizza la presenza dell’oggetto appreso. Sarebbe questo il punto d’origine di una divergenza d’opinioni su cui, nell’ambito della Scuola Scozzese sarebbero sorte questioni senza fine circa i termini esatti da usare per definire il problema(12). Di tali questioni Sinclair coglie l’origine nel disaccordo tra Reid e Hume, con Reid che ha avversione per la nozione di "idea" e Hume che si ostina a vedere, con qualche ragione, una differenza fra il termine "sensazione" caro a Reid e il termine "impressione" a cui lui accorda una chiara preferenza. Che questo fosse anche il punto in cui Galluppi diverge da Reid se ne accorse Michele Federico Sciacca, autore di un interessante saggio nel quale il pensiero di Reid e di Galluppi sono messi a confronto. Lo studio di Sciacca risente indubbiamente di un clima "idealistico" che dominava l’ambiente italiano al momento in cui egli affrontò questo tema, tuttavia gli riuscì di mettere a fuoco un punto sostanziale. Osserva infatti Sciacca:
fino a quando l’oggettività della conoscenza non è fondata sull’atto stesso della sensazione, cioè fino a quando la realtà non è sentita, ma invece su un principio soggettivo, che viene in soccorso dei sensi, cioè fino a quando la realtà è pensata, si chiami questo principio inspirazione o suggestione con Reid, forma a priori con Kant, idea dell’Essere con Rosmini o in altro modo, non c’è modo di giustificare l’esistenza della realtà esterna e di provare l’oggetività della conoscenza(13).
E’ un rilievo che condividiamo in pieno e di cui abbiamo trovato conferma nella tormentata vicenda che conobbe la definizione della sensation, della perception della suggestion nella filosofia scozzese a partire da Reid ad arrivare a William Hamilton. Vicenda sulla quale Galluppi si documentò scrupolosamente, come attestano le pagine dei primi due tomi del Saggio filosofico. E’ nel quadro di questa ricerca che nasce la teoria del me galluppiano, teoria su cui vogliamo attirare l’attenzione perché troppo spesso assimilata a quelle dell’idealismo tedesco, costruite attorno all’ io. L’ io non è il me. Il me di cui ragiona Galluppi è un io che nasce già socializzato ed è come me, non come io che avverte le modificazioni sensoriali per cui la sensazione diventa percezione, senza che vi sia alcuna suggestione a determinarla. Bisogna ammettere che c’è qui un percorso che ha una sua plausibilità, che consiste poi nel fare del me il fondamento di ogni atto sintetico di giudizio e che ripropone l’uomo quale naturale intermediario tra mondo delle idee e mondo delle cose sensibili, in accordo con l’iniziale ispirazione cartesiana. Confrontiamo questa teoria con quella della suggestion, di cui ragiona Reid. Ci avvaliamo della ricostruzione che ne fa Così McCosh, il quale può considerarsi lo storico ufficiale della filosofia scozzese:
La parola "suggestion" per indicare l’affiorare di un pensiero alla mente, fu impiegata dai primi filosofi, ma Reid la dedusse da Berkely, che a sua volta l’aveva presa da Locke. Reid afferma che ci sono "suggestions" naturali, in modo particolare che la sensazione suggerisce la nozione di esistenza in atto e la convinzione che quel che percepiamo o sentiamo esiste nel momento che lo percepiamo o lo sentiamo. Afferma che la memoria suggerisce la nozione della esistenza al passato e la convinzione che noi ricordiamo ciò che realmente è avvenuto in passato e infine che le nostre sensazioni e i nostri pensieri ci suggeriscono la nozione di mente, e la convinzione della sua esistenza e del suo relazionarsi ai nostri pensieri. L’intero procedimento -prosegue sempre McCosh- mi sembra insoddisfacente, all’in circa quanto l’ipotesi idealistica. Non c’è alcuna evidenza al fatto che la sensazione preceda la percezione. Le due cose appaiono così distinte da Reid: "Quando odoro una rosa, c’è in questa operazione sia sensazione che percezione. L’odore piacevole che sento, considerato per sé stesso, senza alcuna relazione con oggetti esterni, è propriamente una sensazione." La qualità nella rosa che produce la sensazione è "l’oggetto percepito, e quell’atto della mia mente per cui credo con convinzione in quella qualità è ciò che io chiamo percezione". A me sembra -osserva McCosh, il quale ha ormai di vista il modello kantiano- che queste due cose costituiscano un unico atto concreto e che possano essere separate solo da un processo di astrazione." (14)
Ci appare evidente che la suggestion serve a risvegliare un io, destinato a non scuotersi nella sua passività, da quella recettività di cui finalmente Galluppi coglie l’aspetto più vivo, salvando nella sua prospettiva la differenza tra un vago e indefinito sentire e un percepire con piena coscienza quel che percepisco.
Il senso delle dispute Al di là di queste vicende, si comprende che dietro apparentemente inconcludenti cavilli terminologici, ci sono grosse questioni filosofiche che investono proprio il passaggio dalla sensazione alla percezione, la quale ultima tende negli Scozzesi ad apparentarsi, esattamente come in Kant, col giudizio, nel senso che il giudizio diventa il banco di prova di un avvenuto incremento di informazione, coscienza, consapevolezza o come altrimenti si voglia dire, della nozione di tavolo, per richiamare l’esempio più volte invocato da Reid, rispetto all’impressione che la sua vista produce in noi. Del resto è questo il senso della critica di McCosh, il quale vede nella perception, per come gli Scozzesi la intendono, il fantasma dell’idea. Se ci chiediamo quali fossero le ragioni di queste sottili distinzioni, riusciremo meglio a comprendere da una parte quale fosse la prospettiva degli Scozzesi, dall’altra quali ragioni avesse Galluppi ad opporvisi. Quasi tutte le ricostruzioni storiche relative alla vicenda della Scuola Scozzese delineano un quadro culturale che riconduce in parte la ricerca di questi filosofi alle dispute tra Deismo e Teismo in Inghilterra. Per ragioni di tempo non possiamo adesso aprire una parentesi che ci porterebbe fra l’altro troppo fuori del nostro discorso. Diremo brevemente che nel quadro culturale del tempo in Europa, ma particolarmente nel mondo anglosassone, era assai sentito il problema di una coerenza che agli occhi del pubblico colto si potesse trovare tra la cultura ufficiale e accademica e la tradizione biblica. Dopo un certo periodo durante il quale nella vita pubblica inglese dominò una libertà di comportamenti da alcuni giudicata eccessiva perché caratterizzata da disinvoltura più che da liberalità, si espresse l’esigenza a cui abbiamo accennato e il dibattito si stabilì fra i teisti da un lato, che difendevano la religione rivelata e i deisti dall’altro che miravano a una visione distaccata della divinità prospettando l’idea di una religione naturale. Se in particolare guardiamo alla questione della sensazione, della percezione, del giudizio, dell’essere il giudizio indipendente dalla sensazione ovvero l’altra d’essere la percezione in qualche modo connessa al giudizio e mettiamo in moto alcuni concetti che hanno a che fare con l’esistenza del mondo, il suo essere reale, la sua origine, scopriamo di affacciarci a un argomento particolare, quello della creazione del mondo. Di più, se rivolgiamo la mente al quadro culturale dell’epoca scopriamo che la fondamentalità ora della sensazione, ora del giudizio umano, risponde alla definizione di un dilemma che, senza essere necessariamente angoscioso, tuttavia ha attraversato la coscienza dell’Europa colta dell’epoca di Galluppi. Chi ha creato il mondo, l’uomo o Dio? Se si riflette al quadro culturale dell’epoca di Galluppi, si scopre che effettivamente questa era la domanda allora corrente in Europa. Si pensi a Jacobi e a Mendhelsonn, alle pur belle pagine della dottrina di Spinoza dello stesso Jacobi, si pensi al Faust di Goethe e si scoprirà che presso questi filosofi-scrittori, il tema è proprio questo. C’è nelle loro pagine un bellissimo delirio sulla creatività umana. Dunque: chi ha creato il mondo, l’uomo o Dio? Chiediamo scusa dei termini necessariamente brutali, almeno da un punto di vista filosofico, con cui abbiamo definito la questione. Non c’era altro modo per farsi ben intendere. E se i filosofi, dei quali ragioniamo, Reid, Galluppi e Kant compreso, non usano termini così "brutali", ciò non è dovuto né a diplomazia, né a discrezione, insomma a nessuna volontà di rivestire in qualche modo quella che pure potrebbe apparire sostanza del discorso, offendendo quasi l’intelligenza di un lettore che si vede trascinato per pagine a inseguire questioni sulla natura della sensazione e della percezione. Il fatto è piuttosto che la filosofia non può ragionare disinvoltamente di "creazione", che è nozione volgare allorché si riferisce all’agire umano, nozione di pertinenza della religione allorché metaforicamente si alluda all’atto creatore che nella tradizione religiosa cristiana si riferisce a Dio e che nella coscienza collettiva dell’Occidente ha finito col diventare la "creazione". La filosofia non può mescolare il suo ragionare a preoccupazioni che ad essa sono estranee. L’uomo di cultura, il lettore a cui si riferiscono i filosofi di quell’epoca deve comprendere tuttavia questa situazione. Per fare un esempio che al clima culturale di quell’epoca ci riporta, egli può essere indotto dal vocabolario di Fichte, al quale appunta le sue critiche Pasquale Galluppi, ad assimilare l’io trascendentale a qualcosa che somiglia all’uomo o alla specie umana o all’umanità, ma deve sapere -come del resto tutti gli onesti manuali di filosofia avvertono- che a rigore, nonostante l’evidente antropomorfismo e soggettivismo contenuti nell’espressione, quell’io non è né l’uomo, né l’umanità, né la specie umana, nonostante queste tre cose non siano indifferenti al porsi di quella nozione alla mente di Fichte. Se non comprendiamo questa esigenza, non comprendiamo la filosofia e in particolare non comprenderemo mai l’esigenza prepotentissima in Galluppi di evitare qualsiasi inclinazione nel linguaggio a domini estranei a quelli della speculazione filosofica. Vogliamo dire che, se indulgessimo nell’idea che in ossequio a un sentimento religioso che i suoi biografi concordemente gli riferiscono, e che noi non abbiamo né ragione né diritto di negare, Galluppi negasse la possibilità all’uomo d’essere lui il creatore del mondo per un orrore probabilmente sincero di blasfemia, ciò significherebbe che non abbiamo compreso nulla della filosofia di quest’uomo. E’ della creazione che non ha senso ragionare filosoficamente, decidendo cioè il filosofo circa le modalità di essa, i tempi, da chi e come. Accidentalmente Galluppi ne discorre, ma sempre assumendo un tono di rispetto verso una credenza religiosa, vale a dire aprendo quasi una parentesi al discorso filosofico, cosa che è abbastanza frequente soprattutto nei suoi Elementi di filosofia che per essere rivolti "ai giovanetti", si avvalgono di esempi e di riferimenti tolti ora dalla matematica, ora dalle scienze, ora dalla letteratura ora infine dalla teologia, disciplina su cui Galluppi ha una competenza assai superiore rispetto ad altri filosofi. Ma in filosofia potrà meglio ragionarsi di "origine del mondo" e di connotazione della nozione di realtà, in quanto intellegibile o inattingibile alla mente umana, non di come e da chi sia stato creato il mondo. Per queste ragioni non ci pare un caso che, il filosofo ormai vecchio sentisse il bisogno di tornare a dare qualche chiarimento a un tema già altre volte toccato, a proposito della polemica fra Samuel Clarke e Leibniz(15). Clarke (1675-1729), teista, vescovo di Norwik, personaggio la cui memoria era onorata da tutti gli esponenti della Common Sense Philosophy aveva avuto una disputa sul tempo con Leibniz nell’ormai lontano 1715, disputa nella quale le fonti inglesi dell’epoca di Galluppi danno Clarke chiaramente vincitore nei confronti di Leibniz. Tanto che ancora nella National Biography curata da Stephen e Lee nel 1908 si asserisce che le "lettere a Leibniz dimostrano che Clarke fu un antagonista "powerful", cioè, come diremmo noi, forte, potente, gagliardo. Il saggio che Galluppi dedica a una tale questione ci pare di grande importanza, anche in considerazione dell’epoca in cui fu scritto. Quando esso appare sulla "Rivista Napolitana" è il 1839 e il Saggio filosofico è ormai già compiuto. L’articolo, inoltre, a differenza di molti fra gli inediti galluppiani, non si colloca a margine dell’opera maggiore, ma sembra nascere per la volontà di un qualche chiarimento su posizioni dell’ormai vecchio e celebrato filosofo, il quale del resto volle darlo alle stampe, diversamente da molti altri scritti. Per economia di tempo non possiamo procedere a un’analisi puntuale che lo scritto meriterebbe. Peraltro, per quanto riguarda un aspetto in esso sostanziale, esso è già stato studiato da Zambelloni, il quale in occasione del Convegno tenutosi a Tropea per il centenario della morte e il bicentenario della nascita di Pasquale Galluppi, intervenne con una assai equilibrata relazione su La controversia Leibniz-Clarke e il problema delle antinomie sulla riflessione di Pasquale Galluppi(16). Ci limitiamo pertanto a dire che la questione della creazione fa da sfondo al discorso di Galluppi, il quale mira a scoraggiare qualsiasi pretesa di risolverla con argomenti evidenti e comunque "facili". Per noi lo scritto testimonia il fatto che Galluppi si fosse reso conto della relazione che sussisteva tra l’ambizione a tutelare le verità scientifiche e la tendenza a cogliere nella regolarità degli eventi naturali la presenza di Dio. Un Dio fortemente umanizzato, secondo una prospettiva che presenta "un antropomorfismo che il filosofo dee rigettare"(17). Sicché la disputa di oltre cent’anni prima tra Leibniz e Clarke, diventa ai suoi occhi uno dei punti d’origine del modo equivoco di porsi da parte della nuova filosofia. Va detto che la questione è di estremo interesse perché non tocca solo questioni di metafisica, ma anche di fisica, cioè di concetti posti a fondamento dell’edificio logico della fisica newtoniana. Ed era questo il nodo fondamentale della complessiva prospettiva di Kant. La nozione centrale è quella di vuoto, o di "vacuo", come dice Galluppi. Dal punto di vista della fisica l’esistenza del vuoto tutela una delle concezioni più feconde della fisica classica, quella dell’azione a distanza, dal punto di vista teologico, il vuoto può apparire quale mezzo dell’azione divina con cui secondo una nota suggestione di Newton, Dio avrebbe impresso il primo moto agli astri.
L’onestà intellettuale di Galluppi Parlavamo prima dell’onestà intellettuale del filosofo calabrese. Essa sta innanzitutto nello sforzo di rimanere entro i limiti di una speculazione filosofica, filosoficamente disciplinata. Del rigore del suo filosofare in quanto riconducibile a un atteggiamento di "onestà intellettuale" nel senso appena detto si sono accorti vari commentatori, ai quali facciamo a nostra volta riferimento. Penso all’affermazione di Giuseppe Tortora, il quale serenamente suggerisce di "non far pesare troppo" i sentimenti le convinzioni di fede "nella caratterizzazione" della filosofia di Galluppi, "la quale non è una mera versione speculativa della dogmatica cattolica, se è vero che il Galluppi tiene ben distinte, metodologicamente, la sfera della fede da quella della ragione"(18) .
Penso a quanto nella sua relazione presentata al Convegno Galluppiano di Tropea del 28-30 maggio 1987, sostenne il prof. Giuseppe Agostino Roggerone:
...a Tropea insegnò per vario tempo teologia dogmatica ai chierici, senza trovarsi mai in conflitto col suo empirismo filosofico, perché nelle questioni teologiche non adoperò il metodo speculativo di deduzione razionale necessaria, in quanto esse sono afferenti ad un tempo estraneo all’indagine filosofica, contenuta entro i limiti della razionalità umana, ma seguì la regola di attenersi alle soluzioni meglio rispondenti ai bisogni del cuore dell’uomo. Con questa precisa separazione tra la sfera della teologia e quella della filosofia, Galluppi poté tenere fermo il suo rigoroso empirismo, senza porlo in urto con la sua fede religiosa(19).
Insomma che il giudizio non possa decidere intorno all’ a priori, sia pure solo individuandolo come tale, è per Galluppi logica conseguenza del fatto che esistano verità oltre le quali il nostro intelletto non può andare. Qualificare tali verità non ha senso e interrogarsi su quelle che tiranneggiano il nostro intelletto è del tutto inutile. Che per esempio il principio di identità e quello di non contraddizione valgono per il nostro intelletto è un fatto che dobbiamo solo accettare, in qualche modo astenendoci, come filosofi, da commenti. E’ una posizione insolita, ma conseguente rispetto a certe premesse.
L’impegno culturale di Pasquale Galluppi. Il punto per noi rappresenta un nodo che ci sta quasi sotto gli occhi. Non facciamo mistero circa il fatto d’essere personalmente in posizione antitetica a quella di Galluppi, e di avere da un pezzo rinunciato a indagare sulla interiorità dell’uomo. Ma non possiamo tacere per equanimità e nell’interesse superiore del progresso degli studi, che da parte di egregi filosofi contemporanei lo studio di questo soggetto ha ripreso vita, traendo spunti nuovi perfino dal cognitivismo.Diciamo perfino perché tale atteggiamento è di per sé ispirato al più disincantato agnosticismo, e può farsi consistere in una presa d’atto del fatto che l’uomo conosce, pur non sapendosi dire come questo accada. Il cognitivismo ha tuttavia dato spazio, a sorpresa, a ricerche senza fine sulla mente in quanto altro dal corpo. Una attenzione particolare si rivolge poi alle dinamiche della percezione. In altri termini si assiste, nel quadro di quello che nel mondo anglosassone si chiama il mind-body problem, a un ritorno del discorso del me, del fuori di me, della coscienza, del suo costituirsi secondo descrizioni assai più complesse di quelle proposte da Galluppi, ma che comunque riconducono il processo conoscitivo a un fatto fisiologico e non già sociale o culturale, o per meglio dire non lo riducono interamente a un fatto sociale o culturale, come suggerisce quella che abbiamo definito la vocazione della filosofia moderna. E senza bisogno di ricondursi nel vivo di questioni che potrebbero disturbare per il loro eccessivo tecnicismo, basti riferirsi a una gloria vivente della filosofia americana John Searle, il quale nel suo Rediscovery of Mind dedica un intero capitolo alla Struttura della "consciouness" o coscienza (di). Searle, riconducendosi a Cartesio ricorda che "l’uomo ha immediata e certa conoscenza dei propri stati di coscienza", ma questo non lo aiuta a capire in che cosa la coscienza consista. "Per esempio, io trovo facile descrivere gli oggetti che si trovano sul tavolo di fronte a me, ma come potrei descrivere, separatamente o unitamente, la consapevolezza che ho di tali oggetti?"(20) In questo quadro si assiste anche a una ripresa di interesse, nel mondo anglosassone, per quei filosofi della Scuola Scozzese dei quali abbiamo ragionato. Per esempio, B. Brody scrive in un articolo apparso nel 1971 su "The Monist", un’assai nota rivista di studi filosofici inglese che "fino a qualche anno fa, l’opera di Thomas Reid era nota soltanto agli specialisti della storia della filosofia e tutto quello che si riteneva da parte dei non addetti ai lavori circa Reid e la sua scuola della common sense philosophy era che Kant avesse avuto ragione a liquidarli come filosofi naif che non avevano capito nulla circa lo scetticismo in filosofia. Un tale atteggiamento su Reid è mutato molto rapidamente negli ultimi anni. Oggi un numero crescente di persone si rende conto che Reid fu uno dei più importanti filosofi britannici e che la sua opera è piena di profonde intuizioni che solo recentemente sono state poste nuovamente in luce"(21). Noi non vediamo altro che l’obbligo di far crescere il nome di Galluppi anche nel confronto con Reid, Stewart e Hamilton, esponenti della Common Sense Philosophy con cui egli si misurò. Perciò, concludendo, vogliamo offrire una prova di quel che Galluppi trasse da un confronto onesto con questi studiosi. Al di là di un atteggiamento che può apparire di polemico rifiuto, quale quello che nella brevità dello spazio a disposizione abbiamo dovuto far emergere, c’è un guadagno positivo. Dicevamo dell’impossibilità di trattare temi di carattere più propriamente religioso da parte del filosofo. Noi non ignoriamo che ragioni di carattere culturale, oltre che personali, possono indurre un filosofo italiano del primo Ottocento e un filosofo inglese della stessa epoca a porsi diversamente il problema. Nell’area cattolica il credente ha l’obbligo di un ossequio alla "verità" religiosa che gli impedisce di svolgerla senza una qualche formale autorizzazione. Il cattolico non può interpretare liberamente la Bibbia. Egli deve affidarsi alla guida spirituale del sacerdote. Anche per questo la nostra filosofia è così astratta e così difficile, ma anche per questo la nostra letteratura è ricca, al contrario, di riferimenti a tensioni spirituali che sia in positivo che in negativo la caratterizzano. Teismo e ateismo hanno così nella nostra tradizione culturale accenti lirici di indiscusso valore, come testimonia la Bellezza dell’Universo di Vincenzo Monti e il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi. Galluppi non fu poeta e Eugenio Di Carlo, il quale indagò sull’attività poetica del filosofo, ne trasse un quadro non del tutto entusiasmante. Tuttavia noi abbiamo rinvenuto presso la Biblioteca Nazionale di Roma un sonetto di Galluppi che ci risulta tuttora inedito e oltre che inedito non privo di una dignità letteraria che lo colloca a un livello superiore rispetto agli altri quattro sonetti galluppiani noti agli studiosi. Ecco il testo:
Un portentoso eclisse il sol coprio La natura apparve in nero ammanto. Franò la terra e nel gran Tempio santo Dall’alto al basso il sacro vel s’aprio.
Quei che muore sul monte è dunque un dio Se tutta al suo morir natura è in pianto. Perché dunque rubel, perverso e rio L’ebreo rimane a tai portenti intanto?
Mentr’io così ragiono un veglio alato Scender veggo dal ciel col libro in mano. Leggi, ei dice, il mistero a me svelato
Io vergai queste carte io son Daniello E’ qui scritto il destin del germe umano L’Ebreo qui leggi al Cristo suo rubello(22).
A distanza di centocinquant’anni e più certe espressioni possono lasciare qualche dubbio, e insomma la condanna del popolo ebraico per aver crocefisso Gesù appare giustamente discutibile, se riguardata nel suo aspetto di pagina della storia umana. Ma in questo contesto Galluppi parla da ispirato, riferendosi a una profezia della Bibbia, quella di Daniele che egli vedeva come argomento utile a convertire gli increduli alla fede cattolica. Lo dimostra quel che egli stesso dice negli Elementi di teologia naturale. Qui Galluppi si riferisce appunto alla profezia di Daniele, sostenendo appunto che quest’oracolo è "di un gran peso per convincere gli Ebrei e gl’increduli"(23). Al di là di questo fatto, che testimonia senz’altro quel che già avevamo detto, che cioè della fede religiosa di Galluppi non abbiamo ragione di dubitare, c’è il tono della poesia. Un tono che nella prime due quartine è decisamente "alto", la cui adozione ci pare confermare che per Galluppi ci sono temi che meritano d’essere svolti per come essi vanno svolti, secondo una prospettiva e una chiave ad essi congeniale.
Acquisizione che per noi è indice di grande modernità. La poesia si adatta alla manifestazione di un sentimento religioso. La filosofia conosce e rispetta questo aspetto della vita umana, ma non ha gli strumenti per svolgerlo. Di qui la sublimità, per usare un termine che Galluppi non avrebbe disdegnato in questo contesto, che caratterizza l’opera di alcuni nostri poeti, come Dante, Petrarca, ma anche Alfieri che Galluppi predilesse e, naturalmente, Ludovico Ariosto, del quale il nostro "Furioso" fu lettore assiduo.
BIBLIOGRAFIA
Diamo di seguito indicazione di alcune opere che riteniamo fondamentali per quanto riguarda il rapporto che abbiamo brevemente delineato tra la filosofia di Galluppi e il pensiero degli autori che si sono in Scozia riconosciuti nella Common Sense Philosophy. Avvertiamo innanzitutto che esistono scritti del Galluppi, alcuni inediti, altri pubblicati ma non facilmente reperibili, utili alla ricostruzione del rapporto intercorso tra Galluppi e alcuni studiosi di quella scuola e a verificare l’idea che il tropeano s’era fatta intorno alla loro opera.
Osservazioni filosofiche sulla differenza e sulla similitudine delle sensazioni umane, in "Giornale di scienze, lettere ed arti per la Sicilia", anno VII, 1829; Alcune osservazioni sul senso comune, in "Il progresso delle scienze, delle lettere e delle arti", Napoli, 1845, pp. 5-13; Su lo scetticismo, in "Il Sibilo", 1845; Frammenti sulla percezione, inedito; Del pensiero umano cioè del senso comune, del pensiero scientifico, del pensiero filosofico, inedito; Sulla storia della filosofia scettica, inedito; Estratti dai Saggi intellettuali del Reid, inedito.
Opere su Galluppi e il pensiero anglosassone con interesse per i filosofi scozzesi. A. CATARA-LETTIERI, Opinione del Galluppi sopra il Lockismo in "L’Eco", Messina, 1857, pp. 101 segg.; G. COLETTI, La sensazione come fatto a sé e l’attività logica in Galluppi, in "Annali del seminario giuridico-economico della R. Università di Bari", Bari 1935, pp. 118-120; M. F. SCIACCA, La filosofia di Tomaso Reid con un’appendice sui rapporti con Galluppi e Rosmini, Perrella, Napoli-Città di Castello, 1935.
Note
1. P. GALLUPPI, La Filosofia della Matematica a cura di G. Lo Cane, Centro Studi Galluppiani Tropea, Edizioni Mapograf, Vibo Valentia, 1995. 2. Su questa vicenda, peraltro assai nota, vedi S. ROMAGLIOLI, Il "Caffé" tra Milano e l’Europa, in G. FRANCIONI-S. ROMAGNOLI, "il Caffé". !764-1766, Bollati Boringhieri, Milano 1993, p. XXXIX. 3. Per quanto riguarda l’ambiente siciliano, rinviamo alle seguenti pubblicazioni che illustrano l’importanza che il pensiero di Galluppi ebbe presso molti studiosi siciliani (Antonio Catara Lettieri, Vincenzo Tedeschi Paternò Castello, Agatino Longo, Giuseppe Accordino per limitarsi ai nomi più noti) i quali fecero professione di galluppismo: E. DI CARLO, La filosofia di Pasquale Galluppi in Sicilia, in "Annali dell’Università di Urbino", vol. II, Roma, 1927; G. OLDRINI, La cultura filosofica napoletana dell’Ottocento, Laterza, Bari 1973, p. 103; E. CONTI, Divulgazione della Filosofia del Barone Galluppi in Sicilia, in "Atti del Convegno galluppiano di Tropea del 28-30 maggio 1987, Brenner, Tropea 1990, pp. 115-116; G. COTRONEO, Kant nella cultura siciliana, in AA.VV., La tradizione kantiana in Italia, Edizioni G.B.M., Messina 1996, pp. 236-293. Per l’ambiente napoletano, resta importantissimo G. Gentile, Storia della filosofia dal Genovesi al Galluppi, voll. 2, La Nuova Italia, Firenze 19292; G. OLDRINI, op. cit.; Id. Napoli e i suoi filosofi. Protagonisti, prospettive, problemi del pensiero dell’Ottocento, Franco Angeli, Milano, 1990; G. Tortora, Pasquale Galluppi e il materialismo del Settecento francese, Loffredo, Napoli 1989. E’ sempre da Tortora che apprendiamo del’entusiasmo di Greene per Galluppi (G. Tortora, Op. cit., p.104, n. 261). Per quanto riguarda Victor Cousin e l’ambiente francese, la bibliografia è assai ampia. Per un inquadramento generale può essere utile G. Tortora, Op. cit., che porta anche una nutrita bibliografia. 4. William Hamilton (Glasgow, 1788-Edimburgo, 1856). Compiuti gli studi a Glasgow, Edimburgo e Oxford, insegnò dal 1821 fino al ’56 all’Università di Edimburgo. Seguace delle teorie di Reid e di Dugald Stewart, orientò la Common Sense Philosophy verso prospettive vagamente kantiane. Le Lectures on Metaphisics, London-Edinburgh, 1877 sono la sua opera più nota. Ebbe un suo momento di notorietà nell’ambiente napoletano, tanto che si scrisse su di lui. Cfr. S. CUSANI, D’un’obbiezione dell’Hamilton intorno alla filosofia dell’Assoluto, in "Il Progresso", Napoli, 1840, pp.28-30. Su Hamilton, come sugli altri esponenti della Common sense Philosophy, resta fondamentale J. McCOSH, The Scottish Phisophy, Biographical, Expository, Critical, from Hutchenson to Hamilton, Thoemmes Reprints, Bristol-Kinokuniya, Tokio, 1990, pp. 415-460; inoltre J. VEITCH, Sir William Hamilton, Edinburgh, 1869; S. A. GRAVE, The Scottish Philosophy of Common Sense, Oxford, 1960; E.H. Madden, Sir William Hamilton, Critical Philosophy, and The Commonsense Tradition, in "The Review of Metaphisics", 1985, pp. 839-866. Per quanto riguarda i rapporti con Romagnosi si veda G. Romagnosi, Recensione a P. GALLUPPI, Degli Elementi di filosofia, in "Biblioteca Italiana", 1827; ID.Recensione a P. GALLUPPI, Lettere filosofiche, in "Biblioteca Italiana", 1828. Cfr. G. DI NAPOLI, La filosofia di Pasquale Galluppi, Cedam, Padova 1947, con bibliografia. E’ proprio dall’appendice bibliografica che si ricava l’indicazione al numero 103 e 104 degli Scritti di Romagnosi su Galluppi. Di Napoli però non dà notizia di una recensione anonima apparsa sempre sulla "Biblioteca Italiana" nel 1831 sulla galluppiana Introduzione allo studio della filosofia per uso dei fanciulli, R. Marotta e Vanspandoch, Napoli 1831. Su Rosmini e Galluppi G. TORTORA, Op. cit., pp. 41-45. Circa una loro intesa iniziale, poi mutatasi in contrasto si veda innanzitutto A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, Roma 1830, quindi G. DI NAPOLI, Il Carteggio tra Pasquale Galluppi e Antonio Rosmini, in Il problema morale come problema della costituzione del soggetto, e altri saggi, Firenze 1942, pp.155-166; ID. La filosofia di Pasquale Galluppi, Padova, 1947, dove si illustra il carteggio polemico fra i due filosofi; G. PUSINERI, P. Galluppi e A. Rosmini nel loro carteggio, in "Rivista rosminiana", 1925, pp. 90-120. Su Gioberti e Galluppi si veda: G. GENTILE, Lettere inedite di Vincenzo Gioberti e Pasquale Galluppi, in "Giornale Critico della filosofia italiana", 1920, pp. 74-83; G. BALSAMO CRIVELLI, Gioberti-Massari. Carteggio (1838-1852), Torino, 1920. Su Poli, cfr. A. ZAZO, Per la biografia di P. Galluppi e O. Colecchi, in "Samnium", Anno III, 1930, p. 90. Infine su Haywood si veda S. LEE (a cura di), Dictionary of National Biography, vol XXII (Supplement), Smith, Elder & Co., London 1909, p. 832. 5. Su questo tema e la sua risonanza in Europa, cfr. E. GARIN, Storia della filosofia italiana, vol. II, Einaudi, Torino 1978, vol. II, p. 912 e segg. 6. P. Galluppi, Lettere filosofiche. Lettera XII. Come la dottrina di Hume e quella di Reid condussero Kant al trascendentalismo. 7.Di Feyerabend si veda Dialogo sul metodo, Laterza, Bari 1989 e Ambiguità e Armonia, Laterza, Bari 1996. Per quanto riguarda Lakatos, si valuti la seguente considerazione circa il rapporto tra i "giudizi" (le proposizioni) e i fatti (cioè i contenuti delle percezioni): "le proposizioni possono soltanto essere derivate da altre proposizioni, non possono essere derivate da fatti: non si possono dimostrare enunciati sulla base di esperienze, non piú che battendo il pugno sul tavolo". (I. LAKATOS, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifica, in AA. VV.,Critica e crescita della conoscenza, Milano, 1976, p.173). 8. A indicare che il percorso kantiano non è poi così immediato, può ricordarsi quanto ne dice Francesco Gagliardi, proprio a proposito dell’obiettività: "L’intelletto puro -afferma lo studioso-, in quanto fonte (Quell) dei giudizi sintetici a priori che delineano l’orizzonte di obiettività al cui interno qualcosa si può presentare come oggetto, si configura pertanto come la fonte di ogni oggetto e come il fondamento della stessa verità, se essa consiste "nell’accordo di una conoscenza col suo oggetto", vale a dire nella "adaequatio intellectus ad rem." (Cfr. F. GAGLIARDI, Kant e il problema dell’omtologia, Bibliotheca, Gaeta 1998, p. 73) Noi non abbiamo timore a dire che sia un po’ sofistica la conclusione a cui giungono tanti commentatori nell’affermare che Kant diede risposta diretta a Hume. A noi questo appare "vero" solo a condizione che si veda nella filosofia di Hume un’insufficienza strutturale, premessa per intendere come legittima e necessaria l’operazione di Kant. A questo patto, ma solo a questo patto, è condividibile un’ acuta osservazione di Susan Neiman che non a caso diventa giusta in una tale prospettiva storiografica, per cui Kant avrebbe superato il punto di vista di Hume la cui "riduzione della nozione di causalità all’osservazione di eventi in regolare connessione era il rifiuto del perfetto ordine che si pensava pervadesse l’universo". ( S. NEIMAN, The Unity of Reason. Rereading Kant, Oxford University Press. New York-Oxford, 1994, p. 35). Dove "perfetto ordine" è assai equivoca espressione, la volta che ci si collocasse secondo una prospettiva galluppiana. Infatti da un lato significa "assoluta intellegibilità", vale a dire "chiara nozione dell’ordine meraviglioso che pervade l’universo", dall’altra "stupore per un’opera non compiuta, ma trovata dall’uomo". Due significati che si escludono a vicenda, perché se capisco l’universo, non ho ragione di stupirmene, se me ne stupisco è perché qualcosa sfugge alla mia comprensione. Ancora più esplicito ci appare in questo senso William H. Brenner, il quale sostiene che "la risposta di Kant a Hume...è che il principio di causalità è presupposto dalla percezione degli eventi, non deriva da essa" (W. H. BRENNER, Elements of Modern Philosophy: Descartes through Kant, Englewood Cliffs, NJ, Prentise-Hall, 1989, p. 128). Posizione quest’ultima inconciliabile con il presupposto galluppiano di una neutralità del giudizio umano di fronte alle massime questioni metafisiche, la cui decidibilità è, per definizione, fuori della portata della mente umana, la quale non dovrebbe neanche affacciarsi a indagare quel che indagherebbe invano. 9. TH. REID, Intellectual Powers, VI. IV, citato in S. A. GRAVE, op. cit., p. 148. Thomas Reid (1710-1796) è comunemente considerato quale caposcuola della Common Sense Philosophy. Ordinato sacerdote, si diede all’insegnamento e nel 1764 ebbe la cattedra di filosofia morale all’Università di Glasgow. Recentemente la sua opera è stata oggetto di rivalutazione ed è sorto un Progetto Reid, volto alla promozione della conoscenza dell’opera reidiana nel mondo (sito internet con indirizzo http://www.abdn.ac.uk/cpts/reidstu.htm). Il Progetto Reid ha la sua base operativa nell’Università di Aberdeen, presso la quale si conservano alcuni suoi manoscritti. Tra le opere maggiori di Reid vanno ricordati i Philosophical Works, pubblicati a cura di William Hamilton nel 1846, che comprendono diverse opere di Reid, fra cui An Inquiry into the Human Mind on the Principles of Common Sense; Essays on the Intellectual Powers of Man e A Statistical Account of the University of Glasgow. Recentemente l’Inquiry e gli Essays sono stati ripubblicati rispettivamente nel 1970 e nel 1990 per quanto riguarda l’Inquiry e nel 1941 per quanto riguarda gli Essays. Per la bibliografia si rimanda al sito internet del Reid Project. 10. Ci riferiamo in particolare alla pag. 13 dell’Abstract dove di parla di "un uomo senza esperienza alcuna, una specie di Adamo, creato nel pieno vigore delle sue facoltà mentali" 11. In questo senso, poiché non si tratta di dare ragione a un filosofo contro l’altro, preferiamo dire che Kant interpretasse meglio di altri un’esigenza diffusa, mirando a organizzare nel modo più credibile una materia per niente facile a essere trattata. Diremmo anzi che Kant vi aggiunge qualcosa che agli altri filosofi, Galluppi compreso, era con tutta probabilità sfuggito ed è appunto la formalizzazione sul piano epistemologico dell’intera questione, che comporta proprio una via d’uscita, sia pure faticosa e perfino sofferta in alcuni punti, da una prospettiva gnoseologica tradizionale. E per chi abbia alla mente le pagine della Critica della ragion pura, non sembrerà a questo punto casuale l’agilità con cui Kant conduce il discorso nell’ estetica trascendentale, di fatto sottraendosi ad una definizione del ruolo che ciascuno dei cinque sensi ha nel realizzare la conoscenza. Questo topico della letteratura filosofica francese dell’epoca, a cui fa riscontro negli Scozzesi, un’ampio riferimento alla casistica specifica, viene quasi meno nella Critica della Ragion pura. E Galluppi? Per la delineazione della prospettiva galluppiana uno studioso italiano ha creduto di poter introdurre il termine di "coscienzialismo". Termine che secondo noi è assai efficace e interessante, ma rischia, di corrispondere all’esigenza di collocare la filosofia di Galluppi in un "prima di Kant", senza neanche dargli l’onore di aver partecipato alla preparazione della cosiddetta aetas kantiana (cfr. ; G. OLDRINI, La cultura filosofica napoletana dell’Ottocento, pp.51-114). Aggiungiamo che comunque il problema di una sostanziale mancata frontalità rispetto alla questione sollevata dallo scetitticismo di Hume appartiene effettivamente alla storia della filosofia europea, per cui, pur riconoscendosi da parte di tutti la grandezza di Kant, che ha quasi travolto le filosofie a lui contemporanee, Hume ha conservato intatta una sua autorità e ciò contribuisce a rimettere in qualche modo in gioco la prospettiva di Galluppi, come i più o meno sottili distinguo di sensazione e percezione di Reid e Stewart. 12. The Failure of Thomas Reid’s Attack on David Hume, in "British Journal for the History of Philosophy", 1995, pp. 389-398. 13. M. F. SCIACCA, La filosofia di Tomaso Reid, op. cit. p. 215. 14. J. McCOSH, The Scottish Phisophy, Biographical, Expository, Critacal, from Hutchenson to Hamilton, Thoemmes Reprints, Bristol-Kinokuniya, Tokio, 1990, p. 211. 15. Su Samuel Clarke e l’importanza da lui avuta nella cultura del Settecento inglese, possono consultarsi L. STEPHEN, History of English Thought in the Eighteenth Century, vol I, Smith, Elder & Co., 1876, pp. 119-134. Circa l’influenza da lui esercitata su Reid cfr. S. A. GRAVE, The Scottish Philosophy of Common Sense, op. cit. p. 26. 16. Il saggio di Galluppi è già stato discusso e studiato da Zambelloni, specialmente per la parte più interessante, che riguarda la posizione del tropeano rispetto alla questione delle antinomie kantiane. Cfr. F. ZAMBELLONI, La controversia Leibniz-Clarke e il problema kantiano delle antinomie, in AA.VV. Studi galluppiani. Atti dei convegni tropeani per il centenario della morte ed il bicentenario della nascita di Pasquale Galluppi, Tropea 1979, pp. 151-163. 17. P. GALLUPPI, Osservazioni su la controversia fra Leibnizio e Clarke, relativamente allo spazio, in "Rivista Napolitana", 1839, pp. 9-37. 18. G. TORTORA, Op. cit., p.32. 19. G. A. ROGGERONE, Galluppi e l’empirismo critico, in AA.VV. Studi Galluppiani. Atti del Convegno Galluppiano di Tropea del 28-30 maggio 1987, Brenner, 1990, pp. 186-187. 20. J. R. SEARLE, The Rediscovery of the Mind, The Mit Press, Cambridge, Massachusetts - London, England, 1994, p. 127. 21. B. BRODY, Reid and Hamilton on Perception, in "Monist", 1971, pp. 423-441. 22. Il sonetto si conserva in sala Manoscritti della Biblioteca Nazionale di Roma con segnatura A133-60. 23. P. GALLUPPI, Elementi di teologia naturale, Capo V, § 50.