di Paolo Emilio Imbriani
A PASQUALE GALLUPPI CHE IN ETA' PROSTRATE E LORDE DI SERVAGGIO OSO' LEVARSI ALL'ANTICO CIMENTO ITALICO INVESTIGANDO LE LEGGI ETERNE DEL PENSIERO UMANO
L'ACCADEMIA DI SCIENZE MORALI E POLITICHE AUSPICE LA LIBERTA' POSE IL DI' XIV DI MARZO MDCCCLXVII
Nacque in Tropea Il dì di II di aprile MDCCLXX morì il dì XIII dicembre MDCCCXLVI.
Ed ecco il discorso di Paolo Emilio Imbriani.
L'Accademia di Scienze Morali e Politiche che non potea vivere se non di libertà, fu qui fondata sotto gli auspici del Principe Eugenio di Savoja in maggio 1861. Essa si manifestava in Napoli nel 1864, come a Parigi nel 1830, dopo una rivoluzione e qual prima necessità della ragione libera, che intende a conoscere e perfezionare gli ordini morali ed a consolidare nelle coscienze le conquiste politiche e sociali. D'altra parte si coronava e compieva il dificio complesso della scienza umana, la quale ridotta ne'confini fisici, matematici ed archeologici senza le forze e gl'intenti della filosofia, è scienza da governi assoluti che rompe gli spiriti e falsa le cose; è scienza da béveri e da pecchie, poco più, poco meno; certo, là intorno. E comunque alacri e pellegrine menti si adoprassero talvolta appo noi in codesti nobili studi, nè gli studi ne fiorirono, nè gli studiosi ne vennero in fama, poichè la servitù ai tempi di Omero, come ai nostri, dimezza l'uomo; e la dimezza là segnatamente, dove più debbe essere intero, nell'opera del sapere, e ne'campi interminati dell'intelligenza, e nell'ardua ricerca del Vero e del Buono umano. Sorta appena l'Accademia, volse il pensiero a ricordare con reverenza quei pochi, che aveano potentemente avvertito il bisogno di ristorare filosoficamemte l'intelletto napoletano dopo le sciagure del 1799 nel cominciare del presente secolo XIX. E tra que'pochi la elezione non potea riuscir dubbia. Un busto marmoreo a Pasquale Galluppi fu commesso dall'Accademia a Beniamino Calì; ed oggi codesto busto collocato fra altre onorate memorie d'ingegni napoletani e proposto ad esempio alla gioventù dell'Ateneo nostro, s'inaugura in una concordia stretta di tre pensieri, di cui l'autorità del Rettore volle comporre una festa scientifica universitaria: la reverenza del sapere in Pasquale Galluppi, lo stimolo al sapere ne'forti e larghi ordini liberi costituiti, di cui è a capo ed a presidio il re nostro, del quale oggi ricorre la nascita; - quel re, la cui mercè si sono avvalorati del pari due principi fieramente commossi e vacillanti sinora, l'onestà della Monarchia e la libertà de'popoli. Vittorio Emanuele è la composizione dialettica ed organica de'due principi nella libertà presente italiana, ed è la soluzione storica dell'arduo problema dell'Unità d'Italia. Ma è perchè preferiamo noi il Galluppi? Nessun'altra intelligenza napolitana si cimentò per avventura nella prova medesima durante mezzo secolo? Come i tempi corsero così sterili fra noi? Donde si originò tanta lacuna, e come fu possibile sì acerba discontinuità metafisica nella mente nostra? Signori, due fatti gravi e solenni ebber luogo nelle terre nostre tra lo scorcio del secolo passato e il principio del presente, nel termine di soli sei anni, - la riazione di giugno 1799, e l'occupazione straniera di Napoli in febbraio 1806. - Fabrizio Ruffo e Orazio Nelson dall'un canto, e dall'altro Cristoforo Saliceti, Pier Luigi Roederer e i due luogotenenti Napoleonidi. Ecco in due cause, sanguinosa riazione domestica e gallonata dipendenza straniera: fu barbarie corsa e ricorsa, fu abolizione di pensiero e di coscienza nazionale. Polizia, finanza, dinastia, ordini militari ci venner di fuori: fummo organizzati da uomini francesi, a modo francese, per l'uso di Francia. Noi fummo allora chiariti che per la salute nostra valevan del pari, governo di sangue, e governo di fumi: tutti e due negano la dignità umana. l'umo uccidendo, l'altro prostrando gli animi. Dura opzione, chi avesse a scegliere fra due simili brutti; ma l'uomo onesto preporrà sempre il governo della scure a quello dell'anticamera, finchè non gli abbia distrutti amendue. Almanco l'onore è salvo. Quanto ci avea di altezza d'intelligenza, di animi generosi cadde fra noi, nel 1799, sotto il ferro e con la rudente del carnefice. Le storie di Francesco Lomonaco, di Vincenzo Cuoco, di Pietro Colletta attestano ai presenti i danni inferiti alla civiltà napolitana da'codardi che riedevano da'brulli Nebrodi e dalle orgie di Palermo e di Messina. Noi li sentimmo narrati da quei pochi, a cui fu dato di campare per la pace di Firenze dalle fosse umide e buie di Maretimo e di Favignana, dal cieco Coccodrillo di Castelnuovo e del ferrugigno mastio del Forte d'Ischia. Noi accogliemmo la severa parola presso a'focolari della famiglia e la tramandammo viva ed efficace alle generazioni presenti, che risposero con le urne del 21 di ottobre 1860 alle carneficine del 13 giugno 1799. La risposta si fece attendere, ma essa fu adeguata e piena. Con tante morti de'migliori il sapere napolitano patì una profonda lacuna. La mancanza di continuità nella storia del nostro pensiero è attestata dalla distanza delle due civiltà e dal carattere distinto che assunsero. Napoli fu priva de'suoi maestri per violento moto di tirannide; e la civiltà nostra residua dovette intendere a rifarsi con gli scarsi frammenti della immensa civiltà abbattuta al ponte della Maddalena e segnatamente in piazza di Mercato. E dove ancora si ponga mente che la civiltà nostra nel secolo passato diffusa nelle classi medie e supreme, non era penetrata nelle masse folte ed inferiori del popolo, si scernerà manifesto che lo spegnersi di quei magnanimi sommi portò via seco quanta luce ci avea nella società nostra, e la direzione mancò alla vita nuova delle generazioni superstiti. Ci fu solenne e abrupta interruzione di civiltà. A questo danno, che nessun'altra società europea ebbe allora a patire e segnatamente nel resto d'Italia nostra, si aggiunse una miseria comune di invasione e di servizio forestiero. Noi napoletani, già gravemente percossi dalla precedente ed immediata sciagura, avemmo a durar questa seconda; la quale per lo stato speciale nostro incarnò più pieno e più schietto e genuino l'indirizzo straniero, qui egregiamente organizzato, al quale inservivano gl'interessi nostrani. Fummo ne'lacci, comunque a udir taluno fossin lacci d'oro. Vuolsi che a codesta strana civiltà politica acutamente alludesse quel vivace spirito di Aurelio Bertola nella sua favola CXV, quando egli si dichiara apertamente non esser della razza di coloro che l'hanno in pregio. Di siffatta ipocrita libertà fa a noi fede lo Statuto di Bajona, che chiudeva la quintessenza de'governi detti illuminati, ed era stato consentito dallo stesso Napoleone I° (il quale parmi dovesse intendersi un poco di napoleonismo): Statuto promesso e non voluto mai eseguire da re Gioacchino Murat. Il servidore ne volea più del padrone, ed il zelo suo arrabbiato era più imperiale dell'imperatore. Siffatta doppia sciagura rende a noi ragione ancora dell'interrotto corso del pensiero filosofico fra noi, dell'interrotto andamento civile napoletano. La mente di Mario Pagano e il cuore di Gabriele Manthonè erano mancati: Napoli scienziata e patriottica (lo diremo schiettamente) allo scalpitare dei cavalli francesi di Andrea Massena sulle rive di Volturno era già da sette anni negl'ipogei; lì proprio! Il terreno morale era preparato a male, senza iniziativa propria, tutto volto alla imitazione altrui. La dipendenza politica e scientifica ci toccavano in sorte. Vae victis, disse Brenno, e fu punito in Roma antica; vae victis, ripetè dopo ventidue secoli in Napoli Giuseppe Bonaparte, e fu festeggiato. Era atto di servi, che nasceva da coscienza di fiacchi. Il Galluppi che nel 1807, dava per le stampe un cenno de'suoi studi severi e romiti, ritraeva qualcosa dell'intento antico del pensiero italiano. Schivo egli era e sdegnoso della scuola sensualista francese sì per la grettezza della indagine e sì per le conseguenze morali e civili di quel sistema, le quali o disordinano la libertà col contratto sociale o apparecchiano la servitù con la norma della utilità generale. Si attenne a novelli criteri, e si fece ad esaminare i fatti interni della coscienza umana, i quali a lui parvero abbastanza gravi e fecondi per la cognizione dell'uomo. Altri in quel cammino nelle libere terre della investigazione filosofica, poste al norte di Europa tra le giogaje Grampie e l'erboso vertice de'Cavioti, lo avea preceduto. Il nuovo cammino tenuto con ispiriti sagaci, ma cauti, tra il fragore delle armi e l'impero de'vieti sistemi, non venne avvertito, come pur meritava: ed aspettò molti anni per conseguir l'attenzione de'pensatori italiani, a'quali finalmente parve un gran che l'aver egli osato nel 1807 metter da canto la scuola di Condillac e di Bonnet, l'aver voluto altra cosa, l'aver fatto da se. L'ardimento a quei giorni era pegno di forze razionali che han coscienza di sè medesime, ed impazienti del fatto si ripongono a fare, sole, nel silenzio, con serietà. Dopo trent'anni Terenzio Mamiani nel suo libro del Rinnovamento della Filosofia antica italiana fece splendida menzione del filosofo tropeano (Parte 1a, cap. X, § 1° in fine); ed accennò que'pregi, che sarà obbligo di svolgere ampiamente in chi vorrà scrivere la storia del moto filosofico italiano nel primo terzo del secolo presente. Le dottrine sensualistiche in que'tempi eran rappresentate in Napoli da due uomini, certo di non volgare ingegno, che scrissero amendue nell'esiglio, l'uno stampando in Lugano sotto lo pseudonimo di Lallebasque e l'altro a Parigi. Ma que'due continuavano una dottrina esautorata, e l'accompagnavano nella vita civile di tutto il corteo turpe delle conseguenze ordinarie e naturali di que'principi razionali. La morale di Diderot, d'Elvezio e del Marchese d'Argens si rivelò piena nelle vite politiche di Pasquale Borrelli e di Francesco Paolo Bozzelli, l'uno prefetto di polizia nel 1820 e macchinatore contra gli ordini liberi, l'altro prostrato nella reggia di Ferdinando II, ministro di riazione e stoffa di corte borbonica dopo il 1848. La filosofia del senso e la morale della felicità e dell'interesse produceva i suoi effetti, generando l'uom di Polizia e l'uom di Corte! E chi voglia vedere come negli ordini ideali tutte le branche singole sieno cognate e necessariamente congiunte, ricorderà eziandio come il Bozzelli in estetica affermasse nel giornale il Pontano, che verso il 1840 si pubblicava dalla stampa napolitana, due essere i sensi eminentemente estetici nella creatura umana, il tatto ed il palato: metafisica ghiotta e molto acconcia come ognun vede, alle cortigiane ed ai rosticcieri! La tempera dell'animo e l'indirizzo filosofico del Galluppi lo rendettero immune da molta labe de'tempi, e la sua memoria è cara e venerata per le sue virtù private. E noi lo teniamo in pregio: ma certo avremmo desiderato che la sua dottrina filosofica non si fosse ristretta nelle sue applicazioni alla vita esterna; avremmo voluto che il buon filosofo ci avesse generato il patriota. Chè (ci pesa il notarlo) la parte meno lodevole nel suo corso filosofico è la filosofia morale, povera e strema di fondamento razionale, destituta di ogni allta idea informatrice della personalità umana. Da que'concetti non si generano i grandi, nè i buoni cittadini. A noi duole di avere a ricordare un altro lavoro, che col titolo dà chiaramente a divedere, che l'etica sociale del Galluppi non s'ispirava a norme supreme e comprensive. Chi scrisse i pensieri filosofici sulla libertà compatibile in qualunque forma di Governo, mostra di non aver posto mente, che la libertà o è piena o è nulla, che una delle libertà conceduta ne chiama di necessità un'altra, e che un Governo il quale ne ammette una dovrà ammetter le altre o tosto o tardi. Poichè in realtà si comprende logicamente o un governo despotico o un governo libero: ma non si comprende un governo a mezz'aria, tra il dispotismo e la libertà, che al più potrà essere una forma storica e temporanea nell'organamento dello Stato: non si comprende una libertà a centellini, tollerata e che vive non di diritto proprio ma di buona grazia de'reggitori. Certo non potea il Galluppi nel segreto della mente sua non ricordare, come Benedetto Spinoza qualche secolo prima nel suo Trattato Teologico-Politico (cap. XX) poneva la libertà, come ultimo, precipuo e diretto fine della istituzione Governo, che suona Stato ai moderni. Dottrina che ai dì nostri ha professato ne'suoi scritti così solennemente sulla riva occidentale atlantica Guglielmo Ellery Channing, contemporaneo del Galluppi. Non ci ha Stato razionalmente formato, che non affermi libertates omnes et omnium, le quali non riconoscono limitazione tranne nel confine etico o nella necessità morale umana. Chi non conoscesse la bontà del Galluppi, potrebbe sospettare che quello scritto gli fosse stato inspirato da un senso di riconoscenza al napoleonismo ed alla dinastia corsa1 o caorsina2 che allora ci pesava sulle spalle; ma il lavoro rimase allora inedito, e ciò salva la fama dello scrittore. Noi che pregiamo altamente il Galluppi, non si vorrebbe che avesse dettato neppure lo Sguardo dell'Europa sul Regno di Napoli per la poca cognizione che manifesta, delle condizioni europee nel 1820, e per l'innocenza de'desideri e dell'aspettazione; come non si vorrebbe che avesse creduta possibile un'onesta cattedra di filosofia sotto Ferdinando II accettandola; e che infine un figliuolo del Galluppi fosse morto gendarme borbonico combattendo a Cosenza in marzo 1844. Quando ricordo ciò, ricordo cosa che mi duole; ma per cessare le idolatrie scientifiche è mestieri che i giovani sappiano il vero. Noi oggi proponiamo nel ricordare il Galluppi molto da seguire, qualche cosa da cansare. L'autorità del nome non ne debbe far velo al giudizio: le parole nostre ne acquisteranno autorità maggiore, e la lode sarà stimata perchè temperata e di lodatore osservante del vero. Il mio filosofo (tale io lo vagheggio) debbe poter dire morendo un'antica ed altera sentenza, degna degli egregi uomini: Invicem experti sumus ego et Fortuna. Il cimento e il travaglio della vita è il suggello della vita del filosofo. Perchè il Galluppi nol pote dire? Molti napoletani filosofi lo avean già detto. E' ormai tempo che le antiche tradizioni che il Galluppi ridesta con l'opera modesta e continua di tutta una vita, accendano gli animi nostri a seguirle. Rammentiamo le grandi epoche del nostro pensiero filosofico nel mezzodì d'Italia e non ne dimentichiamo gli obblighi. I pitagorici ed i pitagorei ci ricordano Ocello Lucano, Timeo di Locri, Filolao calabro, Archita tarentino filosofo e cittadino. Quella scuola di filosofia italica ci dette una schiera di pensatori che discutendo della natura dell'universo, non mettevan da canto il buon governo della città. La scuola eleatica venuta dopo ebbe Parmenide e Zenone di Velia, i quali da un lato scrutavano confidenti le Cause Prime e dall'altro con ardimento profondo rupper guerra all'apparenza e cercarono e costituirono fuori di essa la legge della realtà. E facendoci al mondo moderno, chi vorrà compararsi a Tommaso d'Aquino nel secolo decimoterzo, il quale si appalesò la testa più vasta e più forte degli scolastici sia nel tentare la costituzione dell'essenza divina, sia nel porre le norme della vita civile dei popoli? E chi potrà da ultimo negare i magnanimi intenti che dopo Telesio si manifestarono in Lucilio Vanini, in Giordano Bruno, in Tommaso Campanella, i quali aprendo più vie larghe vie al pensiero umano e rompendo guerra allo Stagirita, ad Averroe, ai chiostri, si fecero testimonii delle loro coscienze e de'nuovi bisogni della civiltà moderna, salendo i roghi di Tolosa e di Roma, o sobbarcandosi alle pertinaci e ripetute torture di Castello dell'Uovo? Le parole che oggi pronunzio non rimarranno senza effetto fra noi, ove i forti studi accompagnino ed aiutino e rendano possibili i generosi propositi; ove non si disgiungano mai e per guisa alcuna la vita contemplativa e l'attiva, il filosofo e il cittadino. E con questi voti suscitati dalla immagine di Pasquale Galluppi, degnamente conchiuderemo la ceremonia nostra, traendo i prossimi auguri della presenza de'giovani congregati ad assitere alla premiazione universitaria del passato anno accademico. Macti virtute estote, juvenes itali!
NOTE 1 Giuseppe Bonaparte 2 Giovacchino Murat