La Memoria Apologetica
di Pasquale Galluppi
 

di Angelo Marocco
   Información Filosófica, Roma, Italia


Resumen: La Memoria Apologetica non è solo la prima pubblicazione di Pasquale Galluppi, ma costituisce anche l’unica testimonianza del suo pensiero giovanile. A lungo si è considerato l’opuscolo un lavoro immaturo, frutto dell’impeto giovanile dettato dalle sollecitazioni delle lezioni di Francesco Conforti, adesione a una moda giansenista, maturata soprattutto a partire dalle conversazioni  con Carlo Santacolomba. Il presente lavoro si propone di mostrare come invece la Memoria esemplifica bene la direzione metodologica intrapresa da Galluppi e rappresenta un documento importante per una più approfondita comprensione del senso e del peso della sua opera nel suo complesso storico-culturale.


Angelo MAROCCO è nato a Roma nel 1964. Ha studiato a Roma dove, a partire dal 1983, ha seguito i corsi di filosofia presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata e dove nel 1988, sotto la guida del prof. Armando Rigobello, si è laureato discutendo la tesi La prospettiva morale nel pensiero di Pasquale Galluppi.
Dal 1990 al 1992 ha trascorso un periodo di studi all’estero, dapprima presso l’Università di Salamanca e successivamente presso l’Università di Würzburg. Durante il soggiorno in Germania ha frequentato la Franz Brentano Forschung in qualità di wissenschaftlicher Mitarbeiter sotto la direzione di Franz Wiedmann e Wilhelm Baumgartner.
In questi anni ha sviluppato il proprio lavoro soprattutto attraverso lo studio dei manoscritti brentaniani a Würzburg. Nello stesso tempo ha rivolto i propri studi alla filosofia spagnola, in particolare al pensiero di Miguel de Unamuno. Nel 1996 ha conseguito il dottorato in filosofia presso l’Università di Roma Tor Vergata con il lavoro La dimensione teologica dell’esperienza di pensiero di Franz Brentano.
Dal 1998 è coordinatore redazionale della collana Studi di filosofia (Armando Editore) curata dalla Pontificia Università della Sacra Croce, collaborando anche con la rivista Acta Philosophica. Dal 1999 ha pubblicato alcuni articoli e recensioni per conto della FAI-Cisl presso le riviste FAI Documentazione e Opinioni.
Dal 2000 fa parte della segreteria di redazione del Bollettino di Filosofia Politica presso il quale ha pubblicato alcune recensioni e attualmente cura la pagina Eventi. Inoltre, collabora con il Sito Web Italiano di Filosofia, curando in particolare le pagine Studiosi di filosofia politica nel mondo e Dottorati e siti filosofico-politici italiani per il Quaderno di filosofia politica. Sempre per lo SWIF collabora con il servizio recensioni.
Nel settembre del 2000 consegue l’abilitazione all’insegnamento di storia e filosofia nei licei. Nell’anno accademico 2000-2001 svolge l’attività di tutorato per la cattedra di Filosofia della Religione presso l’Università di Perugia.
Attualmente è direttore editoriale del Dipartimento Pubblicazioni dell’Università Pontificia Regina Apostolorum di Roma. Presso lo stesso ateneo svolge attività didattica come professore incaricato della facoltà di filosofia.
 



 

L’attenzione maggiore che caratterizza la ricerca filosofica italiana contemporanea è per lo più rivolta a pensatori e correnti speculative straniere. Lo studio della filosofia italiana, forse in reazione alla chiusure nazionalistiche tra le due guerre, risulta piuttosto trascurata. In questo senso si comprende meglio la singolare parabola di Pasquale Galluppi. Egli ha costituito un riferimento importante, privilegiato, non solo per filosofia del suo tempo, ma anche in seguito rimase sotterraneo ispiratore di varie generazioni di giovani. Oggi pare di poter dire che egli è autore pressoché dimenticato. L’influenza da lui esercitata si deve al fatto che ebbero una buona circolazione, anche a livello scolastico, sia i suoi Elementi di filosofia (per Gentile «i migliori testi di filosofia per le scuole») [1] , che le sue Lettere filosofiche, considerata da Francesco Fiorentino l’inizio della storia della filosofia in Italia [2] .

L’attività del Centro Studi Galluppiani assieme alle attività editoriali delle Edizioni Rubbettino si propongono di riportare all’attenzione la feconda e la vivacità intellettuale del pensatore calabrese. La recente pubblicazione della Memoria Apologetica nell’edizione curata da Luciano Meligrana, Presidente del Centro Studi Galluppiani, sembra così proporre una rinnovata riflessione sul pensiero del filosofo calabrese [3] . Si tratta di operazione quanto mai meritoria, perché viene riproposto alla lettura del grande pubblico uno scritto di cui pare fosse accertata l’esistenza di una sola copia presso la Biblioteca Angelica di Roma. Non ci si deve sorprendere, pertanto, se, come scrive Eugenio Di Carlo, importanti studiosi del pensiero di Galluppi, quali ad esempio Giovanni Gentile e Augusto Guzzo, «mostrano di non aver avuto in mano questo breve opuscolo» [4] .

La Memoria Apologetica rappresenta non solo la prima pubblicazione di Galluppi, ma costituisce l’unica testimonianza del suo pensiero giovanile. È vero, a lungo si è considerato l’opuscolo come un lavoro immaturo, frutto dell’impeto giovanile dettato dalle sollecitazioni delle lezioni di Francesco Conforti, adesione a una moda giansenista, maturata con le conversazioni  con Carlo Santacolomba. Possiamo comunque sin d’ora affermare che la Memoria esemplifica bene la direzione scelta da Galluppi e rappresenta pertanto un documento importante per una più approfondita comprensione del senso e del peso della sua opera nel suo complesso storico-culturale.

Se «le supposte virtù dei pagani, perché mancanti della vera carità, debbono dirsi peccati»

I fatti che portarono alla pubblicazione dell’opuscolo sono abbastanza noti. All’età di venticinque anni Galluppi entra nella Regia Accademica degli Affaticati di Tropea. Qui pronunciò un discorso nel quale si prendeva in esame se «le supposte virtù dei pagani, perché mancanti della vera carità, debbono dirsi peccati». Benché si ostinasse a dichiarare la propria ortodossia, a Tropea si guardava al giovane Galluppi con sospetto, anzi lo si accusava di eresia. In effetti, il discorso pronunciato mostrava chiare coloriture gianseniste e, fatto ben più grave, sembrava sostenere la XXV proposizione di Bay. Della questione fu investito anche l’allora vescovo mons. Gherardo Gregorio Mele, che inviò una relazione sui fatti a Roma presso il Sant’Ufficio.

Di fronte a queste accuse e obiezioni, Galluppi sente il dovere di precisare la propria posizione, anche perché, come scrive mons. Santacolomba, cui Galluppi dedica la Memoria, e la cui risposta inviatagli venne pubblicata come premessa al testo, «sentirsi da viso a viso tacciar d’Eresia non è semplice bagatella per un Cavalier di onore, di ortodossa credenza e d’illibato costume, quale voi siete» [5] .

Cosa aveva sostenuto di così clamoroso Galluppi nella sua dissertazione? Egli si era posto un interrogativo di fondo: l’eticità dell’azione umana in quanto atto di natura, non di soprannatura, richiede una direzione al fine ultimo dell’uomo, per mezzo di un atto qualsiasi di amor di Dio, o le basta una direzione che è implicita nell’atto stesso in quanto atto conforme a natura? La risposta di Galluppi è che l’eticità dell’azione umana richiede sempre una direzione a un fine ultimo per mezzo di un atto di amore di Dio. Sposare questa ipotesi, lo abbiamo accennato, non mancò di suscitare perplessità e ostilità nell’ambiente tropeano, in quanto apparentemente Galluppi sembrava far proprie alcune posizioni eretiche di Michele di Bay, detto Baio.

In breve, secondo Baio, l’uomo non è stato creato in uno stato soprannaturale. Tutti i doni che noi chiamiamo soprannaturali in Adamo – diritto alla visione beatifica di Dio, filiazione adottiva dell’uomo mediante la grazia santificante, esenzione dal dolore e dalla morte, scienza infusa – scaturiscono direttamente dalla natura. Ne consegue che il peccato originale si spiega come corruzione della natura stessa e non come privazione dei doni soprannaturali. Da allora l’uomo è incapace di qualunque bene senza la grazia ed è dominato dal peccato. L’affermazione di questa dottrina comportava un’implicita riproposizione dell’eresia di Lutero e di Calvino. Del resto, una Bolla del papa Pio V in data 10 ottobre 1567, condannava 79 proposizioni ricavate dalle sue opere.

Come risponde Galluppi alle accuse di baianesimo mossegli dai suoi concittadini? Innanzitutto affermando una premessa teoretica e un chiarimento concettuale. In primo luogo, egli tiene a precisare che nelle azioni dell’uomo sono ben individuabili tre elementi: 1) oggetto, ovvero la sostanza dell’azione; 2) fine prossimo, che è quello che non si vuole per se stesso, ma in riguardo ad altra cosa; 3) fine ultimo, che è ciò che si desidera per se stesso e in cui l’umana volontà si riposa.

Posta questa premessa, Galluppi perviene a un chiarimento concettuale sulla carità, necessario per la sua difesa dall’accusa di eresia. Infatti, come egli scrive, «premettere queste definizione per sfuggire gli equivoci che potrebbero nascerne» [6] . Sempre richiamandosi agli insegnamenti della teologia cattolica, egli distingue la carità abituale e la carità attuale. Se la prima è quella che rende l’uomo giusto, santo, gradevole a Dio e gli dà il diritto della gloria eterna; con la seconda s’intendono il movimento della volontà per mezzo dei quali l’uomo si porta verso Dio, come al suo sommo bene e suo fine ultimo. Inoltre, la carità attuale può essere distinta in carità principata, con cui si intente quell’amore con cui si ama Dio in qualche azione, ma non si ama sopra tutte le cose, e la carità dominante si intende l’amore di Dio sopra tutte le cose. Ricordando che alcuni scolastici utilizzano il termine carità nel senso di carità abituale, Galluppi precisa che si richiama alla tradizione agostiniana secondo cui carità è «qualunque casto amore del sommo bene per se stesso, sia questo amore principiato e non dominante, sia dominante» [7] . Galluppi, utilizzerà il termine carità nel significato di «amore attuale, non abituale, di Dio e per amore attuale qualunque, non già pel solo amor dominante» [8] .

«Omne quod non est ex fide peccatum est» (Rm, 14,23)

Giungiamo dunque all’argomento di Galluppi, al nodo teoretico. Come insegnano i teologi, sostiene Galluppi, la direzione delle nostre azioni dev’essere indirizzata a Dio, in quanto ultimo nostro fine. Di conseguenza, affinché un’opera sia libera da ogni peccato, deve necessariamente riferirsi a Dio per mezzo della carità. «Ciò posto, si vede chiaramente che chi fa un’azione qualunque, senza riferirla a Dio, costui commette un peccato nella mancanza di questa relazione», se quindi «l’infedele, il quale non conosce il vero Dio, fa un’azione virtuosa, costui pecca nel non riferirla a Dio» [9] .

La proposizione dunque sostenuta secondo la quale «le supposte virtù de’ pagani, perché mancanti della vera carità, debbono dirsi peccati» non ha altro significato. Infatti, fa notare Galluppi, questa non dice che tali azioni sono peccati riguardo al loro oggetto, che può essere anche ottimo in se stesso, né riguardo al fine prossimo, il quale può essere onesto, ma manca un dovuto rapporto all’ultimo fine, «perché, dice la proposizione, mancanti della vera carità, il rapporto all’ultimo fine non potendo nascere, come ognun sa, che dalla vera carità» [10] . E chiarisce ancora Galluppi, «intendo sempre parlare della carità attuale, non già dell’abituale, aborrendo l’eresia de’ Novatori» [11] .

Ciò detto, ribadisce Galluppi, «questa dottrina è ortodossa, né si può pretendere senza massima empietà ed arroganza che sia dottrina eretica o erronea» [12] . L’osservazione va riferita al fatto che la dottrina stabilisce la direzione di tutte le nostre azioni a Dio quale precetto della legge naturale. Tale dottrina è ortodossa e approvata dalla Chiesa. Tutto ciò dimostra come il discorso di Galluppi si snoda su un piano essenzialmente filosofico più che teologico. È vero che egli riprende come testimonianza numerosi riferimenti ai Padri della Chiesa. Tuttavia, è abbastanza evidente come il discorso rimane su un piano filosofico, ovvero sul piano della legge naturale approvata dalla Chiesa.

A dimostrazione dell’ortodossia delle affermazioni Galluppi si richiama più volte a sant’Agostino. La cosa non stupisce, in quanto, lo si era accennato, Galluppi si è formato in un ambiente di cultura agostiniana e, come egli stesso ci conferma nella sua Autobiografia, «ascoltai in Napoli le lezioni di D. Francesco Conforti; studiai la Bibbia, la storia antica, la storia ecclesiastica ed i PP. dei primi secoli, e mi attaccai specialmente a S. Agostino» [13] .

Quattro sono gli argomenti che adduce Galluppi per difendere la propria posizione

1) Di contro ai pelagiani che portano avanti l’esempio delle virtù dei pagani, la risposta di sant’Agostino nel Liber contra Julianun è che «se un uomo fa qualcosa che apparentemente non sembra peccato, si dovrà convincere che è peccato se non lo fa per il fine per il quale lo si deve fare (cum itaque facit homo aliquid ubi peccare non videtur, si non propter hoc facit propter quod facere debet, peccare convincitur)». Qui, precisa meglio Galluppi richiamando sempre sant'Agostino, il facere debet significa riferire le proprie azioni a Dio: «Tutti questi comandamenti d'amore, cioè di carità, sono tanto numerosi e tanto chiari che se uno pensasse di fare alcunché di buono, ma lo facesse senza carità, in nessun modo agirebbe bene (Haec omnia praecepta dilectionis, id est caritatis, quae tanta et talia sunt, ut quidquid se putaverit homo facere bene, si fiat sine caritate, nullo modo fiat bene)» [14] .

2) Sempre nel Liber contra Julianun sant’Agostino afferma che l’occhio cattivo di cui si parla il Vangelo è l’intenzione e il corpo è l’azione. Se l’azione non è retta, ovvero non è l’intenzione di fede buona che opera per mezzo della carità, tutto il corpo dell’azione è tenebroso.

3) Giuliano obietta allora che se un pagano veste una persona nuda, la sua azione è forse peccato perché non viene dalla fede? All’obiezione sant’Agostino risponde «Certamente, in quanto non proviene dalla fede è peccato, ma non perché è peccato l’azione in se stessa, l’atto cioè di vestire l’ignudo: solo l’empio però nega che è peccato il gloriarsi di tale opera al di fuori del Signore (prorsus in quantum non est ex fide, peccatum est; non quia per se ipsum factum, quod est nudum operire, peccatum est)» [15] .

4) La carità coniugale è un grandissimo bene, dice sant’Agostino, ma i pagani usandola infedelmente perché non la riferiscono a Dio fanno sì che in loro diventi peccato.

Il termine minimo, per Galluppi, affinché l’atto sia esente da peccato non è la carità dominante, ma la carità attuale principiata virtuale, cioè in virtù di un atto precedente che ancora continua a influire moralmente. Quindi per Galluppi si parla di pagani non perché si intende operare un confronto tra giustificati e non dalla grazia, ma perché i pagani non avendo un concetto vero di Dio non possono avere per lui un vero atto di amore.

Viene dunque così a cadere l’accusa di aver fatta propria la XXV proposizione di Baio o di aver espresso posizioni gianseniste. Va osservato che sulla questione Galluppi volutamente si dilunga e sviluppa la propria difesa in modo assai articolato. Punto di partenza della propria difesa è la proposizione di san Paolo, secondo cui tutto quello che non viene dalla fede è peccato («omne quod non est ex fide peccatum est», Rm, 14,23), riletta alla luce dell’insegnamento agostiniano. In particolare a guidare Galluppi nella propria riflessione sono le considerazioni del cardinale Errigo Noris tratte dall’opera Vindiciae Augustinanae. Citando il cardinal Noris, Galluppi spiega che secondo il Santo Padre alla vera virtù è in egual misura necessaria la sua relazione all’ultimo fine. Ai pagani invece, in quanto privi della cognizione del Dio vero, quella relazione manca, perché sono guastati dall’amor proprio [16] . Di conseguenza, mancando all’uomo la relazione almeno virtualmente vicinissima all’ultimo fine, queste azioni perdono il carattere di azioni virtuose.

Ciò detto, rimane aperte la questione se questa posizione è riconducibile alla XXV proposizione di Baio. La risposta del cardinale Noris – fatta propria da Galluppi – è che la proposizione era condannata dalla Sede Apostolica solo in quanto dedotta dalla dottrina contenuta nella XXXV, condannata nel Concilio Tridentino, secondo la quale «omne quod agit peccator, vel servus peccati, peccatum est». Il punto è che secondo Galluppi la proposizione XXV fu condannata perché Baio deduceva da Lutero e da Calvino che tutte le opere dell’uomo prima di essere giustificato fossero peccati. È questa l’eresia a essere condannata dal Concilio Tridentino. Infatti, un peccatore può con l’aiuto della grazia fare delle opere buone, che lo dispongano alla giustificazione.

Conclude pertanto Galluppi, «in bocca a chi professa l’error Luterano e Calvinista, merita censura, perché questi crede che l’infedele pecca perché peccatore, perché non è fiustidicato, il che è falso ed eretico» [17] . Ben altra cosa se invece la proposizione viene affernata da un teologo agostiniano, questa è proposizione sicura, perché «costui crede che l’infedele pecca appunto perché non rapporta a Dio le sue azioni, a cui è obbligato di rapportarle, non già perché peccatore» [18] .

Considerazioni conclusive

Circa il valore di questa prima opera del Galluppi sono stati espressi giudizi contrastanti. Abbiamo, in primo luogo, posizioni che tendono a sminuire il valore della Memoria. A questo riguardo si può ricordare la valutazione di Carlo Arturo Jemolo [19] che riteneva quest’opera degna di essere ricordata non tanto per il contenuto, quanto per l’autorità di chi l’ha scritta. Un giudizio non dissimile viene espresso da Eugenio Di Carlo [20] , che tuttavia aggiunge come l’opera presenta un suo significato in quanto rappresenta la testimonianza dei primi studi e delle prime riflessioni di Galluppi.

Ultimamente si tende invece a rivalutare il significato complessivo dell’opuscolo. Da ricordare a questo proposito i due contributi di Francesco Pugliese che attribuisce all’opuscolo un valore che supera il mero significato storico, individuando «un primo nucleo di pensiero etico che sarà sempre presente e fondamentale in ogni futura riflessione del Filosofo» [21] .

Tale giudizio viene sostanzialmente ripreso da Giuseppe Lo Cane nel saggio introduttivo alla nuova edizione della Memoria. Secondo Lo Cane, il lavoro giovanile del filosofo di Tropea, pur se conseguente ad una circostanza esteriore, assume notevole importanza, «in quanto manifestazione, sia pure in germe, dell’orientamento del pensiero etico del suo autore e dei suoi coerenti sviluppi che si riscontreranno nella sua Filosofia della Volontà» [22] . Da ricordare anche le considerazioni di Luciano Meligrana per avere sottolineato alcuni interessanti aspetti dell’opuscolo. Nella Prefazione alla Memoria, Meligrana difatti afferma che lo scritto è una chiara conferma della «partecipazione dell’autore ad una cultura che, nel secondo Settecento, a partire da posizioni dottrinarie di tipo vagamente giansenistico, rappresentò il volto democratico del cristianesimo e si impegnò nel lavoro di riforma politica, culturale ed economica, nel tentativo di rispondere alle più urgenti esigenze della società contemporanea» [23] .

A queste valutazioni vorrei cercare di suggerire una mia osservazione in merito a uno dei tratti caratterizzanti della riflessione galluppiana. In linea generale si può dire che uno dei tratti distintivi del pensiero di Galluppi consiste nel fatto che i temi da lui svolti sono felicemente intrecciati con considerazioni storiografiche, anche laddove il discorso si presenta rigorosamente teoretico. Ciò è tutt’altro che un tentativo eclettico che cerchi di tenere una via di mezzo tra diverse e contrastanti posizioni teoretiche, prendendo a prestito qualcosa da un autore o da un altro. Al contrario, Galluppi sembra preannunciare il fatto che il discorso filosofico non può limitarsi cartesianamente a una pura introspezione dell’io, ma deve ripercorrere e riappropriarsi dei segni prodotti dalla cultura filosofica. In questo senso compito del filosofo è quello di far ritornare pensiero, diventato cosa nello scritto, di nuovo alla sua natura mediante la lettura: così esso da qualcosa di morto, da oggetto, riacquista una nuova soggettività. È qui che, a mio avviso, nella riflessione di Galluppi avviene la felice sintesi di filosofia e storia della filosofia: le sue riflessioni sono portate avanti e sostenute da puntuali documentazioni storiografiche, creando un fecondo intreccio storico-teoretico.

Letta così, su questo sfondo, la Memoria acquista un particolare motivo di interesse e un’ulteriore prova della continuità del pensiero galluppiano. In effetti, l’opuscolo ci appare non tanto come l’immatura testimonianza del suo pensiero giovanile, quanto piuttosto come l’anticipazione di una specifica modalità di procedere nella sua riflessione che negli scritti successivi trovarono una piena e matura realizzazione. Leggendo la Memoria non avremo difficoltà nel rintracciare come gli argomenti sono stati esposti lungo un itinerario logico-teoretico, ma sistematicamente arricchito con numerosi e puntuali riferimenti ad autori e testi. Il tutto non per sfoggio di erudizione fine a se stesso, ma per esigenza di chiarezza e di sostegno alle proprie posizioni contro quanti lo accusavano di baianesimo.

In definitiva, la Memoria anche negli aspetti formali e metodologici risulta scritto particolarmente interessante: ci rivela un giovane Galluppi che mostra di possedere quel metodo di indagine e argomentativo che nei successivi scritti avrà maggiore risalto e soprattutto caratterizzerà appieno la sua vicenda intellettuale.

L’auspicio è che, anche attraverso la riedizione di scritti per lo più dimenticati o difficilmente accessibili al grande pubblico, l’opera del filosofo di Tropea sia presto rivalutata in tutto il suo rilievo e significato. Del resto, la cultura italiana ha nel pensiero di Galluppi un momento fondamentale e dunque il suo studio costituisce per noi un motivo irrinunciabile per la ricostruzione del panorama filosofico della nostra cultura.
 
 

NOTE

[1] G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche storiche, in Storia della filosofia italiana, a cura di E. Garin, Firenze, Sansoni, 1969, vol. I, p. 597.

[2] F. Fiorentino, Manuale di storia della filosofia, vol. III, Morano, Napoli 1881, p. 311: «La storia della filosofia è cominciata in Italia con questo piccolo e meraviglioso volume».

[3] P. Galluppi, Memoria Apologetica, a cura di Luciano Meligrana, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2004, XXXIV + 29 pp. (ed. orig.: Memoria apologetica, Napoli, pei torchi di Vincenzo Mozzola-Vocola, 1795). Da ora in poi citato con Memoria con l’indicazione del paragrafo e, tra parentesi, il riferimento alla pagina della presente edizione.

[4] E. Di Carlo, Intorno al primo scritto di P. Galluppi, Tipografia Tuderte, Todi 1937, p. 115.

[5] C. Santacolomba in P. Galluppi, Memoria Apologetica, p. 9.

[6] Memoria § I, 2 (p. 18).

[7] Memoria § I, 2 (p. 18).

[8] Memoria § I, 2 (p. 18).

[9] Memoria § I, 3 (p. 18).

[10] Memoria § I, 3 (p. 19).

[11] Memoria § I, 3 (p. 19).

[12] Memoria § I, 3 (p. 18).

[13] P. Galluppi, Autobiografia [15 agosto 1822], in F. Pietropaolo, Scritti inediti di Pasquale Galluppi, in “Rivista di filosofia scientifica”, 1887, vol. VI, pp. 260-265.

[14] Aug. De gratia et libero arbitrio, I, 18, 37.

[15] Aug. Liber contra Julianum, IV, 3, 30.

[16] Memoria § IV, 12 (p. 23).

[17] Memoria § IV, 13 (p. 24).

[18] Memoria § IV, 13 (p. 24).

[19] C.A. Jemolo, Il Giansenismo in Italia, Bari 1928, p. 388.

[20] E. Di Carlo, Intorno al primo scritto di P. Galluppi, p. 116.

[21] F. Pugliese, La Memoria Apologetica nella formazione del pensiero del Galluppi, in Aa.Vv., Studi galluppiani, Rotary Club, Tropea 1979, p. 167.

[22] G. Lo Cane, Il giansenismo e la Memoria Apologetica, in P. Galluppi, Memoria Apologetica, p. XXXIV.

[23] L. Meligrana, Prefazione, in P. Galluppi, Memoria Apologetica, p. VIII.