di Giuseppe Tortora
1. Anche quando, dal 1831 in poi, esercitò il suo magistero nella Regia Università degli Studi di Napoli, Pasquale Galluppi, barone di Tropea, non «rimosse» né dissimulò le sue origini calabresi. Anche quando divenne illustre cittadino della grande capitale del Regno delle due Sicilie, egli certo non dimenticò il suo piccolo paese natio. Un vincolo profondo lo legava alla sua terra, alla storia e alla civiltà del territorio in cui aveva avuto i natali. Un vincolo che riappare qua e là anche nei contesti squisitamente teoretici che segnano l’itinerario speculativo consegnato alle sue opere. Piú d’una volta egli fa riferimento alla sua Calabria praticando il modulo retorico della «esemplificazione»; un modulo a cui fa ricorso con frequenza, specialmente quando la sua sensibilità didattica gl’impone di rendere piú facilmente accessibili, o anche solo piú chiaramente evidenti, i concetti che va utilizzando nel suo lavoro di costruzione speculativa. Il ricordo della «sua» Tropea ritorna, ad esempio, negli Elementi di Filosofia; nel primo volume ( Napoli 1853, pgf. 70, X cap.), trattando argomenti di «Logica Pura», per dimostrare che i «fenomeni della vista» non provano affatto che – come vogliono «alcuni filosofi» – i «giudizi abituali» alterano le sensazioni attuali, formula questo esempio: Allora, per cagion di esempio, che partendo da Tropea, piccola città delle Calabrie, giungo in Messina, la veduta di questa seconda città, a cui presto attenzione, riproduce l’idea della prima. Possono farsi due supposizioni: o lo spirito si arresta a questa riproduzione, senza andare piú oltre; od egli avrà la coscienza insieme della visione attuale di Messina e dell’idea riprodotta di Tropea, e questa coscienza costituisce il sentimento, o l’apparenza di Messina come città popolata. Naturalmente l’ipotesi veridica, per Galluppi, è la seconda, quella in cui il ricordo di Tropea rende possibile la considerazione – fedele alla realtà – di Messina come città piú grande e piú popolata; ma non è difficile immaginare che agli occhi di Galluppi la veduta «attuale» della maggiore grandezza di Messina doveva rendere piú tenero il ricordo della «piccola» Tropea, se egli cita proprio questa, e non altra cittadina del suo Mezzogiorno. Certo, questo è un riferimento accidentale, sia rispetto al discorso teoretico sia per la relazione in cui Tropea è posta con Messina e, piú avanti nello stesso esempio, con Napoli. Ma meno accidentale è il ricordo di un evento che ha visto la sua Calabria protagonista infelice dell’epoca della sua giovinezza. Nel secondo volume degli Elementi, nel corso della trattazione riservata alla «Logica Mista» (pgf. 46, III cap.), dopo aver sottolineato la distinzione tra le due specie di esperienza – quella primitiva e quella secondaria –, muove ad evidenziare il rapporto tra l’esperienza e le varie forme di linguaggio; e, premesso che «l’invenzione del linguaggio della parola, e l’invenzione dela scrittura alfabetica... fanno che l’uomo possa gettare il suo sguardo in tutt’i luoghi e in tutt’i tempi», e che «i fatti consegnati negli scritti possono, colla conservazione degli scritti, che li contengono, trasmettersi alle future generazioni», per dimostrare che «il linguaggio passaggiero della parola, quello permanente della scrittura alfabetica e quello dei monumenti, possono dunque circa alcuni fatti, essere motivi legittimi dei nostri giudizi», si esprime in questi termini: Credo utile di addurvi un altro esempio, in conferma di ciò che vi ho detto. Nel giorno cinque di Febbraio 1783 un terribile tremuoto, poi seguito da altri, cagionò dei danni notabili alle Calabrie, ed ancora alla città di Messina. Gli abitanti furono obbligati di uscire fuori dalle loro abitazioni, e di costruirsi delle baracche per abitarvi; alcuni le hanno costruite in lontananza dei paesi diruti, i quali rimasero perciò deserti. Cosí accadde, per esempio, a Briatico, che fu costruito di nuovo vicino al mare, e Briatico antico presenta allo spettatore i segni delle sue ruine: altri hanno costruito le nuove abitazioni in un suolo contiguo all’antico abitato. Cosí accadde a Tropea, le cui nuove abitazioni furono costruite lungo e all’intorno della strada detta dell’Annunciata. Gli eventi riferiti – ricordati en passant anche piú avanti nello stesso volume – costituiscono una parte del patrimonio dell’esperienza «calabrese» del Galluppi giovinetto; un’esperienza, ora rivissuta in termini di rievocazione, che s’inserisce con una sua legittimità nel tessuto del «discorso» del pensatore, ovvero che si dispone, nel procedere dei suoi pensieri, a monte di altre osservazioni e riflessioni, costituendosi poi, insieme con queste, come mezzo utile ed efficace per togliere i veli ad una «verità teoretica». Aggiunge infatti il Galluppi: Molti, che sono stati testimoni oculari dell’avvenimento, vivono ancora, molti altri appartengono alle seguenti generazioni; i primi narrano ai secondi l’origine delle ruine che colpiscono i loro occhi, non meno che l’origine delle nuove abitazioni; ciascuno testimone oculare è istruito dalla esperienza, che tanto egli, che gli altri testimoni oculari narrano il vero, e che coloro i quali narrano il fatto ad altri, per averlo eglino inteso narrare da’ testimoni oculari, narrano il vero. L’esperienza dunque c’insegna, che vi sono dei testimoni di udito, la cui testimonianza è verace, e che la tradizione orale, unita ai monumenti, può trasmettere alle generazioni future i fatti accaduti ne’ tempi da queste generazioni lontane. La memoria di questo tremuoto si trova depositata in una moltitudine di scritti, i quali ancora rimangono, ed i cui autori piú non sono.
2. Ciò nonostante Galluppi, calabrese filosofo, non può esser definito un «filosofo calabrese», attribuendo alla definizione un piú o meno forte senso tecnico. Anzitutto perché, in linea teorica, risulterà sempre sterile ogni tentativo sia di regionalizzazione dell’autentico filosofare sia di individuazione di specifici e qualificanti caratteri regionali di un determinato pensiero filosofico. Inoltre perché, in linea di fatto, né la sua filosofia era destinata prevalentemente ai suoi conterranei, né egli stesso creò una sua «scuola» in Calabria. Insomma, la sua elaborazione non si aggira nei limiti necessariamente ristretti dell’ esperienza maturata nella sua terra d’origine; i «materiali» attinti alla sua formazione giovanile, quelli provenienti dalla sua educazione familiare e dalla pratica degli usi e dei costumi conservati vissuti e trasmessi dal contesto sociale in cui la sua fervida intelligenza ha mosso i primi passi «culturali», e infine le sollecitazioni provocate dalla memoria storica, piú o meno latente, della civiltà che caratterizza come calabresi Galluppi e i suoi conterranei di ieri e di oggi, si dialettizzano in lui, com’ è giusto che sia, con l’osservazione di sé in quanto uomo, in quanto cioè portatore di caratteri e valori che lo accomunano a tutti gli altri uomini della terra, del passato e del presente; e si confrontano con gli stimoli offerti dalle voci piú significative della storia della filosofia moderna e da quelle che si muovono sulla scena della cultura filosofica europea del suo tempo. Sarebbe ben lungo anche il solo nudo elenco dei pensatori, passati e coevi, con cui egli dialoga nei suoi scritti, le cui tesi analizza, interpreta, critica, confuta, partecipando a questo dialogo con una varietà di sentimenti e atteggiamenti che copre un ampio spettro; uno spettro cioè che registra, accanto alla freddezza del distacco intellettuale, anche il calore dell’entusiasmo e persino l’indignazione, l’animosità, lo stupore. Insomma Galluppi è da annoverarsi tra gli esponenti di quella élite culturale meridionale dell’Ottocento che ha avvertito il bisogno di aprirsi alle sollecitazioni, di raccogliere le sfide, di rispondere alle interpellazioni rivolte alla sua intelligenza dalla migliore cultura europea del passato e del presente. E lo sforzo di elevare il tono della sua elaborazione speculativa a livello d’un uditorio internazionale ebbe importanti riscontri e significativi riconoscimenti: vale la pena ricordare non solo il sostenuto scambio culturale, per via epistolare, con V. Cousin, ma anche le nomine a Socio corrispondente dell’Accademia di scienze morali e politiche del Real Istituto di Francia – nomina patrocinata dallo stesso Cousin –, e a Cavaliere del Real Ordine francese della Legion d’Onore; e poi, la pubblicazione a Parigi, nel 1844, dunque qualche anno prima della sua morte, della traduzione francese delle sue Lettere filosofiche; e infine gli articoli, le recensioni, le citazioni, relative ai suoi lavori, apparse, quand’era ancora in vita, sulla «Revue Encyclopedique», su «Temps» e sull’ «Edimbourg-Review». La «gloria letteraria» ottenuta presso gli uomini colti d’Oltralpe fu da lui costruita e sostenuta anche con la costante attenzione a quanto ai suoi tempi andava maturando all’estero negli studi filosofici e storico-filosofici, di cui sono segni la pubblicazione a Napoli della traduzione dei Fragments philosophiques del citato Cousin, il saggio Sullo stato attuale della filosofia in Francia, e l’articolo Sul panteismo del signor Lamennais, oltre che la trascrizione – ai fini del suo lavoro – di pagine delle opere di tanti altri autori stranieri, di alcuni dei quali discusse criticamente le tesi nelle sue maggiori pubblicazioni (Damiron, Robinet, Degérando, Cabanis, Destutt de Tracy, Laromiguiere, Royer Collard, Stewart, ecc.). Una vera familiarità, favorita dalla buona conoscenza della lingua, ebbe con i testi di quegli autori francesi appartenenti alla generazione immediatamente precedente alla sua. Anche un esame sommario delle sue opere rivela una abbastanza profonda conoscenza della produzione culturale dell’effervescente Settecento francese. Le dottrine di Condillac, Diderot, d’Alembert, Helvétius, d’Holbac, Rousseau, vengono diffusamente esaminate, in un discorso teoretico che, pur mantenendo una rigorosa unitarietà, si sofferma all’occorrenza, ove piú ove meno, anche su tesi che si trovano, per cosí dire, in una zona di confine tra filosofia e scienza, quali quelle sostenute da Maupertuis, Buffon, Montucla, Montmort, Nollet, Bonnet, Crousaz.
3. Sullo sfondo storico-filosofico della sua costruzione speculativa, accanto ai giganti del pensiero «moderno», che giganteggiano anche nel suo discorso – Cartesio, Locke, Leibniz, Spinoza, Wolff, Hume, Kant –, e accanto ad altri pensatori di tutto rispetto – quali Berkeley, Bayle, Hobbes, Clarcke, Genovesi, Malebranche, Pascal –, trovano un posto di significativa rilevanza proprio i «philosophes» settecenteschi, i quali compaiono non «unificati» in una precisa categoria storico-filosofica, forse perché al Galluppi interessa piuttosto sottolineare le differenze tra le dottrine, la peculiarità delle diverse tesi. Se si tien conto dell’orientamento speculativo globale del Galluppi, ovvero del suo progetto di costruire uno «spiritualismo» ben fondato sul piano logico, adeguato a quelle ch’egli riteneva fossero le istanze piú profonde dell’uomo, e non difforme per risultati rispetto a ciò che la fede tramandata dalla Chiesa ha conservato nel corso della storia, e a ciò che la teologia, secondo la sua convinzione, è andata acquisendo all’umano sapere riflettendo sul dogma; se si tien conto, in particolare, del suo bisogno di profilare un’antropologia «dualistica» che, facendo perno sullo «spirito», ponesse le basi solide per un’etica rigorosamente universale, per un’etica cioè ancorata a quei valori che, nella sua veduta, ogni uomo in buona fede non può non riconoscere come inequivocabilmente assoluti; se si tien conto di tutto questo, allora è evidente che l’atteggiamento da lui riservato al materialismo di d’Holbac ed al sensualismo di Helvétius non poteva essere che quello di lotta implacabile ed estesa su tutto il fronte dottrinario; ma si comprende pure perché egli guarda con attenzione e con simpatia a Rousseau, anzi a un certo Rousseau, a quel pensatore che, pur essendo buon amico dei materialisti francesi – peraltro frequentati per un certo tempo nelle riunioni settimanali del salotto d’Holbac – non risparmiò, com’è noto, acute critiche, anche se per lo piú in forma indiretta, alle loro dottrine, e in particolare all’utilitarismo edonistico di Helvétius. Ma, l’interessamento di Galluppi per Rousseau fu forse puramente strumentale? Il suo appellarsi alle tesi del ginevrino risponde solo a ragioni di opportunità, cioè allo scopo di sfruttare appieno il ruolo storicamente svolto da Rousseau di «oppositore» di Helvétius, in modo da rendere piú solido e piú autorevole il proprio disegno confutatorio del sensualismo? A queste conclusioni menerebbero alcune considerazioni. Anche se non avesse mai avuto notizia del fatto che l’Emilio – l’unico testo rousseauiano da lui preso in considerazione e abbondantemente citato – aveva subito, nel volger di pochi anni, la stessa sorte già toccata al Dello Spirito di Helvétius, ossia la condanna da parte dell’arcivescovo di Parigi Christophe de Beaumont, sembra strano che Galluppi, cosí sensibile alle ragioni del cristianesimo, non si sia accorto di quegli elementi di potenziale pericolosità che avevano indotto l’illustre prelato ad assimilare l’Emilio all’opera helvetiana, un’opera che – cosí si diceva nel duro giudizio di condanna – sovvertiva la legge naturale, sradicava i fondamenti della religione cristiana, e travisava i valori umani, oltre che quelli evangelici. Inoltre, non può non colpire che il Rousseau presentato da Galluppi alla riflessione dei suoi lettori è proprio quello dell’Emilio, anzi del IV libro di quest’opera; insomma è il Rousseau che, nella «Professione di fede del vicario savoiardo», sviluppa un’articolata critica delle teorie helvetiane, non certo quello, ad esempio, del Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini, o del Contratto sociale. Nelle pagine galluppiane è totalmente assente il Rousseau che attacca frontalmente le diverse forme del prepotente dominio politico esercitato dagli stati moderni; che alza alta la voce contro il conculcamento, da questi effettuato, dei diritti naturali dell’uomo; che lamenta con analisi raffinate la subdola violenza con cui i «regimi» contemporanei modellano il popolo secondo i loro progetti. Mai compare il Rousseau che denuncia il perverso obiettivo, perseguito dagli stati, di tenere il popolo in una stabile condizione di disintegrazione sociale, e, simultaneamente, di dissimulare quella disintegrazione celandola dietro la finzione di una «unità politica» del tutto formale, o che accusa il potere non solo di non accogliere e di non rappresentare le istanze di libertà e di eguaglianza «reali», ma addirittura di spegnere negli individui la dolce, divina «vox naturae». Ciò nonostante, sarebbe ingiusto ipotizzare un uso meramente strumentale di Rousseau, da parte di Galluppi. Certamente «quel» Rousseau che egli chiama in gioco è utile al pensatore italiano, dal momento che gli offre solide garanzie nella lotta alla dottrina di Helvétius; del resto il piú delle volte Galluppi lo invoca proprio nel corso della confutazione delle tesi del materialista. Ma è pure indubbiamente vero ch’egli avverte una profonda, autentica sintonia tra il suo autonomo orientamento di pensiero e i fondamenti su cui si regge il discorso dell’Emilio. Una sintonia per cui, da una parte, le tesi rousseauiane da lui prese in considerazione non dovevano poi apparirgli tanto lontane e antitetiche rispetto anche alle convinzioni maturate come uomo di fede; e, dall’altra, e correlativamente, gli argomenti addotti dal vescovo di Parigi nel «Mandement» di condanna dovevano forse apparirgli, piuttosto, come l’esito del clima infuocato della Parigi di metà Settecento, in cui la serietà e l’organicità dell’attacco alla vita della fede individuale e a quella della Chiesa, mosso dai materialisti, avevano indotto l’istituzione ecclesiastica ad una reazione che, per essere troppo decisa, finiva per essere scomposta ed inadeguata.
4. In ogni caso, mai Galluppi minimizza o dissimula quella sintonia col Rousseau ch’egli vede immediatamente piú vicino al suo orientamento intellettuale; né gli si può imputare di aver intenzionalmente trascurato l’altro volto del ginevrino, dal momento che sempre poca attenzione egli ha dimostrato, e sempre scarso interesse egli ha nutrito per quei problemi e per quei temi che avevano stimolato l’interesse accorato, la passione, e le fervide capacità spirituali dell’«altro» Rousseau. Alle prime battute della «Prefazione» ad una delle sue opere di maggiore impegno teoretico, il Saggio filosofico sulla critica della conoscenza (III ed., Napoli 1846, vol. I, p.3), proprio enunciando l’oggetto della sua indagine, Galluppi dice: Che cosa posso io sapere? ecco la prima domanda, che il filosofo, rientrando nella solitudine del suo intendimento, è costretto di fare a se stesso. Che cosa posso io sapere? Son io capace di conoscenze reali? Quali sono i motivi legittimi di queste conoscenze? Quali sono i limiti prescritti al mio spirito, limiti che non gli è permesso di oltrepassare, senza precipitare nell’abisso dell’errore? Tali sono le ricerche sublimi, ed importanti, che mi occuperanno nell’opera, che ho l’onore di presentare agli amici della verità, e della virtú: esse formano l’oggetto delle attuali meditazioni dell’Europa dotta; esse mostreranno, in conseguenza, se l’uomo può con fondamento saper qualche cosa di se stesso, di ciò che lo circonda, della sua origine. Ebbene, subito appresso, tra gli esponenti dell’Europa dotta, prim’ancora di citare Kant, a cui il brano è inequivocabilmente ispirato, egli cita un passo di Rousseau (Cfr. Opere, a cura di P. Rossi, Firenze 1972, p. 540) che, ai suoi occhi, si presta bene ad illustrare l’obiettivo finale e soprattutto il primo fondamento di una «critica della conoscenza»: Ma chi sono io? Qual diritto ho io di giudicare le cose? E che cosa determina i miei giudizi? Se essi sono trascinati, forzati dalle impressioni che ricevo, mi affatico invano in tali ricerche; esse non si faranno affatto, o si faranno da sé senza ch’io m’immischi di dirigerle. Bisogna dunque che rivolga dapprima i miei sguardi su di me per conoscere lo strumento di cui voglio servirmi e fino a qual punto possa fidarmi nell’usarlo. Galluppi, dunque, si muove sulla stessa lunghezza d’onda di Rousseau quanto al tema del cominciamento del lavoro speculativo. Bisogna consultare l’esperienza interiore per delineare una corretta gnoseologia; come del resto bisogna appellarsi alla voce della coscienza per dar corpo ad una concezione etica autenticamente e pienamente umana. La ricerca filosofica nasce sul fondamento di un’autointerrogazione del «me» pensante, e può esser veridicamente condotta solo a condizione che si tenga conto di ciò che lo spirito trova in se stesso. Ma, secondo Galluppi, Rousseau va anche oltre il limite che Kant stesso s’era imposto; per il ginevrino, la risposta ai quesiti «che cosa posso fare?» e «che cosa posso sperare?» dev’essere contestuale a quella data alla domanda «che cosa posso sapere?»; anzi, checché ne pensi Kant, esiste una precisa correlazione tra i tre quesiti, per la quale la risposta all’ultimo rende possibile la risoluzione delle altre due questioni (Saggio, cit., I, p.3). Insomma, in linea col discorso di Rousseau, Galluppi è convinto che l’esame dello «strumento» conoscitivo riveli all’uomo la effettiva possibilità che la sua intelligenza acceda alle verità metafisiche, e, simultaneamente, conferisca ad esse quelle garanzie razionali capaci di sottrarle al chiuso dominio del sentimento, o come vogliono alcuni, all’area della fantasia mistificatrice. In base a questo convincimento il pensatore di Tropea non poteva se non respingere con decisione il sensismo di Helvétius; esso infatti, a suo avviso, non solo è intrinsecamente illegittimo, ma soprattutto chiude l’uomo a tal punto nei ceppi delle sensazioni da impedirgli di muovere alle verità superiori. Contro tale sensismo Galluppi ribadisce la distinzione delineata da Rousseau tra «sentire», momento passivo del processo conoscitivo, e «giudicare», momento invece che rivela un’autonoma, indiscutibile attività dello spirito. (Emile, par F. et P. Richard, Paris 1951, pp. 325-326). Il richiamo galluppiano a tale distinzione non risponde solo ad una logica confutatoria, ma esprime un consenso «sentito» e intellettualmente motivato. E’ la stessa analisi di quel che anche per il ginevrino è un «dato» primitivo, immediato, ossia del «me» pensante, che lo conferma senza possibilità di replica; è lo stesso esame della vita dello spirito che chiude ogni spazio alle deformità dei sensisti, e che dà piena legittimità non solo alle «verità primitive» che l’uomo coglie nell’autoriflessione, ma anche alle «idee» a priori e alle conoscenze universali che il sensismo nega risolutamente. Per quanto si voglia assimilare il giudicare al sentire, le sensazioni – ribadisce Galluppi sulla scorta di Rousseau – restano sempre e solo sensazioni, e nessun nudo e crudo accostamento di sensazioni produrrà mai una vera «idea», né si configurerà mai come un autentico «giudizio»; il quale giudizio può aver luogo solo quando l’intelligenza «relaziona» le sensazioni con un atto autonomo, originario, specifico (Filosofia della Volontà, Napoli 1832, I, pp. 192-196; Saggio, cit., I, pp. 50-51).
5. Sicché Rousseau costituisce per Galluppi un prezioso supporto per la lotta allo scetticismo, che, a suo giudizio, nelle forme vecchie e nuove sempre compromette funestamente la possibilità di fondazione di una sana concezione etica e, in ultima istanza, la certezza delle verità metafisiche, anche di quelle di cui si alimenta la fede religiosa: le verità etiche e metafisiche sarebbero state garantite solo da una gnoseologia che avesse delineato l’immagine di un «vero» oggettivo, assoluto, universale. Peraltro Rousseau stesso segnalava l’innaturalezza delle posizioni scettiche; Galluppi ricorda con compiacimento che per il ginevrino, come prima per Pascal, uno scetticismo vero, ossia non di maniera né di comodo, è incompatibile con la tranquillità dell’anima, dal momento che talvolta sussiste un rapporto tra verità e felicità tanto stretto da risultare inscindibile. Galluppi ricorda (Saggio, cit., I, pp. 197-199) quel brano rousseauiano in cui il vicario savoiardo parla della pena sofferta nell’attraversare l’inquietante fase del dubbio. Quel brano, per il pensatore di Tropea, è molto eloquente: se perfino il dubbio metodico – un dubbio adottato «in buona fede» e per un obiettivo sublime: la ricerca della verità – rende la vita dell’uomo angosciosa e contraddittoria, poiché lo priva di ogni punto di riferimento cui ancorare il senso della propria esistenza, è impossibile disconoscere che l’assunzione di uno stabile atteggiamento scettico esprime una scelta spiritualmente suicida, contraria alle istanze piú autentiche e profonde del cuore umano, quando non esprime interesse per il vizio – che lo scetticismo per Rousseau indubbiamente favorisce – o la compiaciuta, colpevole pigrizia dell’anima. Totalmente, intimamente condivisa dal Galluppi, dunque, era l’esclamazione rousseauiana (Opere, cit., p. 539): Come si può essere scettici per sistema o in buona fede? Non posso comprenderlo. Tali filosofi, o non esistono, o sono i piú infelici degli uomini. Il dubbio sulle cose che c’importa conoscere è uno stato troppo violento per lo spirito umano; il quale non vi resiste a lungo: si decide suo malgrado in un modo o in un altro, e preferisce ingannarsi piuttosto che non credere nulla. Per Galluppi, in tema di fondamenti di etica, Rousseau è andato persino oltre Kant; ha ragione il pensatore tedesco nel sostenere che due e ben distinti tra loro sono i principi dell’azione, quello che mira al «dovere» e quello che tende al conseguimento del «piacere», e che solo il primo produce la condotta virtuosa (cfr. Elementi, cit., II, pp. 292-296); tuttavia il ginevrino ha mostrato che tale distinzione non implica un’insanabile opposizione, una radicale contraddittorietà reciproca. In quel passo dell’Emilio – ricorda Galluppi – in cui Rousseau fa cenno al militare che fu distolto, in gioventú, dalla cieca passione per le donne grazie all’opportuno intervento del padre, il quale lo condusse in un ospedale per sifilitici per fargli osservare i dolori che affliggevano le vittime del disordine dei sensi (Emile, cit., p. 274); in quel passo il ginevrino mostra che l’ «interesse» – che in certi casi si manifesta appunto col «timore della pena» –, sebbene rimanga pur sempre una spinta «egoistica», per quanto abbia in prospettiva pur sempre il conseguimento della «felicità», in certi casi può svolgere una sua funzione specifica rispetto alla realizzazione del comportamento etico: un interesse ben inteso talvolta può contrastar la passione facendo piú spazio al «principio del dovere», talaltra può rimuovere o attenuare gli ostacoli che si frappongono all’esercizio della virtú, talaltra ancora può addirittura collaborare attivamente e positivamente con l’impulso morale (Fil. d. Vol., cit., IV, pp. 164-165). E contro la tesi helvetiana della impossibilità di una assoluta e universalmente valida distinzione tra bene e male morali – tesi che per il Galluppi costituiva un corollario dello scetticismo gnoseologico –, il pensatore italiano, nell’ambito del disegno speculativo teso a mostrare che quella distinzione, al contrario, è possibile, anzi è una possibilità connaturata alla umana natura, ed è totalmente autonoma dalla sensibilità, dalla ricerca del piacere, ricorda ancora (Elementi, cit., II, pp. 296-297) l’osservazione rousseauiana che se non vi fosse nulla di morale nel cuore dell’uomo, se tutto fosse da ricondursi all’interesse, allora non si spiegherebbero gl’impeti di ammirazione per i comportamenti nobili e virtuosi, né le «estasi d’amore» per le grandi anime (Emile, cit., p. 350). Anche Rousseau – ricorda Galluppi – ha rilevato che c’è una sostanziale uniformità, nel modo di giudicare il bene e il male, che accomuna tutti gli uomini d’ogni luogo e d’ogni tempo. Al di là della diversità dei costumi e dei caratteri dei diversi popoli apparsi sulla scena della storia, al di là delle stravaganze dei loro culti, si scorgeranno «dappertutto le medesime idee di giustizia e di onestà, dappertutto i medesimi principi di morale, dappertutto le medesime nozioni del bene e del male». Non resta allora che concludere col ginevrino (Opere, cit., p. 556): Vi è dunque nel fondo delle anime un principio innato di giustizia e di virtú, in base al quale, nonostante le nostre massime, noi giudichiamo le nostre azioni e quelle altrui come buone o cattive; a questo principio io dò il nome di coscienza. L’esistenza di quel principio innato è pertanto la ragione per la quale «vi sono azioni libere, che tutti gli uomini giudicano degne di lode e di premio; e vi sono azioni libere, che tutti gli uomini giudicano degne di biasimo e di pena»; l’uniforme orientamento del giudizio etico è tale che non si troverà mai un uomo che loderà, in coscienza, un atto turpe e biasimerà un’azione benefica (Elementi, cit., II, pp. 296-297).
6. Dell’impulso al dovere Galluppi pensava, come si accennava, che fosse congenito, che fosse carattere specifico della natura umana. E infatti egli non nasconde la convinzione che l’etica non necessita della fondazione nella certezza della fede, né abbisogna dell’ancoraggio al rigore della scienza teologica. I principi del bene e del male, la norma etica che ogni uomo può cogliere immediatamente, semplicemente «rientrando in se stesso», hanno una loro autonomia che anche Rousseau sostiene con convinzione, come quando – ricorda Galluppi citando il filosofo francese – egli segnala che anche in epoca pre-cristiana la coscienza dell’uomo si ribellava all’immagine desolante di un mondo di dèi ingiusti, impudichi e dissoluti: certo, «il vizio, armato di sacra autorità, discendeva dal soggiorno eterno» proponendosi come modello della umana felicità; ma «l’istinto morale lo respingeva dal cuore degli uomini»; certo, Lucrezia adorava l’impudica Venere, ma si manteneva casta nel corpo e nel pensiero. Insomma «la santa voce della natura, piú forte di quella degli dèi, si faceva sentire sulla terra» (Emile, cit., pp. 351-352). I principi morali, pertanto, dice Galluppi sulla scorta di Rousseau, non sono doni liberi e gratuiti offerti al cuore degli uomini dalla munifica volontà di Dio; essi invece fanno parte del patrimonio costitutivo dello spirito umano; e nell’autoriflessione essi rivelano il loro carattere di «verità primitive» che la coscienza propone all’intelligenza intuitiva, e non quello di nozioni derivate per via dimostrativa, come vorrebbe Locke, o addirittura, come vorrebbe Helvétius, di formazioni «spirituali» determinate dall’influenza che sull’individuo esercita il contesto sociale (Fil. d. Vol., cit., IV, pp. 254-256, 267-268, 279-281). Ma perché mai Galluppi, per questioni tanto delicate quanto per lui fondamentali, chiama in aiuto cosí frequentemente proprio Rousseau, un pensatore ch’egli non esita a definire lockiano, cioè seguace di quell’empirismo che sta alle spalle dello scetticismo gnoseologico e del sensualismo etico dell’aborrito Helvétius? A commento di una citazione rousseauiana, Galluppi dice: «Io vi ho trascritto questo lungo bel pezzo dello scrittor ginevrino, perché avendo egli adottato la dottrina di Locke su l’origine delle nostre idee, non può riguardarsi come sospetto; e ciò dimostra che l’evidenza l’obbligò ad abbandonare su questo punto il filosofo inglese» (Elementi, cit., II, p. 300). L’affermazione galluppiana, fatta nel contesto dell’esame critico del sensualismo helvetiano, intende evidenziare il particolare valore che le tesi del «lockiano» Rousseau assumono nella contestazione delle deformità sostenute dal «lockiano» Helvétius. Ma la stessa affermazione intende mostrare anche qualcosa di piú: Rousseau è la testimonianza vissuta del principio che nessuna teorizzazione può conservare la fedeltà ai propri principi ispiratori fino al punto di spingersi ad affermare tesi contrarie al vivo dettato della coscienza. Rousseau s’è fermato al punto giusto, anche se al prezzo di una qualche formale incoerenza; Helvétius ha invece continuato ostinatamente il suo perverso cammino, distogliendo intenzionalmente, colpevolmente lo sguardo dalla verità. Il ginevrino, insomma, mostra che non è da ritenersi necessario il percorso che dall’empirismo porta al sensismo e allo scetticismo integrale e radicale; della concezione atea, materialistica, egoistica di un Helvétius non bisogna far colpa a Locke, uno dei benemeriti padri fondatori della filosofia moderna. Non ci soffermeremo, in questa sede, su altri punti in cui Galluppi mostra di condividere gli orientamenti speculativi di Rousseau. Contro Maupertuis, ad esempio, il quale escludeva che si potesse dimostrare l’esistenza di Dio a partire dalle «merveilles de la nature», in quanto l’ordine teleologico delle realtà naturali è solo apparente, e comunque è smentito da patenti elementi di disordine su cui per lo piú si preferisce chiudere gli occhi, Galluppi (Saggio, cit., V, pp. 157-159) indica in Rousseau uno straordinario alleato. A propositi della casualità delle combinazioni atomiche, sostenuta da Maupertuis, il pensatore calabrese ricorda quel passo dell’Emilio (Opere, cit., p. 545) in cui il ginevrino dice: A quali occhi non prevenuti l’ordine sensibile dell’universo non annunzia una suprema intelligenza? E quanti sofismi non bisogna accumulare per disconoscere l’armonia degli esseri, e l’ammirabile concorso di ogni parte per la conservazione delle altre! Mi si parli finché si vuole di combinazioni e di probabilità: a che vi giova ridurmi al silenzio, se non potete condurmi alla persuasione? E come mi toglierete voi il sentimento involontario che vi smentisce sempre mio malgrado?... Se mi venissero a dire che dei caratteri di stampa, gettati a caso, hanno dato l’Eneide bell’e formata, non mi degnerei di fare un passo per andare a verificare la menzogna.
7. Ci sono, certo, anche elementi di divergenza tra Galluppi e Rousseau; ma nel discorso del filosofo italiano essi appaiono intenzionalmente attenuati. Cosí è, ad es., nel caso della trattazione relativa alla capacità dei sensi esterni; mentre Rousseau privilegia il tatto, Galluppi sostiene che «le sensazioni del tatto e quelle della vista sono sufficienti, tutt’e due, isolatamente, a darmi l’idea dell’estensione»; ma Galluppi non contesta direttamente la tesi di Rousseau, preferendo piuttosto confutare quella affine, ma ben piú articolata, sostenuta da Condillac. E poiché Rousseau sosteneva la sua tesi adducendo indicazioni circa l’insufficienza della capacità visiva, Galluppi preferisce semplicemente contrapporre, a questo argomento, il diverso avviso di D’Alembert, secondo cui la vista non solo è perfettamente in grado di conoscere l’esistenza di oggetti esterni «estesi» ma addirittura li coglie in modo piú pronto e piú perfetto (Cfr. Saggio, cit., II, pp. 61 segg.). Che ci sia in Galluppi un vivo desiderio di minimizzare le divergenze, lo mostra anche il fatto che, allorquando affronta il problema dell’identità dell’oggetto «visto» con quello percepito col tatto, egli adduce a sostegno della sua posizione proprio un passo dell’Emilio, quello in cui Rousseau parla dei «giochi di notte» (Emile, cit., p. 139). L’ acuta osservazione rousseauiana che di notte, in un ambiente chiuso, si può, battendo le mani, individuare dalla risonanza le dimensioni della stanza e la propria posizione in essa, e dalla direzione del vento che batte sul volto l’esistenza di porte e finestre, e cosí via; quell’osservazione dunque, dice Galluppi forzando il testo rousseauiano, dimostra di fatto che un senso può sostituire l’altro, facendoci conoscere, sia pure in modo diverso, lo stesso oggetto. Ma, si diceva, Galluppi forza un po’ il testo; perché se pure dal passo del ginevrino è desumibile che il tatto può, in certe circostanze, sostituire adeguatamente la vista, dallo stesso brano non è certo arguibile che la vista possa far le veci del tatto; esso quindi non autorizza in alcun modo Galluppi a concludere che «la vista non ha dunque bisogno dell’istruzione del tatto, per vedere fuori di noi» (Saggio, cit., II, p.87); per Rousseau è vero il contrario: le dimensioni, le forme, le collocazioni degli oggetti «veduti» han bisogno di un’esperienza tattile per esser davvero conosciute. In una sola occasione Galluppi prende veramente le distanze dal «suo» Rousseau. Affrontando la questione dell’esistenza di un «dio morale», oltre a quella di un «dio fisico», fondamento dell’ordine dell’universo, egli ricorda che «il celebre teista» Rousseau asserisce (Opere, cit., pp. 560-561): Medito sull’ordine dell’universo... per adorare il saggio Autore che vi si fa sentire. Converso con lui, penetro tutte le mie facoltà della sua divina essenza; mi intenerisco ai suoi benefizi, lo benedico per i suoi doni; ma non lo prego. Cosa gli domanderei? Che cambiasse per me il corso delle cose, che facesse dei miracoli in mio favore? Io che devo amare al di sopra di ogni cosa l’ordine stabilito dalla sua saggezza e mantenuto dalla sua provvidenza, vorrei forse che quest’ordine fosse turbato per me? No, questo voto temerario meriterebbe di essere piuttosto punito che esaudito. Non gli domando neppure il potere di far bene: perché domandargli ciò che mi ha dato? Non mi ha egli dato la coscienza per amare il bene, la ragione per conoscerlo, la libertà per sceglierlo? Se faccio il male non ho scusa: lo faccio perché lo voglio: domandargli di cambiare la mia volontà, è domandargli ciò che egli mi domanda; è volere che egli faccia l’opera mia e che io ne riscuota la mercede. Contro queste tesi Galluppi si esprime con un giudizio di valutazione deciso e insolitamente «duro». Questa filosofia – dice – è falsa, perché contraria alle inclinazioni del cuore umano. E ribatte: se si crede in un Dio onnipotente, libero e buono, è naturale che si faccia appello a Lui affinché ci soccorra contro l’oppressione del male, e ci aiuti a conseguire e a conservare i beni; anzi la preghiera è un dovere prescrittoci dalla legge naturale, il cui assolvimento peraltro è necessario alla nostra felicità; con essa, poi, non si chiede affatto di mutare l’ordine provvidenziale del mondo, anzitutto perché essa stessa fa parte di un tale ordine, e poi perché non si chiedono interventi che producano effetti contrari o anomali rispetto alla vigente legge razionale del cosmo (Fil. d. Vol., cit., II, pp. 122-124). La replica galluppiana, in verità, non rende giustizia allo spessore teoretico del brano rousseauiano; essa sembra muoversi piuttosto nell’ambito di una logica «apologetica»; c’è solo un accenno alle implicazioni speculative, ossia solo l’annotazione che il Dio di Giovan Giacomo, in fondo, non è molto diverso dagli dèi di Epicuro. Tuttavia Galluppi coglie nel segno quando indica nel discorso di Rousseau una notevole contraddizione (Fil. d. Vol., cit., II, p. 126): da una parte – dice – Rousseau pretende che non si deve pregare Dio per esser virtuosi, e dall’altra poi fa dire al «vicario savoiardo» (Opere, cit., p. 561 ): Nella giusta diffidenza di me stesso, la sola cosa che gli chiedo, o piuttosto che aspetto dalla sua giustizia, è di correggere il mio errore se mi perdo, e se questo errore è per me pericoloso. Coerenza vorrebbe che neppure una tale richiesta fosse formulata. Ma Galluppi, tutto sommato, è ben contento di questa «felix culpa» del ginevrino; anche Rousseau, perfino lui, alla fin fine dimostra che c’è necessità d’implorare Dio affinché ispiri l’uomo a ben operare (Fil. d. Vol., cit., II, p. 127).
AA.VV. Cultura romantica e territorio nella Calabria dell’Ottocento
Atti del Convegno di Studi, Cosenza-Catanzaro 9-12 aprile 1986
Ed. Periferia, Cosenza 1987 pp. 451-465