1 Novembre 2001
L'attore morto a 86 anni da "Riso amaro"
a Arthur Miller, da Cinecittà a Broadway,
è stato la prima star internazionale del cinema italiano.
di Masolino d'Amico
Protagonista spesso popolaresco
e sempre buono, leale e generoso, robusto uomo del sud dai
grandi occhi azzurri che guardavano dritto in faccia l'interlocutore -
la sua icona più caratteristica lo mostra
in tenuta quasi biblica di pastore, con tanto di agnello sulle spalle,
e magari le cioce ai piedi - Raf Vallone
fu, come star cinematografica, quasi un unicum nel cinema italiano degli
ultimi anni quaranta e dei primi
anni cinquanta. Vent'anni di retorica fascista avevano infatti instillato
negli autori e nel pubblico il
sospetto nella rettitudine troppo ostentata, e non è un caso se
i divi di maggior richiamo in Italia furono
quasi sempre demolitori, ossia attori comici (Totò Macario, Walter
Chiari, Aldo Fabrizi, e poi Sordi, il
Gassman brillante, Tognazzi, Manfredi...) e mai volti positivi, magari
romantici: non ci fu un Gèrard Philipe
italiano, e nemmeno un Marlon Brando o un Gary Cooper. Amedeo Nazzari,
l'unico attore "serio" a
garantire degli incassi, si era imposto durante il regime (Luciano Serra
pilota), ma nel dopoguerra i film
concepiti a sua misura furono quasi tutti di serie B. Vallone però
fece eccezione o tentò di farla, durante
una stagione che retrospettivamente appare assai breve e che si propose
di continuare il neorealismo
rinunciando a quella sua componente ironica da cui sarebbe nata l'oggi
così rivalutata commedia
all'italiana. Comparso brevemente in una celebre pellicola di Goffredo
Alessandrini (Noi vivi, 1942) quando
faceva ancora il calciatore, Vallone fu scoperto da Giuseppe De Santis
nel 1948, come l'onesto
protagonista di Riso amaro (dove il farabutto era Gassman, del quale quel
cinema si era accorto quasi
subito che era troppo dotato fisicamente e artisticamente perchè
il pubblico - quel pubblico - potesse
parteggiare per lui). Seguirono a stretto giro Non c'è pace tra
gli ulivi dello stesso regista, Cuori senza
frontiere di Luigi Zampa, Il cammino della speranza di Pietro Germi, e
Il Cristo proibito di Curzio Malaparte:
tutti imperniati su conflitti drammatici, anche legati alla guerra appena
terminata, e accomunati, con la
parziale eccezione di quello di Zampa, da una programmatica mancanza di
umorismo, che il botteghino
puntualmente punì. Fu, invece, un enorme successo nazionalpopolare
il successivo Anna (1951), diretto
da Alberto Lattuada, dove fu recuperato il terzetto dei protagonisti di
Riso amaro, Silvana Mangano ora
monaca ma con un passato di ballerina caliente, il sempre ghignante Gassman
come l'antico amante di lei, e
Vallone come l'uomo che avrebbe potuto redimere Anna se il destino non
ci si fosse messo di mezzo. Ma
malgrado il favore incontrato dalla pellicola, che ebbe anche la distinzione
di essere doppiata per il
mercato statunitense, dove i film europei circolavano di solito con i sottotitoli,
Vallone non fu più
proposto come eroe buono sul mercato nazionale. Intendiamoci, la sua carriera
cinematografica continuò
intensissima, con partecipazioni anche di prestigio (tra le moltissime,
per esempio, La spiaggia di Lattuada,
1953, e Guendalina dello stesso regista, 1958, La ciociara di De Sica,
1960); ma il principale tentativo di
fargli indossare i panni di un mito come Garibaldi fallì (Camicie
rosse di Alessandrini, 1952); e la
partecipazione a un film leggero ancorchè delizioso come Il segno
di Venere di Dino Risi (1955) lasciò per
quanto lo riguardava, poche tracce. Meriterebbe semmai di sopravvivere
come piccolo cult lo spensierato
filmetto sul football di Mario Camerini Gli eroi della domenica (1952),
in cui Vallone attingendo al suo
repertorio sportivo fa un centravanti che si vende la partita ma poi, pentito,
e malgrado un attacco
cardiaco diagnosticatogli nell'intervallo, scarta da solo tutto il Milan
(Green, Liedholm, Annovazzi...) e
entra in porta col pallone, salvando dalla retrocessione la sua squadra.
In precedenza, il portiere di riserva
Franco Interlenghi ha parato un rigore, e l'ala Marcello Mastroianni, sempre
inquadrato a mezzo busto
perchè aveva il complesso delle gambe troppo magre, è stata
spostata al centro data la scarsa incisività
del numero nove. Ma se l'Italia guardava con sospetto il personaggio altruista,
serio, appassionato, che
Vallone sembrava nato per interpretare, altre platee erano pronte per accoglierlo
a braccia spalancate: il Bel
Paese dopotutto ha sempre esportato i grandi tenori. E Vallone, il quale
nella vita non assomigliava affatto
ai primitivi che spesso incarnava sullo schermo, se ne rese conto benissimo.
Parlava le lingue, e aveva
cominciato presto a essere richiesto nelle coproduzioni (Thèrèse
Raquin di Marcel Carné 1953, Obsession
di Jean Delannoy, 1954, Rose Bernd di Wolfgang Staudte, 1958, La venganza
di J.A. Bardem, 1959...). La
sua grande occasione coincise per?col suo debutto nel teatro, nientemeno
che a Parigi e nientemeno che
per la regia di Peter Brook: Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, il
cui protagonista è come si sa un
immigrato italiano. Che Vallone sapesse quello che faceva lo dimostra anche
un suo intervento sul testo: il
suo Eddie Carbone infatti non moriva accoltellato nel duello col compaesano
immigrato clandestino che
aveva denunciato, ma si uccideva da solo per punirsi, affrontando l'orrore
e autocondannandosi
all'espiazione come il reo di una tragedia greca. Anche in seguito Vallone
avrebbe amato aumentare un po'
la statura delle creature in cui si calava. Moltissimi anni dopo, nel 1993,
in una delle sue ultime
interpretazioni teatrali: il dramma elisabettiano Tommaso Moro di vari
autori uno dei quali fu forse il
giovane Shakespeare, l'attore aggiunse delle battute in cui faceva pronunciare
al fedele ministro di re
Enrico VIII un elogio della democrazia. Recensendo lo spettacolo io feci
mitemente notare l'incongruenza,
e Vallone mi scrisse subito una letteraccia. Sapeva di essersi preso delle
libertà (non disse proprio
questo), ma il punto era che quando sentiva di aderire profondamente a
un personaggio, come in questo
caso, sentiva il bisogno di fargli dire quello che avrebbe detto lui; se
Vallone doveva diventare Tommaso
Moro, o Eddie Carbone, bisognava che anche Tommaso Moro o Eddie Carbone
gli venissero incontro e
diventassero un po' Vallone anche loro. In ogni caso, quello Sguardo dal
ponte fu un trionfo, replicato per
anni, portato in giro, e alla fine filmato con le opportune modifiche da
Sidney Lumet. L'imbiondito Jean
Sorel è il ragazzo che Eddie Carbone, segretamente geloso, bacia
sulla bocca per umiliarlo in una scena
che allora (1961) fece scandalo. Da allora e per parecchio tempo Vallone
diventò uno dei nostri interpreti
più richiesti dai registi americani (El Cid di Anthony Mann, Il
cardinale di Otto Preminger, Lettera al
Kremlino di John Huston, ecc., ecc., fino al Padrino Parte III di Francis
Ford Coppola, 1990): quando
serviva un italiano, o comunque un latino, solido e affascinante come un
profeta di Piero della Francesca,
il primo nome della lista era sempre il suo. Lo imparò anche Luchino
Visconti quando andò a New York per
presentare la versione rimaneggiata e da lui subito ripudiata del Gattopardo,
e si sentì chiedere da tutti i
giornalisti che lo intervistavano come mai avesse scelto per il principe
di Salina Burt Lancaster e non
"that fabulous Vallone". Tuttavia, malgrado innumerevoli partecipazioni
di prestigio, al cinema Vallone
non fu più protagonista. In compenso lo fu in televisione, anche
se non spesso - ma Il mulino del Po di
Sandro Bolchi, 1963, e poi Marco Visconti, 1974, gli diedero una vastissima
notorietà E in più aveva
scoperto il teatro, dov'era arrivato tardi ma con un ragguardevolissimo
bagaglio di esperienze; e dove fu
attivo a lungo, e in maniere tutt'altro che banali. Se al cinema aveva
proposto un personaggio cristallino in
un contesto che invece favoriva l'ambiguità a teatro fece il contrario,
scegliendo spesso lavori poco ovvi.
A Miller tornò con Il prezzo, di cui curò anche la regia;
poi diresse una commedia di cui egli stesso era
l'autore e di cui è rimasta poca traccia (Proibito? Da chi?, 1970).
Apparve tra l'altro nei Sei personaggi in
cerca d'autore, interpretò Il costruttore Sollness di Ibsen (regia
di Fantasio Piccoli, 1975); in anni più
recenti fu diretto da Peter Stein nel truculento Tito Andronico di Shakespeare
- là indossava un
cappottone scuro mentre gli altri erano in costume, quasi per sottolineare
la singolarità della sua
recitazione: Tito-Vallone come un corpo estraneo; e da Krzysztof Zanussi
nel Presidente di Rocco
Familiari. Questa apparizione del 1991 non fu certo l'ultima ma lascia
forse il ricordo più vivido
dell'intelligenza e della passione dell'uomo, che si gettò con entusiasmo
in un singolare quanto profetico
apologo su di un leader politico chiuso in un bunker ad alta tecnologia,
da
dove esercita un potere
proveneniente dalla manipolazione televisiva di un elettorato dal quale
non è mai stato visto di persona.
1 Novembre 2002
Divo da sfogliare.
Una grande popolarità col boom dei fotoromanzi.
di Liliana Madeo
Piaceva moltissimo. E per milioni
di persone - soprattutto donne - è stato uno dei semidei da amare
e
divorare, da inseguire e attendere con devozione e impazienza. Un eroe
del cinema prestato alle riviste
popolari, a quelle pubblicazioni che a partire dal '46 - fino alle soglie
degli anni `60 - raccontavano
avvincenti storie d'amore, di tradimenti, di riscatti coraggiosi, di virtù
offese e buoni sentimenti premiati,
da cui il grande pubblico era sedotto e incantato. Romanzi narrati per
immagini. Con sequenze di tavole
disegnate e brevi testi di accompagnamento, all'inizio. Poi con le fotografie
dei protagonisti e dei luoghi
dell?azione a dare corposità e realismo al feuilleton. Quindi con
i fotogrammi tratti da pellicole di
successo, interpretate da attori già con un proprio seguito. Si
è aperta nel '46, con la pubblicazione di
Grand Hotel, la stagione dei fumetti, dei fotoromanzi, dei cineromanzi,
che passavano di mano in mano fino
alla consunzione delle pagine, e si diffondevano prevalentemente nelle
campagne, in provincia, nelle
periferie delle grandi città portando alle donne - le più
appassionate cultrici del genere - modelli di
bellezza e comportamento, lezioni di moralità e cauti esempi di
quella trasgressione che invece mai
mancava nello scenario di vita di ogni lettrice. Raf Vallone fu uno dei
divi prestati dal grande schermo al
cineromanzo popolare. Con la sua bellezza virile e gli accenti di una strepitosa
passionalità mediterranea
aveva occupato un posto di spicco nel cinema dei forti sentimenti, quelli
da cui nascevano i cineromanzi
che ai divi dello schermo regalavano un'ulteriore popolarità Il
divismo non era un fatto universale. C'
erano star sconosciute all'Italia che conta. Per anni Anna Vita, un idolo
per il popolo dei fumetti, riceveva
duemila lettere al mese. Al di fuori del suo universo era come se non esistesse.
Ma lei aveva un suo
orgoglio divistico e un attaccamento al suo mito. Rifiutò una parte
nel film Lo sceicco bianco di Fellini, che
faceva la parodia del mondo di cui era la regina.
1 Novembre 2002
Lo sgomento dei conoscenti torinesi
dell'attore scomparso.
Addio Raf, quante passeggiate in via Po
a parlare d'arte e teatro.
La notizia che Raf Vallone se n'è andato per sempre è stata
accolta con un "oh, no" sgomento da coloro che più
di mezzo secolo fa condivisero con lui le speranze e le durezze della Torino
uscita dalla guerra. Sotto la Mole Raf era
giunto bimbo, da Caserta, dove era venuto al mondo: figlio di un avvocato,
avrebbe, nelle intenzioni paterne, dovuto
indossare la toga. Invece, indossò la maglia granata, quattordicenne
entrò nei "Balon boys", le giovanili del Toro
così chiamate in onore del grandissimo Baloncieri. Il 25 marzo 1935,
l'esordio in serie A: a Milano contro l'Inter che
allora aveva il nome di Ambrosiana. "Un massacro, perdemmo 4-0, Meazza
fece ciò che volle", mi raccontò Raf
spiegando che il fatto di aver affrontato un mostro sacro come Meazza non
gli aveva creato patemi particolari".
Chi parla? l'architetto Franco Ossola, figlio del campione morto a Superga
con il Grande Torino e storico delle vicende
granata. Ha incontrato Vallone quando era un celebre attore. "La maglia
torinista, l'atmosfera del Filadelfia, lo stadio
in cui aveva cominciato la carriera, gli erano rimasti nel cuore, ne parlava
sempre con amore, ricordando i suoi
compagni di allora, Usseglio, Ellena, Gallea, Bo. Nel Toro ha militato
sei stagioni, sino al 1941, in mezzo un campionato
al Novara. Elemento discreto, fu solo 25 volte titolare, realizzò
quattro reti. Concluse come aveva iniziato, perdendo 4-0
contro l'altra squadra meneghina, il Milan e anche in quell'occasione avversario
era Meazza, fu il migliore in campo.
Era conscio che avrebbe potuto giocare di più mi disse che l'allenatore
ungherese Erbstein lo rimproverava spesso:
"Vallone, anche ieri sera hai tirato tardi, tu hai troppi interessi, il
teatro mal si concilia con lo sport". Già il teatro, la
seconda passione di Raf. "Fu il primo Woyzeck d'Italia - assicura Cecilia
Ciaffi - l'impersonò al Gobetti dove mio
fratello, Vincenzo, aveva messo in scena l'opera di Buchner". Vincenzo
Ciaffi, il famoso latinista: Cecilia sposerà
Ugo Buzzolan che diventerà il maggior critico televisivo italiano.
La voce della signora Cecilia, annodata dalla
nostalgia per quei tempi "bellissimi della rinascita dalla guerra" continua:
"Simpaticissimo Raf, aveva una passione
per tutto quanto era cultura. Quante passeggiate su e giù sino a
tirare l'alba, sotto i portici di via Po a discutere con i
pittori Paulucci, Casorati, Menzio. D'inverno andava in giro con la sciarpa
annodata sul cappotto, aveva un'innata
presenza scenica. Era il primo attore della compagnia messa in piedi da
mio fratello e dalla quale nascerà lo Stabile. Raf
scriveva anche degli spettacoli che andava a vedere e una volta criticò
impietosamente Isa Miranda, sostenendo che
ascoltarla equivaleva a prendere un purgante. La Isa se la prese moltissimo,
al Carignano, prima di cominciare la recita
di non ricordo più quale commedia di Pirandello, lesse la critica
innescando la solidarietà del pubblico. Episodio
indimenticabile, tant'è che Raf, sbellicandosi dalle risa, lo ricordava
spesso nelle sue telefonate fiume". Stesse parole
sulle labbra della pittrice Carol Rama: "Garbato e intelligente, amatissimo
dalle donne, non si prendeva mai troppo sul
serio, era il primo a scherzare sul suo successo di attore, ripeteva che
era nato per caso e rimase sempre la stessa
adorabile persona". Dal teatro Vallone va all'Unità responsabile
della pagina culturale. Claudio Gorlier, oggi illustre
anglista, allora suo collega in redazione, una redazione che radunava i
giovani talenti di Calvino, Mila, Pavese:
"Sognava di fare il regista, divenne divo dello schermo senza volerlo.
Incontrò casualmente Puccini, sceneggiatore di
De Sanctis: Puccini ricordava la sua esperienza teatrale interrotta da
problemi di salute, gli propose di lavorare nel film
che De Sanctis stava preparando, "Riso amaro". Accettò senza immaginare
che avrebbe detto addio a Torino, al
giornalismo". Era il '49, fine del periodo subalpino, inizio della vita
da star "una star che Raf, bravo attore seppure
non molto fantasioso, mai s'è sentito d'essere", dice il regista
Massimo Scaglione.
1 Novembre 2002
Burbero gentile.
Da Risi a Scaccia e Lizzani il ricordo di chi lo amava
di r. sil.
"Una bellezza asciutta, reale, non da Cinecittà". "Una splendida
faccia che accennava sempre un sorriso, pur non avendo nulla di
comico". "Un viso straordinario, rude, selvaggio". Raf Vallone, nel ricordo
di chi lo ha amato e ha lavorato con lui, - ancora e
prima di tutto un volto, accompagnato dallo sconcerto che dietro tanta
avvenenza ci fosse un uomo colto, serio, riservato.
"Aveva un'anima sensibile, poetica - riassume Mario Scaccia - dentro un
corpo da "macho" latino". "In comune abbiamo avuto
il primo grande successo, Riso amaro - dice Carlo Lizzani - da giornalista
ci portò a visitare le risaie e con De Santis pensammo
che era giusto per la parte del militare. Aveva un volto adatto per il
neorealismo. Ma di lui ricordo soprattutto la sua cultura,
l'amore per Garcia Lorca che citava a memoria". "Era una persona seria,
appartata, appassionata di letteratura - concorda Dino
Risi, che lo aveva scoperto quasi per caso e lo avrebbe poi diretto nel
Segno di Venere. Nel 1946 giravo un cortometraggio
documentaristico in Liguria e vidi passare quest'uomo con una bella faccia.
Gli chiesi: le spiace se le faccio qualche ripresa? Lui
accettò e fu la sua prima volta. Era poco socievole: non si è
mai buttato nella mischia della mondanità". "Una brava persona,
un
pò burbero magari" ricorda Gina Lollobrigida, con lui in Cuori senza
frontiere di Luigi Zampa, nel 1950. "Se ne stava sempre
appartato sul set, ma era gentile e un bravo attore". Per Silvana Pampanini,
che con lui aveva girato Le avventure di Mandrin nel
1951, era invece "un simpaticone, cordiale e gentile. Con il talento e
la professionalità che aveva, avrebbe potuto ottenere molto
di più. "E' stato un protagonista della stagione d'oro del nostro
cinema, un uomo dinamico, brillante e attento ai problemi del
nostro tempo - ricorda infine il sindaco di Roma Walter Veltroni -. Il
suo volto, i tanti personaggi che ha interpretato,
lasceranno un ricordo indelebile di un attore e di un uomo stimato da tutti
gli italiani".
1 Novembre 2002
SETTE PARTITE E MOLTI RICORDI LEGATI ALLA CITTA'
Raf Vallone giocò in "A" nel Novara.
di Romolo Barisonzo
Raf Vallone ha sempre conservato con i novaresi un buon rapporto, ribadito
in questi ultimi anni quando al Faraggiana
fu lungamente applaudito per la magistrale interpretazione di "Morte di
un commesso viaggiatore", capolavoro di Arthur
Miller. Ma ancor più del ricordo del cast di "Riso amaro", con Silvana
Mangano, avvenente mondina, e Vittorio Gassman,
abominevole bullo, Vallone si sentiva in debito con i tifosi del Novara
ai quali diceva di aver dato solo un gran dispiacere
e poche gioie. Il gran dispiacere risale al 1938: allievo dei "Balon Boys"
del Torino, esordisce in serie A in maglia granata
nella squadra guidata da Federico Allasio, futuro padre di Marisa "povera
ma bella" e da Aldo Olivieri, neo campione
del mondo. Il Toro vince a Novara per uno a zero e il gol lo segna proprio
lui, Vallone, con una folgore da 30 metri
che lascia di sasso il portiere Angelo Caimo che, per anni, commentò
"Un siluro imprendibile e dire che il tiro l'avevo
visto partire". Ma proprio l'anno dopo Raf Vallone, che aveva deciso di
smetterla col calcio dopo la "truffa" subita nella
nazionale universitaria ad opera di un arbitro fasullo, viene ceduto al
Novara dal presidente Cuniberti che aveva, a sua
insaputa, definito l'accordo con Piero Omodei Zorini, impressionato e sedotto
dalla prodezza balistica del giovane bomber.
"Non ho mai dimenticato quel gol segnato nella più bella partita
della mia carriera, ma purtroppo al Novara ho dato poco e
non per colpa mia". Infatti riuscì a giocare solo 7 partite in serie
A: spesso infortunato, imbronciato con l'allenatore
Rigotti, ha scarsi contatti con i compagni di squadra che leggono solo
la gazzetta rosea. Lui no: sfoglia i libri di Kafka,
dos Passos, Fallada, Kormeni. A Torino, nell'ambiente universitario, frequenta
Carlo Mussa Ivaldi, ingegnere del Donegani,
che in epoca clandestina gli fa conoscere il Partito d'Azione. Fra i compagni
di squadra ricordava il futuro medico Enrico
Santhià e Dino Galimberti, il terzino che sembrava una palla di
gomma: "Un artista da circo - aggiungeva - ma grande come
lui ce n'erano pochi". L'ultima volta che recitò in teatro a Novara
domandò al suo interlocutore: "Sta bene il portiere Caimo?
Mi piacerebbe rivederlo" e aggiunse che facendo il servizio militare in
Alessandria c'era fra i commilitoni Oscar Luigi Scalfaro.
E di che parlavate? "Non di politica, ma di calcio. Era anche lui tifoso
del Novara".
1 Novembre 2002
VERCELLI RICORDA IL CELEBRE ATTORE SCOMPARSO
Addio, soldato Raf eroe di "Riso amaro"
di g. bar.
In città della vecchia generazione, tanti lo conobbero di persona,
quando, in quella calda estate del '48, avevano fatto
la spola tra Veneria e Salasco per scoprire "come era fatto il cinema,
visto dietro la macchina da presa". E poi lo avevano
riconosciuto tra i principali protagonisti, sullo schermo dei cine, quando
era stato proiettato quel celeberrimo "Riso Amaro"
di Giuseppe De Santis, vanto vercellese proprio perchè "c'eravano
anche noi...". Lui era "quello che recitava la parte del
soldato", dicevano i vercellesi. Quello buono ed onesto, anche se un po'
rozzo, contrapposto allo spavaldo Gassman.
Per precisione era il sergente Marco Galli, nel ruolo che De Santis gli
aveva affidato per la sua pellicola, strappandolo
dalle scarpe bullonate del Toro e dalla macchina per scrivere alla redazione
torinese de L'Unità Lo avevano visto parecchio
in città in centro, a guardare le vetrine e a strizzare l'occhio
alle ragazze "indigene". Altre volte nelle serate in onore
della troupe di Cinecittà nelle balere a palchetto - non dissimili
da quella del film - in compagnia della prorompente Silvana
Mangano, del genovese dall'aria romanesca Vittorio Gassman e dell'americanina
Doris Dowling.
Poi finite le riprese, se ne era andato con gli altri, l'aria da bravo
soldato che va in congedo. Cinquant'anni dopo lo
avevano atteso a Vercelli per le celebrazioni con tanto di restauro del
film: ma non stava bene, aveva ringraziato declinando
l'invito. Ieri a Roma, il congedo finale, appena un anno dopo aver dato
alle stampe la sua autobiografia ufficiale con la
prefazione di Carlo Lizzani. Ciao, Raf Vallone, dai tuoi tanti amici vercellesi
di un tempo ormai lontano. Riposati pure nei
campi del cielo, dove il riso, in una maniera o nell'altra, non deve certamente
essere amaro.