di Reginaldo D'Agostino
Trent'anni fa un mastro forgiaro m'insegnò la musica, spiegandomi la sincope e l'acciaccatura, mentre forgiava sull'incudine un ferro di mulo. Poi, siccome di mestieri ne ho cambiati tanti, ho incontrato un falegname che conosceva il latino e il greco antico, un muratore che conosceva la geometria, un campanaro che sapeva la fisica, un fornaciaro con nozioni di chimica, un imbianchino poeta, un intagliatore filosofo. Il sarto, il calzolaio, il bottaio, l'arrotino, l'ombrellaio, il lattoniere, lo stagnino, lo scalpellino, il castratore, l'intarsiatore, il mugnaio, il frantoista, il cantastorie, il puparo, il santaro, il bastaro, il sellaro, il tappezziere, il tessitore, il potatore, il pirotecnico, il carbonaio, ecc.. Questi uomini erano la vita del Sud. Essi sono la storia. Fedeli alla loro terra, essi esprimono la realtà della condizione umana e se non si estinguono nel passato hanno il profondo significato di speranza nella vita. La conoscenza del proprio lavoro o meglio della propria <<arte>> ha dato a questi uomini una dignità che li rende pari e non soggetti ad alcuno nel contesto sociale: prova ne sia che se un medico non conosce il proprio mestiere c'è sempre un Mastro Ciccio che lo chiama <<macellaio>>; se un uomo di governo non è all'altezza della sua carica, come spesso accade, ci sarà Massar Antoni per chiamarlo <<coglionazzo>>; quando quel Papa, predicatore di pace, benedisse le armi, Piscinpuppa disse: <<simo futtuti>>. Di tutto questo che cosa rimane? Una tristezza profonda, una protesta sommessa che di rado si fa sentire, e molte volte in modo sbagliato. Il meridione sta perdendo le proprie radici culturali. La tradizione orale, nella cultura contadina che più facilmente ci giunge, è sotto forma di lilastrocca e resiste nel tempo come meditazione tra il bambino e la realtà che lo circonda. La filastrocca è l'espressione verbale rassicurante necessaria ai fanciulli per ridurre nel gioco le angosce e le paure inespresse. Giusto le filastrocche ci sono rimaste, di nostro.
Sutta u lettu da za Cicca nc'è nu piattu i mmerda sicca, cu parra u primu vaci e sa jicca. E io pozzu parrari, ca aju li chiavi di San Pascali, e io solu pozzo arridiri ca aju li chiavi i San Basili. E li chiavi li jettu a mmari mancu io pozzu parrari!
Gatta gniau, gatta gniau, la gattareda mia nci maritau, fici i zzipuledi i crita e a mmia non mi ndunau, gatta gniau, gatta gniau.
Nc'era, cu nc'era? nc'era a gattaa nciminiera a ciminiera catti e ruppiu tutti i piatti E na vota nc'era, cu nc'era? Mastru Micu Tabacchiera, ca na cazetta mpedi. Nda! A voliti sapiri addapedi? na vota nc'era puru io cu sta nasca na vota nc'era nu vecchiu chi cusia nu saccu vecchiu ogni puntu chi minava tri pidita jettava. Na vota nc'era nu purceduzzu jiu mu mbivi e catti nto puzzu ora 'na vota nc'era nu re chi avia i cauzi comu i mè i buttuni l'avia i lignu, stativi cittu ca mo v'ancignu.
Mbè, mbè, mbè tutti i pecuri sugnu i mè, e lu latti de la crapa e la mmendula mundata, e l'acedu cantaturi chi cantava tutti l'uri Mbè, mbè, mbè.
Sutta nu puzzu nci su ddui gaduzzi unu chi fila e unu chi tessi e la varva a cui nci nesci e nci nesci a cucurucù, nesci fora e ammuccia tu.
A lu passu i San Giovanni nc'era Maria ch'amprava i panni e li panni e li pannizzi, la Madonna cu li trizzi, e li trizzi a panaredu, la Madonna cu Bambinedu l'angiuledi a parma a parma la Madonna cu Sant'Anna e Sant'Anna e Maddalena la Madonna cu lampeda.
Sotto il letto di Zia Francesca c'è un piatto di merda secca, chi parla per primo va e la lecca. Ma io posso parlare chè ho le chiavi di San Pasquale, e io solo posso ridere chè ho le chiavi di San Basilio. E le chiavi le getto a mare nench'io posso parlare!
Gatta gniau, gatta gniau la mia gattina si sposò, fece frittelle di terra e a me non ne donò, gatta gniau, gatta gniau.
C'era, chi c'era? c'era la gatta sul fumaiolo il fumaiolo cadde e ruppe tutti i piatti E una volta c'era, chi c'era? Mastro Domenico Tabacchiera con una sola calza ai piedi. Ah! Volete sapere da principio una volta c'ero pure io con questo naso una volta c'era un vecchio che cuciva un sacco vecchio ogni punto che cuciva tre scorregge gettava. Una volta c'era un maialino andò a bere e cadde nel pozzo Ora una volta c'era un re che aveva i calzoni come i miei i bottoni li aveva di legno statevi zitti che ora vi racconto.
Mbè, mbè, mbè Tutte le pecore sono le mie, ed il latte della capra e la mandorla mondata, e l'uccello canterino che cantava a tutte l'ore Mbè, mbè, mbè.
Sotto un pozzo ci sono due galletti uno che fila e uno che tesse e la barba che gli esce gli esce a cucurucù (rada a ciuffi) esce fuori e nasconde te.
Al passo di San Giovanni c'era Maria che stendeva i panni ed i panni e la biancheria la Madonna con le trecce e le trecce (raccolte) a paniere la Madonna col Bambinello gli angioletti con le palme in mano la Madonna con Sant'Anna e Sant'Anna e Maddalena la Madonna con la lampada.
E non è mediazione anche quest'ultima filastrocca dove la Madonna cu li trizzi diventa una comune donna del Sud? La religione esce dalle chiese ed entra nella vita di tutti i giorni. I santi si animano assumendo volti conosciuti. Cristo rivive. Perchè Cristo è la sofferenza, la fatica di vivere. Tutto il Sud, fuori dallo stereotipo del mandolino e dello spaghetto, è fatica di vivere, quotidiana condanna ad un lavoro reso più duro dal clima e dalla condizione di sottosviluppo delle strutture.
U CIUCCIU E U PORCU
Aveva un contadino, parlando con con voi con dovuto rispetto, di sua proprietà un maiale e un asino. L'asino era assai mortificato. Vedeva che il suo padrone prestava più attenzione al porco che a lui: <<Non sono pure io un animale come il porco? E intanto io mai mi riposo, sono succhiato dalla fatica, e mi tocca un misero filo di paglia per mangiare; campo di vento, ho la pancia piena d'aria, quando sono in salita e ho il peso in groppa, il mio sfintere suona come il trombone di Mastro Ciccio. Il porco che sta sempre a riposo non v'è cosa buona che non riceve!>>. Una sera l'asino sentì parlottare il contadino con la moglie:<<Non dargli da mangiare poichè domani ho intenzione di scannarlo>>. <<U vì?, disse il ciuco tra sè, u vì, siamo arrivati a questo? Va bene, domani come t'accosti per aggropparmi il basto, e mi vieni a tiro, ti sparo un terribile calcio nell'arco del petto e ti spedisco all'altro mondo prima che tu lo faccia a me!>>. La mattina vide entrare nella stalla il padrone con tanti macellai che tenevano nelle mani coltelli d'ogni taglio. Considerate voi come poteva sentirsi in quel momento il povero ciuco. Gli sembrava che quei coltelli fossero tutti infilati nelle sue carni, e si contorceva di qua e di là, pur legato com'era alla mangiatoia. Quando poi vide che gli uomini lo trascuravano e presero a scannare, in vece sua, il porco, restò vitreo di stupore. Al padrone che come al solito venne a portargli una scarsa razione di paglia, chiese: - Padrone, cacciami una curiosità, tu che al porco volevi un gran bene, gli facevi un mondo di carezze, l'hai scannato; pure questo fai a me? - Eh! Ha ragione la gente - disse l'uomo - ha ragione a chiamarti ciuco, tu non arrivi mai a capire niente. Il porco è carne per cristiani, e lo si ammazza e conserva; la tua è carne per cani e se la divora la terra>>. A quelle parole il ciuco, sfolgorante d'allegrezza, si voltò e disse: - Padreterno! Ti ringrazio d'avermi creato piuttosto ciuccio affamato che non porco sazio, ed essere scannato!>>.
Pampina larga e pampina stritta, cunta la tua, c'la mmia è ditta.
Il problema più critico, fino a pochi anni fa, derivava dall'insufficienza di terra coltivabile o, al più, dai problemi di irrigazione. Dalla Val di Sarno fino alla punta estrema della Sicilia vi era un modo di comportarsi, di pensare, di farsi gli abiti e di indossarli, di costruirsi la propria dimora, di arare la terra, piantare alberi, allevare il bestiame. Si viveva dignitosamente, pur tra stenti. Ora, con il flusso migratorio dalle campagne che ha gradualmente raggiunto dimensioni tragiche, molti centri della Basilicata, delle Puglie e della Calabria sono stati quasi totalmente abbandonati o, nel peggiore dei casi, ridotti a colonie di vecchi, donne e bambini. <<La mia gente s'allontana dalla propria terra come se un flagello l'incalzasse>>. I contadini, gli artigiani, gli operai, sradicati dal loro ambiente naturale o costretti ad espatriare, lo fanno con dolore e con rabbia, avendo piena coscienza che se le cose, in <<alto>>, andassero in maniera giusta, esse troverebbero da vivere nel loro paese, non si autodeporterebbero come schiavi in terre sconosciute e perciò infide, sfruttati da padroni ancora più spietati. Campania, Lucania, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna, Abbruzzo e Puglia, nel meridione il dolore è corale: <<Simme zingari, carne 'e sudore, simme carne e macellu, simme emigranti!>>. Il paesaggio sopravvive intatto.
Ricordi d'infanzia
Chiamai la mamma, non c'era; chiamai i fratelli ad uno ad uno e non rispose nessuno. Saltai dal letto, trascinai la sedia alla finestra e vidi in piazza una folla di gente che si menava botte tra loro, con bastoni e armi da fuoco. Quando diventai più grande seppi che era una rivoluzione. Alle madri avevano tolto il sussidio, i mariti erano emigrati o in prigionia ed i figli avevano fame, perciò le madri e i figli grandicelli avevano deciso di fare una rivolta contro il sindaco e tutto il consiglio comunale. Vennero i carabinieri e prelevarono tutte quelle madri, misero loro le catene ai polsi e le fecero salire sulle camionette e le portarono nelle carceri di Vibo Valentia. Ero sceso anch'io sulla piazza, ero scalzo ed indossavo un pantalone logoro e con una sola bretella, vidi mia madre con la catena ai polsi: avevo cinque anni. La mattina dopo noi fratelli andammo a bottega, ognuno dal proprio mastro, le sorelle rimasero a casa a fare i lavori domestici. Il mio maestro era un forgiaro, era comodo d'inverno pedalare il mantice, ma molto afoso d'estate. Ogni mattina alle sei dovevo essere in bottega per accendere la forgia con la linazza, perchè i massari erano già in fila con i loro asini da ferrare. Andai per sette anni dal mastro, avevo imparato anch'io a ferrare gli asini, a temprare gli scalpelli, ad affilare le falci, ad aguzzare il vomere. Una mattina il mastro partì e non ritornò più. Partirono tutti gli uomini giovani e forti, restarono gli ammalati, i vecchi e i bambini. I contadini lasciano le terre, non ci sono più asini da ferrare, le case hanno porte e finestre chiuse, sulla soglia già cresce il muschio e le ortiche imperano. Cambiai mestiere e lavorai da cavapietre e scalpellino, imparai ad intagliare il legno e a dipingere i santi. Nel 1958 decisi di andare a reggio Calabria per frequentare una scuola di stato ma, non avendo i mezzi sufficienti per sbarcare il lunario, suonavo la chitarra e cantavo per le strade, al porto, sulla nave traghetto. La domenica facevo il cantastorie alla Villa Comunale.
Così cantavo mentre mi accompagnavo con la chitarra a tarantella e raccontavo anche la storia di Gialurmu D'Agostino, capurali garibaldino:
Vinni Natali santu e giustu s'avvicinò la nascita di Cristu cui si mangiò la carni e cui l'arrustu e io mancu alla chianca l'haiu vistu megliu na purga nta lu misi d'augustu e no n'atru Natali comu chistu.
Nu pecurarellu vicinu a un laghettu tagghiau na canna e si fici u frischiettu lu porta a li labbra e si menti a sciussciari e lu frischiettu cusì nci parrò: <<Pecurarellu chi mbucca mi teni io sugnu figghiu di rre cavaleri ca pi pigliari na pinna di cchiù me frate Peppi tradituri fu>>. Lu pecurarellu si meravigghiau e lu frischiettu a lu rre ci purtau: <<Summaistà, summaistà!>>. Lu porta a li labbra e si menti a sciussciari: <<O patri o patri chi mbucca mi teni strincimi forti e volimi beni ca pi pigliari na pinna d'acellu pavuni fui ammazzatu arretu u vaiuni>>.
Venne Natale santo e giusto si avvicinò la nascita di Cristo chi si mangiò la carne e chi l'arrosto ed io nemmeno sul ceppo non l'ho visto meglio una purga nel mese d'agosto che un altro Natale come questo.
Un pastorello vicino ad un laghetto tagliò una canna per fare un fischietto lo porta alle labbra e si mette a fischiare ed il fischietto così gli parlò: <<Pastorello che in bocca mi tieni io sono figlio di re cavaliere e per pigliare una penna di più mio fratello Peppi traditore fu>>. Il pastorello si meravigliò ed il fischietto al re portò: <<Maestà maestà!>>. Lo porta alle labbra e si mette a fischiare: <<O padre o padre che in bocca mi tieni stringimi forte e voglimi bene chè per pigliare una penna di pavone fui ammazzato dietro ad un burrone>>.
Cantavo queste cose e la gente mi stava attorno ascoltava e con la testa diceva di sì. Si riconoscevano tutti in quelle storie antiche quanto la civiltà, come si riconoscevano nelle storie tristi di miseria, tradimenti e promesse mai mantenute. Ero molto giovane allora ma, senza saperlo, interpretavo la scontentezza e la delusione per la mancata realizzazione dei programmi, dei piani di trasformazione. Solo l'emigrazione ci è stata data, dall'Unità d'Italia in poi.
<<Tuttu lu friddu è di cincialurusu>>, tutto il freddo va al malvestito.
Senza saperlo facevo un recupero delle tradizioni popolari, quelle stesse che gli studiosi alla moda, bramosi solo di notorietà, hanno malamente trasformato in speculazione della nostalgia, e trasformato un'arte fresca come le rose in ciarpame letterario e sovente inventato. Non esiste nè un'arte povera, nè un'arte ricca; non v'è una musica colta ed una incolta come non esiste una letteratura selvaggia e una civile. L'arte è una e non ha strati sociali e la letteratura popolare c'è sempre stata; il poeta dialettale reagì alla letteratura aulica nazionale. La poesia in dialetto è pregna di umanità e ha valori universali.
<<Unu poti esseri dottissimu nta l'arti, nte littari, nte scenzi; ma quandu pe onestà, virtù e doviri, esti indegnu di stari a para chi povari anarfabeti, a nenti servi a dottrina>>.
Bedda figghiola chi avi massaru, li manuzzi nci culanu oru, e quandu trasi nto soi tilaru, mina la navetta comu nu tronu. La turturella nc'inchi li cannelli, lu passuru nci li porgi a li mani. La tila e lu tilaru è la vostra, la bella chi la tessi è la mia.
Una bella figlia ha 'sto contadino, le sue mani colano oro, quando ella si siede al telaio, la navetta scivola come un fulmine. La tortorella le riempie le rocchelle, il passaro gliele porge tra le mani. La tela sul telaio è vostra, la bella che la tesse è mia.
<<Il vasaio non vide mai di buon occhio il decoratore perchè, sostenne sempre, non fa che sporcare i vasi (mracchia cantari)>>. <<Il vero vasaio è nemico anche degli smalti, afferma che se l'argilla è ben plasmata e la cottura è fatta a regola, i vasi sono perfettamente impermeabili>>.
A Campacala a Campacala non canta cchiù la cicala. Si dissiru li missi a Palirmiti non sindi dici cchiù missi cantati e mo facimu comu l'antichi nti picchiamu lu culu a muzzicati.
Mamma, mamma, vogghiu pani! Figghia, figghia, non nd'avimu. Quandu veni lu mulinaredu ti lu fazzu lu panittedu. Ti lu fazzu cu ogghiu e vinu ca ndi voli Gesù Bambinu. Gesù Bambinu non ndi voli ca nci vruscua la vuccuzza. La vuccuzza è china i meli, viva, viva, San Micheli! San Micheli nchiana susu pe sunari li campani. Li campani su sonati, viva, viva, l'eternu Patri!
A Campacala a Campacala non canta più la cicala. Si dissero le messe a Palermiti non se ne dicon più messe cantate e ora facciamo come gli antichi ci prendiamo il culo a morsicate.
Mamma. mamma, voglio del pane! Figlia, figlia, non ne abbiamo. Quando verrà il mugnaio te lo farò il pane. Te lo farò con olio e vino che ne vuole Gesù Bambino. Gesù Bambino non ne vuole perchè gli brucia la boccuccia. La boccuccia è piena di miele, viva, viva, San Michele! San Michele sale su per suonare le campane. Le campane son suonate, viva, viva, l'Eterno Padre!
Il mio paese si chiama Spilinga. E' un piccolo centro agricolo dell'entroterra calabrese, falcidiato dall'emigrazione; camminando per le sue strade strette può capitare di incontrare solo donne, vecchi e bambini. Gli altri, gli uomini maturi, sono fuggiti lontano. Una malinconia, come da antichi rimpianti e da lunghe attese, esce dalle case basse e vuote, si diffonde nell'aria e contagia l'ambiente naturale e le persone. La solitudine, la violenza e la morte vivono nei volti dei vecchi, nello sguardo dolente delle <<vedove bianche>> ancor giovani, nella monotonia dei giochi dei bambini precocemente pensosi. E' un paese che si consuma lentamente, apparentemente senza speranza. E con il paese sembra morire una cultura, un pezzo di storia incompiuta. A quindici anni dovevo emigrare in America, ma per un erore burocratico non potei partire. Provai ugualmente l'angoscia e il tormento dell'emigrazione, accompagnando alla nave i paesani che partivano, e mi è rimasto tutto dentro: i giorni amari della mia gente e la volontà irriducibile, la voglia di vita, di felicità che la mia gente esprime, con tenacia di vecchi contadini che non si sottraggono mai alla fatica e alla lotta e contendono palmo a palmo la terra alla natura ostile.
Cronaca
Un paesano mio che doveva partire ebbe una disavventura con la giustizia, ecco come la racconta lui: <<Non si poteva più vivere. Non c'era lavoro e i figli miei morivano di fame, e cosa pensai, per la sventura mia? Parto come gli altri in Canada. Ma c'era un intoppo, delle mie quattro creature, una, per sventura, è handicappata. Oh Santo benedetto, cosa pensai? Il giorno della visita al Consolato di Napoli mi feci prestare la figlioletta sana di un vicino di casa e per ringraziare il padre della ninna gli diedi l'asino e la cavezza, la testata del letto ed il braciere. Padre e madre acconsentirono e mi prestarono la bimba. Andò tutto liscio, ebbi i passaporti e riportai la figlia ai genitori, li ringrazai e baciai le mani. Poi aspettai il giorno della partenza. Allora presi la famiglia e le cose di casa, pieno di paura ero, ma i guardiani s'accorsero dell'imbroglio e fui arrestato... Dio che vergogna!... tornammo da dove eravamo venuti con la coda tra le gambe come cani bastonati e umiliati. Venne il giorno della sentenza al tribunale di Vibo Valentia, mi presentai mogio mogio davanti ai giudici togati, dissi tutto in verità, mortificato levai alte le braccia, m'inginocchiai a terra e dissi: condannatemi!... ma i giudici capirono la mia disperazione e fui mandato assolto>>.
Cantu di l'emigranti
La protesta dei contadini, della gente tutta del Sud, è un pianto corale e sommesso. Si riassume nella condizione della non-parola, come espropriazione del diritto fondamentale di leggere e di scrivere la propria storia, e nell'incapacità di decifrare il presente. La soluzione è cercata nell'individualismo esasperato e nella solitudine. Così, alla bellezza del paesaggio fa riscontro, come macabra compensazione, una condizione umana tristissima. Miseria e disperazione, paura e viltà, hanno intaccato il tessuto individuale e sociale di tutto un popolo. Solo dalla presa di coscienza e dal confronto può nascere negli uomini la determinazione a riaffermare il loro primato sulle cose.
<<Chijati juncu ca la china passa>>. <<Piegati giunco che la piena passa>>
hanno detto per troppo tempo i contadini calabresi, associando la miseria ai fatti naturali, ineluttabili.
Secoli di sopraffazione hanno reso questa gente muta. Ora il vecchio non è morto del tutto, mentre il nuovo stenta a nascere. Sono i giorni amari della mia gente, di quelli che vanno e di quelli che restano. Di quelli che hanno abbandonato tutto e di quelli che restano a consumarsi in una attesa disperante.
NOTE 1 Zia Cicca era la più valente tessitrice del Regno delle Due Sicilie.