Foto di Romano Cagnoni
 
 

di Reginaldo D'Agostino


Trent'anni fa un mastro forgiaro m'insegnò la musica, spiegandomi la sincope e l'acciaccatura, mentre forgiava sull'incudine un ferro di mulo.
Poi, siccome di mestieri ne ho cambiati tanti, ho incontrato un falegname che conosceva il latino e il greco antico, un muratore che conosceva la geometria, un campanaro che sapeva la fisica, un fornaciaro con nozioni di chimica, un imbianchino poeta, un intagliatore filosofo.
Il sarto, il calzolaio, il bottaio, l'arrotino, l'ombrellaio, il lattoniere, lo stagnino, lo scalpellino, il castratore, l'intarsiatore, il mugnaio, il frantoista, il cantastorie, il puparo, il santaro, il bastaro, il sellaro, il tappezziere, il tessitore, il potatore, il pirotecnico, il carbonaio, ecc.. Questi uomini erano la vita del Sud.
Essi sono la storia.
Fedeli alla loro terra, essi esprimono la realtà della condizione umana e se non si estinguono nel passato hanno il profondo significato di speranza nella vita.
La conoscenza del proprio lavoro o meglio della propria <<arte>> ha dato a questi uomini una dignità che li rende pari e non soggetti ad alcuno nel contesto sociale: prova ne sia che se un medico non conosce il proprio mestiere c'è sempre un Mastro Ciccio che lo chiama <<macellaio>>; se un uomo di governo non è all'altezza della sua carica, come spesso accade, ci sarà Massar Antoni per chiamarlo <<coglionazzo>>; quando quel Papa, predicatore di pace, benedisse le armi, Piscinpuppa disse: <<simo futtuti>>.
Di tutto questo che cosa rimane? Una tristezza profonda, una protesta sommessa che di rado si fa sentire, e molte volte in modo sbagliato.
Il meridione sta perdendo le proprie radici culturali. La tradizione orale, nella cultura contadina che più facilmente ci giunge, è sotto forma di lilastrocca e resiste nel tempo come meditazione tra il bambino e la realtà che lo circonda. La filastrocca è l'espressione verbale rassicurante necessaria ai fanciulli per ridurre nel gioco le angosce e le paure inespresse.
Giusto le filastrocche ci sono rimaste, di nostro.
 

Figghioleti, statti cittu
ca la brutta vecchia veni,
a cui pizzica a cui mozzica,
a cui tira di li pedi.

Sutta u lettu da za Cicca
nc'è nu piattu i mmerda sicca,
cu parra u primu vaci e sa jicca.
E io pozzu parrari,
ca aju li chiavi di San Pascali,
e io solu pozzo arridiri
ca aju li chiavi i San Basili.
E li chiavi li jettu a mmari
mancu io pozzu parrari!

Gatta gniau, gatta gniau,
la gattareda mia nci maritau,
fici i zzipuledi i crita
e a mmia non mi ndunau,
gatta gniau, gatta gniau.

Nc'era, cu nc'era?
nc'era a gattaa nciminiera
a ciminiera catti
e ruppiu tutti i piatti
E na vota nc'era, cu nc'era?
Mastru Micu Tabacchiera,
ca na cazetta mpedi.
Nda! A voliti sapiri addapedi?
na vota nc'era puru io cu sta nasca
na vota nc'era nu vecchiu
chi cusia nu saccu vecchiu
ogni puntu chi minava
tri pidita jettava.
Na vota nc'era nu purceduzzu
jiu mu mbivi e catti nto puzzu
ora 'na vota nc'era nu re
chi avia i cauzi comu i mè
i buttuni l'avia i lignu,
stativi cittu ca mo v'ancignu.

Mbè, mbè, mbè
tutti i pecuri sugnu i mè,
e lu latti de la crapa
e la mmendula mundata,
e l'acedu cantaturi
chi cantava tutti l'uri
Mbè, mbè, mbè.

Sutta nu puzzu nci su ddui gaduzzi
unu chi fila e unu chi tessi
e la varva a cui nci nesci
e nci nesci a cucurucù,
nesci fora e ammuccia tu.

A lu passu i San Giovanni
nc'era Maria ch'amprava i panni
e li panni e li pannizzi,
la Madonna cu li trizzi,
e li trizzi a panaredu,
la Madonna cu Bambinedu
l'angiuledi a parma a parma
la Madonna cu Sant'Anna
e Sant'Anna e Maddalena
la Madonna cu lampeda.

Figlioletti state zitti
che la brutta vecchia viene,
a chi pizzica a chi morsica,
a chi tira i piedi.

Sotto il letto di Zia Francesca
c'è un piatto di merda secca,
chi parla per primo va e la lecca.
Ma io posso parlare
chè ho le chiavi di San Pasquale,
e io solo posso ridere
chè ho le chiavi di San Basilio.
E le chiavi le getto a mare
nench'io posso parlare!

Gatta gniau, gatta gniau
la mia gattina si sposò,
fece frittelle di terra
e a me non ne donò,
gatta gniau, gatta gniau.

C'era, chi c'era?
c'era la gatta sul fumaiolo
il fumaiolo cadde
e ruppe tutti i piatti
E una volta c'era, chi c'era?
Mastro Domenico Tabacchiera
con una sola calza ai piedi.
Ah! Volete sapere da principio
una volta c'ero pure io con questo naso
una volta c'era un vecchio
che cuciva un sacco vecchio
ogni punto che cuciva
tre scorregge gettava.
Una volta c'era un maialino
andò a bere e cadde nel pozzo
Ora una volta c'era un re
che aveva i calzoni come i miei
i bottoni li aveva di legno
statevi zitti che ora vi racconto.

Mbè, mbè, mbè
Tutte le pecore sono le mie,
ed il latte della capra
e la mandorla mondata,
e l'uccello canterino
che cantava a tutte l'ore
Mbè, mbè, mbè.

Sotto un pozzo ci sono due galletti
uno che fila e uno che tesse
e la barba che gli esce
gli esce a cucurucù (rada a ciuffi)
esce fuori e nasconde te.

Al passo di San Giovanni
c'era Maria che stendeva i panni
ed i panni e la biancheria
la Madonna con le trecce
e le trecce (raccolte) a paniere
la Madonna col Bambinello
gli angioletti con le palme in mano
la Madonna con Sant'Anna
e Sant'Anna e Maddalena
la Madonna con la lampada.

E non è mediazione anche quest'ultima filastrocca dove la Madonna cu li trizzi diventa una comune donna del Sud? La religione esce dalle chiese ed entra nella vita di tutti i giorni. I santi si animano assumendo volti conosciuti. Cristo rivive. Perchè Cristo è la sofferenza, la fatica di vivere.
Tutto il Sud, fuori dallo stereotipo del mandolino e dello spaghetto, è fatica di vivere, quotidiana condanna ad un lavoro reso più duro dal clima e dalla condizione di sottosviluppo delle strutture.
 
 

                      
U CIUCCIU E U PORCU

Aveva un contadino, parlando con con voi con dovuto rispetto, di sua proprietà un maiale e un asino. L'asino era assai mortificato. Vedeva che il suo padrone prestava più attenzione al porco che a lui: <<Non sono pure io un animale come il porco? E intanto io mai mi riposo, sono succhiato dalla fatica, e mi tocca un misero filo di paglia per mangiare; campo di vento, ho la pancia piena d'aria, quando sono in salita e ho il peso in groppa, il mio sfintere suona come il trombone di Mastro Ciccio. Il porco che sta sempre a riposo non v'è cosa buona che non riceve!>>.
Una sera l'asino sentì parlottare il contadino con la moglie:<<Non dargli da mangiare poichè domani ho intenzione di scannarlo>>.
<<U vì?, disse il ciuco tra sè, u vì, siamo arrivati a questo? Va bene, domani come t'accosti per aggropparmi il basto, e mi vieni a tiro, ti sparo un terribile calcio nell'arco del petto e ti spedisco all'altro mondo prima che tu lo faccia a me!>>.
La mattina vide entrare nella stalla il padrone con tanti macellai che tenevano nelle mani coltelli d'ogni taglio. Considerate voi come poteva sentirsi in quel momento il povero ciuco. Gli sembrava che quei coltelli fossero tutti infilati nelle sue carni, e si contorceva di qua e di là, pur legato com'era alla mangiatoia.
Quando poi vide che gli uomini lo trascuravano e presero a scannare, in vece sua, il porco, restò vitreo di stupore. Al padrone che come al solito venne a portargli una scarsa razione di paglia, chiese: - Padrone, cacciami una curiosità, tu che al porco volevi un gran bene, gli facevi un mondo di carezze, l'hai scannato; pure questo fai a me?
- Eh! Ha ragione la gente - disse l'uomo - ha ragione a chiamarti ciuco, tu non arrivi mai a capire niente. Il porco è carne per cristiani, e lo si ammazza e conserva; la tua è carne per cani e se la divora la terra>>.
A quelle parole il ciuco, sfolgorante d'allegrezza, si voltò e disse: - Padreterno! Ti ringrazio d'avermi creato piuttosto ciuccio affamato che non porco sazio, ed essere scannato!>>.

Pampina larga e pampina stritta, cunta la tua, c'la mmia è ditta.

Il problema più critico, fino a pochi anni fa, derivava dall'insufficienza di terra coltivabile o, al più, dai problemi di irrigazione.
Dalla Val di Sarno fino alla punta estrema della Sicilia vi era un modo di comportarsi, di pensare, di farsi gli abiti e di indossarli, di costruirsi la propria dimora, di arare la terra, piantare alberi, allevare il bestiame.
Si viveva dignitosamente, pur tra stenti.
Ora, con il flusso migratorio dalle campagne che ha gradualmente raggiunto dimensioni tragiche, molti centri della Basilicata, delle Puglie e della Calabria sono stati quasi totalmente abbandonati o, nel peggiore dei casi, ridotti a colonie di vecchi, donne e bambini.
<<La mia gente s'allontana dalla propria terra come se un flagello l'incalzasse>>.
I contadini, gli artigiani, gli operai, sradicati dal loro ambiente naturale o costretti ad espatriare, lo fanno con dolore e con rabbia, avendo piena coscienza che se le cose, in <<alto>>, andassero in maniera giusta, esse troverebbero da vivere nel loro paese, non si autodeporterebbero come schiavi in terre sconosciute e perciò infide, sfruttati da padroni ancora più spietati.
Campania, Lucania, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna, Abbruzzo e Puglia, nel meridione il dolore è corale: <<Simme zingari, carne 'e sudore, simme carne e macellu, simme emigranti!>>.
Il paesaggio sopravvive intatto.


Ricordi d'infanzia

Chiamai la mamma, non c'era; chiamai i fratelli ad uno ad uno e non rispose nessuno. Saltai dal letto, trascinai la sedia alla finestra e vidi in piazza una folla di gente che si menava botte tra loro, con bastoni e armi da fuoco. Quando diventai più grande seppi che era una rivoluzione. Alle madri avevano tolto il sussidio, i mariti erano emigrati o in prigionia ed i figli avevano fame, perciò le madri e i figli grandicelli avevano deciso di fare una rivolta contro il sindaco e tutto il consiglio comunale.
Vennero i carabinieri e prelevarono tutte quelle madri, misero loro le catene ai polsi e le fecero salire sulle camionette e le portarono nelle carceri di Vibo Valentia. Ero sceso anch'io sulla piazza, ero scalzo ed indossavo un pantalone logoro e con una sola bretella, vidi mia madre con la catena ai polsi: avevo cinque anni. La mattina dopo noi fratelli andammo a bottega, ognuno dal proprio mastro, le sorelle rimasero a casa a fare i lavori domestici.
Il mio maestro era un forgiaro, era comodo d'inverno pedalare il mantice, ma molto afoso d'estate. Ogni mattina alle sei dovevo essere in bottega per accendere la forgia con la linazza, perchè i massari erano già in fila con i loro asini da ferrare.
Andai per sette anni dal mastro, avevo imparato anch'io a ferrare gli asini, a temprare gli scalpelli, ad affilare le falci, ad aguzzare il vomere.
Una mattina il mastro partì e non ritornò più. Partirono tutti gli uomini giovani e forti, restarono gli ammalati, i vecchi e i bambini. I contadini lasciano le terre, non ci sono più asini da ferrare, le case hanno porte e finestre chiuse, sulla soglia già cresce il muschio e le ortiche imperano.
Cambiai mestiere e lavorai da cavapietre e scalpellino, imparai ad intagliare il legno e a dipingere i santi.
Nel 1958 decisi di andare a reggio Calabria per frequentare una scuola di stato ma, non avendo i mezzi sufficienti per sbarcare il lunario, suonavo la chitarra e cantavo per le strade, al porto, sulla nave traghetto.
La domenica facevo il cantastorie alla Villa Comunale.
 
 

Sciògghiti, lingua mia, e parra chiara:
no mu va scauzu cu semina chiova,
ca cui si cridi ca la strada è chiana
supra na piaga 'na firita nova.
Tri cosi o mundu nujiu ti ripara:
fimmini, tradimenti e mala nova.
Cu va, cu veni, cu scindi e cu nchiana:
peccati vecchi e penitenza nova.
Sciogliti lingua mia, e parla chiaro;
non vada scalzo chi semina chiodi,
che chi ritiene che la strada è piana,
sopra ogni piaga una ferita nuova.
Tre cose al mondo nessuno ripara:
Femmine, tradimenti e cattive notizie.
Chi va, chi viene, chi scende e chi sale:
peccati vecchi e penitenza nuova.

Così cantavo mentre mi accompagnavo con la chitarra a tarantella e
raccontavo anche la storia di Gialurmu D'Agostino, capurali garibaldino:


Quando vinniru pilurussu e biscaru pulintuni,
si misiru a ciarrari, ciarra ciarra:
Briganti! Latitanti! Ladri! Assassini!
Nesciti fora pemmu facimu l'Italia una ntera.
Nui chi vuliamo libirtati niscimmu gran minchiuni
e ndi nquazammu la cammisa rrussa.
E mentri Garibaldi passava mu ndi pigghia i connotati,
eu pe curiosità nci dissi: Scusati Generali,
vi pozzu parrari e fari n'osservazioni?
E indu mi dissi: Pecchì nno, parra puru.
Eu nci dissi: Si simu figghi di mamma ninna
e avimu guai randi, quandu la mamma
esti cchiù randi i guai no ssu cchiù randuni?
Indu arrunchiau lu nasu, torciu lu mussu,
si grattau la varva, m'arridiu, mi dezzi na vrancata,
m'abbrazzau e poi mi dissi: Ma va là!
E cucchiumando cugghiunando nd'acconzammu
a tri custuri peu di tandu.

Vinni Natali santu e giustu
s'avvicinò la nascita di Cristu
cui si mangiò la carni e cui l'arrustu
e io mancu alla chianca l'haiu vistu
megliu na purga nta lu misi d'augustu
e no n'atru Natali comu chistu.

Nu pecurarellu vicinu a un laghettu
tagghiau na canna e si fici u frischiettu
lu porta a li labbra e si menti a sciussciari
e lu frischiettu cusì nci parrò:
<<Pecurarellu chi mbucca mi teni
io sugnu figghiu di rre cavaleri
ca pi pigliari na pinna di cchiù
me frate Peppi tradituri fu>>.
Lu pecurarellu si meravigghiau
e lu frischiettu a lu rre ci purtau:
<<Summaistà, summaistà!>>.
Lu porta a li labbra e si menti a sciussciari:
<<O patri o patri chi mbucca mi teni
strincimi forti e volimi beni
ca pi pigliari na pinna d'acellu pavuni
fui ammazzatu arretu u vaiuni>>.

Quando venne pelo rosso e i bischeri polentoni,
si misero a gridare, e grida grida:
Briganti! Latitanti! Ladri! Assassini!
Uscite fuori che stiamo facendo l'Italia una unita.
Noi che vogliamo la libertà uscimmo, gran minchioni,
ed indossammo la camicia rossa.
E mentre Garibaldi passava per prenderci i connotati,
io per curiosità gli dissi: Scusate Generale,
posso parlarvi e farvi un'osservazione?
Ed egli disse: Perchè no! Parla pure.
Io gli dissi: Se siamo figli di una madre piccola
ed abbiamo guai grandi, quando la mamma
sarà più grande i guai non saranno più grandi ancora?
Egli arricciò il naso, torse il muso,
si grattò la barba, mi sorrise, mi diede una manata,
m'abbracciò e poi mi disse: Ma va là!
E prendendoci in giro ci acconciammo
con la cinghia stretta più di prima.

Venne Natale santo e giusto
si avvicinò la nascita di Cristo
chi si mangiò la carne e chi l'arrosto
ed io nemmeno sul ceppo non l'ho visto
meglio una purga nel mese d'agosto
che un altro Natale come questo.

Un pastorello vicino ad un laghetto
tagliò una canna per fare un fischietto
lo porta alle labbra e si mette a fischiare
ed il fischietto così gli parlò:
<<Pastorello che in bocca mi tieni
io sono figlio di re cavaliere
e per pigliare una penna di più
mio fratello Peppi traditore fu>>.
Il pastorello si meravigliò
ed il fischietto al re portò:
<<Maestà maestà!>>.
Lo porta alle labbra e si mette a fischiare:
<<O padre o padre che in bocca mi tieni
stringimi forte e voglimi bene
chè per pigliare una penna di pavone
fui ammazzato dietro ad un burrone>>.

Cantavo queste cose e la gente mi stava attorno ascoltava e con la testa diceva di sì. Si riconoscevano tutti in quelle storie antiche quanto la civiltà, come si riconoscevano nelle storie tristi di miseria, tradimenti e promesse mai mantenute.
Ero molto giovane allora ma, senza saperlo, interpretavo la scontentezza e la delusione per la mancata realizzazione dei programmi, dei piani di trasformazione.
Solo l'emigrazione ci è stata data, dall'Unità d'Italia in poi.

<<Tuttu lu friddu è di cincialurusu>>,
tutto il freddo va al malvestito.

Senza saperlo facevo un recupero delle tradizioni popolari, quelle stesse che gli studiosi alla moda, bramosi solo di notorietà, hanno malamente trasformato in speculazione della nostalgia, e trasformato un'arte fresca come le rose in ciarpame letterario e sovente inventato.
Non esiste nè un'arte povera, nè un'arte ricca; non v'è una musica colta ed una incolta come non esiste una letteratura selvaggia e una civile.
L'arte è una e non ha strati sociali e la letteratura popolare c'è sempre stata; il poeta dialettale reagì alla letteratura aulica nazionale. La poesia in dialetto è pregna di umanità e ha valori universali.

<<Unu poti esseri dottissimu nta l'arti, nte littari, nte scenzi; ma quandu pe onestà, virtù e doviri,
esti indegnu di stari a para chi povari anarfabeti, a nenti servi a dottrina>>.


La bona pezza si canusci a lu tascu
e la tessitura a lu ntrizzatu
non mirari a li tanti pinti
chi perinu a lu suli all'acqua e u venti;
la pezza cchiù preziusa
è di zzema Cicca1
ca no dassa puntu lentu
e mancu s'incurezza;
cu è di nasu finu
mai la cunfundi.

Bedda figghiola chi avi massaru,
li manuzzi nci culanu oru,
e quandu trasi nto soi tilaru,
mina la navetta comu nu tronu.
La turturella nc'inchi li cannelli,
lu passuru nci li porgi a li mani.
La tila e lu tilaru è la vostra,
la bella chi la tessi è la mia.

La buona stoffa si conosce al tatto
e la tessitura all'intreccio (trama)
non guardare i colori
che possono sbiadire alla luce, all'acqua, al vento;
la stoffa più preziosa
è quella di zia Cicca1
che non lascia un punto allentato
e nemmeno si stropiccia;
chi è di naso fino
mai si confonde.

Una bella figlia ha 'sto contadino,
le sue mani colano oro,
quando ella si siede al telaio,
la navetta scivola come un fulmine.
La tortorella le riempie le rocchelle,
il passaro gliele porge tra le mani.
La tela sul telaio è vostra,
la bella che la tesse è mia.

<<Il vasaio non vide mai di buon occhio il decoratore perchè, sostenne sempre, non fa che sporcare i vasi (mracchia cantari)>>.
<<Il vero vasaio è nemico anche degli smalti, afferma che se l'argilla è ben plasmata e la cottura è fatta a regola,
i vasi sono perfettamente impermeabili>>.


Lu colori è vili
ti sciatta la bili
lu vitru è sassinu
ti tagghia lu ntistinu
lu chiungu di galena
si vota a cancarena.

A Campacala a Campacala
non canta cchiù la cicala.
Si dissiru li missi a Palirmiti
non sindi dici cchiù missi cantati
e mo facimu comu l'antichi
nti picchiamu lu culu a muzzicati.

Mamma, mamma, vogghiu pani!
Figghia, figghia, non nd'avimu.
Quandu veni lu mulinaredu
ti lu fazzu lu panittedu.
Ti lu fazzu cu ogghiu e vinu
ca ndi voli Gesù Bambinu.
Gesù Bambinu non ndi voli
ca nci vruscua la vuccuzza.
La vuccuzza è china i meli,
viva, viva, San Micheli!
San Micheli nchiana susu
pe sunari li campani.
Li campani su sonati,
viva, viva, l'eternu Patri!

Il colore è vile
ti schiatta la bile
il vetro è assassino
ti taglia l'intestino
il piombo di galena
si volta in cancrena.

A Campacala a Campacala
non canta più la cicala.
Si dissero le messe a Palermiti
non se ne dicon più messe cantate
e ora facciamo come gli antichi
ci prendiamo il culo a morsicate.

Mamma. mamma, voglio del pane!
Figlia, figlia, non ne abbiamo.
Quando verrà il mugnaio
te lo farò il pane.
Te lo farò con olio e vino
che ne vuole Gesù Bambino.
Gesù Bambino non ne vuole
perchè gli brucia la boccuccia.
La boccuccia è piena di miele,
viva, viva, San Michele!
San Michele sale su
per suonare le campane.
Le campane son suonate,
viva, viva, l'Eterno Padre!

Il mio paese si chiama Spilinga. E' un piccolo centro agricolo dell'entroterra calabrese, falcidiato dall'emigrazione; camminando per le sue strade strette può capitare di incontrare solo donne, vecchi e bambini. Gli altri, gli uomini maturi, sono fuggiti lontano.
Una malinconia, come da antichi rimpianti e da lunghe attese, esce dalle case basse e vuote, si diffonde nell'aria e contagia l'ambiente naturale e le persone.
La solitudine, la violenza e la morte vivono nei volti dei vecchi, nello sguardo dolente delle <<vedove bianche>> ancor giovani, nella monotonia dei giochi dei bambini precocemente pensosi.
E' un paese che si consuma lentamente, apparentemente senza speranza. E con il paese sembra morire una cultura, un pezzo di storia incompiuta.
A quindici anni dovevo emigrare in America, ma per un erore burocratico non potei partire. Provai ugualmente l'angoscia e il tormento dell'emigrazione, accompagnando alla nave i paesani che partivano, e mi è rimasto tutto dentro: i giorni amari della mia gente e la volontà irriducibile, la voglia di vita, di felicità che la mia gente esprime, con tenacia di vecchi contadini che non si sottraggono mai alla fatica e alla lotta e contendono palmo a palmo la terra alla natura ostile.
 
 

Si li mangiau la lupa di lu mari
si li agghiuttiu la serpi di lu cielu
erano tutti boni cristiani
piriru tutti senza sdilluviu
Curriti fuiti scappati
li muntagni stimpanu
la terra si spacca
lu suli s'astuta
l'acqua s'appiccia
non c'è scampu pi nuiu.
Addio terra di duluri
addio terra smaliditta
addio cumpagna mia
addio matri abbandunata
nta ssi quattru muri
Io m'indi vaiu
ti dassu lu cori.
Se li mangiò la lupa del mare
se li inghiottì la serpe del cielo
erano tutti buoni cristiani
perirono tutti senza tempesta
Correte, fuggite scappate
le montagne franano
la terra si spacca
il sole si spegne
l'acqua si accende
non c'è scampo per nessuno.
Addio terra di dolore
addio terra maledetta
addio campagna mia
addio madre abbandonata
in queste quattro mura
 io me ne vado
 ti dò il cuore.


Cronaca

Un paesano mio che doveva partire ebbe una disavventura con la giustizia, ecco come la racconta lui:
<<Non si poteva più vivere. Non c'era lavoro e i figli miei morivano di fame, e cosa pensai, per la sventura mia? Parto come gli altri in Canada.
Ma c'era un intoppo, delle mie quattro creature, una, per sventura, è handicappata. Oh Santo benedetto, cosa pensai? Il giorno della visita al Consolato di Napoli mi feci prestare la figlioletta sana di un vicino di casa e per ringraziare il padre della ninna gli diedi l'asino e la cavezza, la testata del letto ed il braciere.
Padre e madre acconsentirono e mi prestarono la bimba.
Andò tutto liscio, ebbi i passaporti e riportai la figlia ai genitori, li ringrazai e baciai le mani.
Poi aspettai il giorno della partenza.
Allora presi la famiglia e le cose di casa, pieno di paura ero, ma i guardiani s'accorsero dell'imbroglio e fui arrestato... Dio che vergogna!... tornammo da dove eravamo venuti con la coda tra le gambe come cani bastonati e umiliati.
Venne il giorno della sentenza al tribunale di Vibo Valentia, mi presentai mogio mogio davanti ai giudici togati, dissi tutto in verità, mortificato levai alte le braccia, m'inginocchiai a terra e dissi: condannatemi!... ma i giudici capirono la mia disperazione e fui mandato assolto>>.
 
 

A fami no canusci legge,
ma a robba arrobbata fiurisci e non liga.
La fame non conosce la legge,
ma la roba rubata fiorisce e non dà frutto.

 

Cantu di l'emigranti


Parti littara mia, parti e vattindi
cu nu curreri valentusu e forti
e quando arriverai pe chilli parti,
tu cuntancilla la me mala sorti;
e cuntancilla cu nu ngegnu ed arti,
comu quandu sugn'eu arrètu a li porti.
Da mamma non si poti stari sparti,
la luntananza sua esti la morti,
mi stamu arrassu nui nci vonnu carti,
mancu ragiuni grandiusi e forti
dinci ca bramu di sira e di matina,
luntanu a sta repubbrica argentina.
Di vennari partia, su trinta misi,
pensu la mamma mia, massettu e ciangiu,
si viju genti di me paisjisi,
cu li lagrimi all'occhi s'addimandu,
e li partenti mi li fazzu amici
pemmi la mandu sempi salutandu.
Parti lettera mia e va lontano
con un corriere coraggioso e forte
e quando arriverai da quelle parti
tu racconta la mia cattiva sorte
e raccontala con ingegno ed arte
come se ci fossi io dietro la porta.
Dalla mamma non si può stare separati,
la lontananza sua è la morte,
e siamo lontani noi, non ci vogliono carte
nè ragioni grandi e forti
dille che la desidero da mattino a sera
lontano, da questa repubblica argentina.
Di venerdì partii, son trenta mesi,
penso a mia madre, mi siedo e piango,
se vedo genti dei miei paesi
con le lacrime agli occhi gli domando
ed i partenti me li faccio amici
per mandarla sempre a salutare.

La protesta dei contadini, della gente tutta del Sud, è un pianto corale e sommesso. Si riassume nella condizione della non-parola, come espropriazione del diritto fondamentale di leggere e di scrivere la propria storia, e nell'incapacità di decifrare il presente.
La soluzione è cercata nell'individualismo esasperato e nella solitudine.
Così, alla bellezza del paesaggio fa riscontro, come macabra compensazione, una condizione umana tristissima.
Miseria e disperazione, paura e viltà, hanno intaccato il tessuto individuale e sociale di tutto un popolo. Solo dalla presa di coscienza e dal confronto può nascere negli uomini la determinazione a riaffermare il loro primato sulle cose.

<<Chijati juncu ca la china passa>>.
<<Piegati giunco che la piena passa>>

hanno detto per troppo tempo i contadini calabresi,
associando la miseria ai fatti naturali, ineluttabili.

Secoli di sopraffazione hanno reso questa gente muta. Ora il vecchio non è morto del tutto, mentre il nuovo stenta a nascere.
Sono i giorni amari della mia gente, di quelli che vanno e di quelli che restano. Di quelli che hanno abbandonato tutto e di quelli che restano a consumarsi in una attesa disperante.
 

NOTE
1 Zia Cicca era la più valente tessitrice del Regno delle Due Sicilie.