Jean
Honoré Fragonard.
Ritratto di Jean Claude Richard, Abbé de Saint-Non (Museo del Louvre)
LA TROPEA PITTORESCA DI JEAN CLAUDE RICHARD,
ABBE' DE SAINT NON
di Salvatore Libertino
Jean Claude Richard, detto Abbé de Saint-Non, nasce a Parigi il 15 dicembre 1727. Viene avviato agli studi teologici e di diritto dal padre Jean Pierre, esattore generale delle imposte del territorio di Tour, che gli trasmette il titolo nobiliare di signore di Saint-Non. Nel ’48 prende i voti come suddiacono e l’anno successivo ottiene la carica di avvocato al Parlamento di Parigi, ma la vera vocazione di Saint-Non è quella di viaggiare a tempo pieno che, associata alle copiose credenziali di letterato, scrittore, pittore, incisore, diverrà in breve tempo la sua vera e propria attività di lavoro nel campo editoriale.
Il primo viaggio lo vede impegnato nel ‘59 in Inghilterra, Olanda e Belgio, assieme all’amico René Bernard. Seguono le diverse sortite su suolo italiano, per il quale è amore a prima vista, stabilendosi a Roma, a villa d’Este.
Elabora e pubblica in quegli anni il Diario dell’escursione in Piemonte, Lombardia, Marche, Lazio e Campania.
Nella primavera del ’61 ricompare in Italia, a Roma, Napoli, spingendosi nel non lontano sito archeologico di Paestum. Di quest’ultima esperienza consegna alle stampe, di ritorno a Parigi, una interessante carrellata di acqueforti, aiutato dai suoi collaboratori Hubert Robert e Jean Honoré Fragonard, che di Saint-Non ci lascia un importante ritratto custodito al Louvre.
Ma il prodotto editoriale più famoso partorito dalla mente geniale di Richard è sicuramente “Voyage pictoresque des Royaumes de Naples et de Sicilie”, un’impegnativa opera monumentale che si avvale di un avvincente giornale di viaggio intercalato da una corposa serie di vedute “pittoresche” firmate da tre artisti prestigiosi: Claude Louis Chatelet (1753-1794) paesaggista, Louis Jean Desprez (1742-1804) architetto e vedutista e Jean Augustin Renard (1744-1807) architetto.
La scelta del narratore ricade su Dominique Vivant Denon (1747-1825), scrittore, archeologo e numismatico. A lui viene affidato il ruolo di guida tecnica e ispiratrice del piccolo ma ben fornito drappello degli illustratori.
Nel novembre del ’77 il Denon è già a Napoli proveniente da Roma e prende il comando della spedizione. L’8 aprile 1778 si parte per Terra di Calabria, la “Grande Grèce”. Attraverso la Puglia l’equipe si inoltra ai primi di maggio in Calabria Citeriore: Corigliano, Sibari, Melissa, Strongoli, Rocca Imperiale, Roseto Capo Spulico, Crotone, Capo Colonna, Catanzaro, Squillace. Poi lungo il mare Jonio entra in Calabria Ulteriore: Roccella, Gerace, Locri, Reggio.
Dopo la lunga scorribanda in Terra di Sicilia durata ben 6 mesi con sosta sull’isola di Malta, si ritorna tutti in Calabria via mare con l’unico scalo tirrenico a Tropea alla fine di novembre del ‘78 da dove si riparte il 5 dicembre alla volta di Nicastro, tappa questa seguita dalle successive di Cosenza e Napoli, capo linea della pittoresca e proficua avventura.
Al ritorno a Parigi cominciano, sotto l’attenta supervisione di Saint-Non, a prendere corpo i cinque volumi in folio che assemblano il racconto di Denon ai paesaggi disegnati da Chatelet, Desprez e Renard: 284 Tavole, 411 Incisioni, 5 Fleuros, 15 Vignette, 96 Culs de lampe, 6 Carte pieghevoli, una Pianta e 14 Tavole numismatiche. L’Abbé non solo mette mano nel testo di Denon addomesticandolo e riconducendolo alla ricerca originaria del "pittoresco" ma dà nuova vitalità agli schizzi, disegni e acquarelli degli illustratori riproducendoli con la tecnica dell’incisione all’acquatinta che rende più visibile e appariscente la scena del progetto iniziale delle rappresentazioni.
Dopo una decina d’anni, il Saint-Non, che, oltre alle opere editoriali, lascia nel mondo dell’arte numerose composizioni, disegni a sanguigna, oli, pastelli e gouaches, muore a Parigi il 25 novembre 1791, a 65 anni.
A questo punto è interessante, oltre che curioso, conoscere cosa scrive il Denon sulle pagine del diario di bordo che hanno a che fare col “pittoresco” tropeano e con il backstage delle due animatissime vedute, che il Saint-Non decide di dedicare alla Città, dello scoglio della Madonna dell’Isola, il cui eremo viene ‘eletto’ dal drappello francese residenza prestigiosa durante la permanenza tropeana.
Come noto, una delle vedute è ripresa dal Mare Piccolo, l’altra dal Mare Grande, mentre la residenza sullo scoglio dell’Isola a quei tempi veniva imposta dalle Autorità Municipali - il Sindaco era Vincenzo Romano e il Vescovo Mons. Felice Paù - a qualunque visitatore, che veniva posto in vera e propria quarantena sull’eremo per accertare che non fosse contaminato dalla peste debellatrice. La traduzione che segue del racconto del Denon è di Gustavo Valente. E' quella che ci pare più incisiva.
Vue de la
Ville & du Château de Tropoea. Incisione su rame, cm. 21,5 x 34,5, firmata per
il disegno
«d'après nature» da Louis Jean Desprez, per l'esecuzione da Jean Duplessi Berteaux e
Marie Alexandre Duparc.
Il nostro scirocco si sosteneva sempre assai fresco, e lasciammo infine dietro noi questa terribile e minacciosa parte delle isole di Lipari. Dal lato della Calabria, intravedemmo Gioia, nel fondo del golfo al quale dona il nome, e che è situata in un paese più unito e meno selvaggio; Nicotera e il Capo Vaticano cominciavano a discoprirsi, e ci parve che i siti e i dettagli potevano essere interessanti: ma al tramontare del sole, il vento venne a calare ed a cadere così assolutamente che fummo obbligati di fare a remi sette miglia che ancora ci restavano a percorrere. La noia e soprattutto il rumore uniforme dei rematori ci addormentarono tutti, e non arrivammo a Tropea che alle quattro dopo mezzanotte.
Passammo il resto della notte sballottati nel porto di Tropea e assai male a nostro agio; infine, all’alba, scorgemmo questa piccola città tagliata su una roccia, e perpendicolarmente piazzata al disopra delle nostre teste; ne discese presto una deputazione che venne a riconoscerci, dopo aver ricevuto i nostri passaporti ed essersi lagnati della necessità e dell’obbligo in cui si trovava di ritenerci in cattività fino all’epoca in cui si sarebbe sicuri che non apportavamo alcun germe di peste. Essa s’impiegò gentilmente a soccorrerci ed a trovarci un asilo; il Sindaco della Città e il Marchese Pelia, per il quale avevamo lettere di raccomandazione, vennero presto a proporcene uno, che avevamo scelto da noi stessi, tanto la sua posizione ci parve singolare e pittoresca: era una specie di castello abbandonato o d’eremitaggio fondato sulla vetta di una roccia scoscesa, che non è legata alla terra che da un ponte, e che s’avanza nel mare come il castello di Pietro Eucise a Lione.
Nulla rassomiglia più realmente a questa prigione celebre in Francia, che la specie d’eremitaggio e di torrione nel quale fummo confinati; le nostre guardie ci servivano, ci trovavano perfettamente alloggiati, e, ciò che non era indifferente per noi, in una posizione incantevole, avendo da un lato la città di Tropea, nel sito il più pittoresco, dall’altro il mare che veniva a battere fino ai piedi della nostra roccia, e in faccia, il terribile Stromboli, a sessanta miglia da noi.
Ebbimo ben presto fatto il nostro stabilimento: ci ripartimmo qualche granaio o solaio abbandonato, di cui facemmo le nostre camere da letto; una vecchia cappella gotica ci serviva da salone d’assemblea; e là che ricevevamo quelli che venivano a visitarci; e, in un momento di riposo, uno dei nostri passatempi più divertenti era di fare segni e bronci alle donne della città che ci birciavano dalle loro finestre, e con le quali avevano da lontano conversazioni ininterrotte, perché, in Italia, si apprende a dire tutto in questo modo, che non lascia, quando si è accostumati, d’avere la sua grazia e le sue finezze.
Il resto del nostro esilio fu impiegato a disegnare nei dintorni di Tropea, e a prendere delle vedute della nostra abitazione sotto differenti aspetti. Una di queste vedute, che abbiamo fatto stampare, rappresenta i dintorni della piccola città di Tropea, assisa sulle rocce tagliate a picco, con le strade o piuttosto gli scalini che sono stati scavati nella stessa roccia, per potervisi avvicinare. In faccia, e sul bordo del mare, è la roccia isolata in alto alla quale era il piccolo romitaggio che ci aveva dato per contratto. L’artista al quale dobbiamo questo grazioso disegno non mancando mai di tirare parte di tutto ciò che incontrava, e vedendo continuamente attorno alle nostre rocce pescatori di cui il successo era spesso d’un grande interesse per lui, ha immaginato di piazzare sul davanti della sua composizione una pesca delle più abbondanti, e i cui dettagli, i differenti accessori rendono gradevole uno dei siti più selvaggi che si possa incontrare.
Vue du
Château ou Hermitage de Tropoea. Incisione su rame, cm. 16X24.5, firmata da
Claude Louis Châtelet
per il disegno da Carl Gottlieb Guttenberg o dal fratello Heinrich per
l'esecuzione.
La veduta è ancora quella dello stesso eremitaggio di Tropea; ma l’aspetto ne è preso dal lato opposto, e tal quale si scorge la roccia quando si arriva per mare.
E’ proprio sulla sommità di questa singolare roccia che era piazzato il nostro torrione; dopo esserne stati i prigionieri, ne eravamo divenuti i padroni, e da veri signori catalani, facemmo gli onori ai cavalieri della città che venivano a renderci visita. La nobiltà è assai numerosa a Tropea, quantunque la città sia piccolissima; ma essendo riguardata come città reale, e ve ne son poche nella provincia, tutti i nobili del paese vi si ritirano, non volendo affatto abitare le città baronali in cui i loro bambini nascono vassalli, e, per questa specie di macchia di patrocinio, sono esclusi dai grandi onori della nobiltà, e dell’entrata al Capitolo dell’Ordine di Malta.
Dacchè il timore della peste fu infine passato, e dacchè potemmo lasciare il nostro alloggio aereo, facemmo ingresso in città, che trovammo fabbricata sulla piatta forma d’un’altra roccia avanzante egualmente nel mare; essa ne è quasi circondata, eccetto dal lato che scende dalle montagne, e dove si trova l’ingresso della città. Era in altro tempo difesa da un castello e un fossato scavato nella roccia; ci dicono che dall’inizio del secolo vi erano ancora in questo Castello cannoni di ferro, che hanno affondato i loro affusti, e non si rileveranno mai, secondo le apparenze, dall’affossamento in cui giacciono.
Non ci è a Tropea alcuna specie di antichità, e si deve credere che l’origine che gli danno nel paese è chimerica. Il suo nome viene, si dice, Trophea, e si pretende che questa città, fu così nominata quando Scipione, tornando dalla conquista di Cartagine, vi ricevette gli onori del trionfo. Si potrebbe obiettare, forse, a questa pretensione che non vi sono grandi apparenze che Scipione abbia scelto per una festa della più grande pompa e del suo più grande apparecchio presso i Romani, un luogo così scosceso, senza porto, senza città e senza spazio per allogarvi un’armata; così non si ci trova nulla che viene in appoggio a questa opinione; strade strette, cattive fabbriche, non una vestigia di monumento, e non una tradizione che dica anche che si sia solamente trovato una moneta romana in tutto il suo territorio.
Questo territorio di Tropea consiste in una piccola pianura assai poco distesa, elevata e dominata da alte montagne; essa è, del resto, coltivatissima e fertilissima: ruscelli vi irrigano gradevoli giardini, piantati a limoni ed aranci, di cui gli abitanti fanno essenze che portano in Francia; vendono anche tappeti e coperte fatti col cotone che coltivano e lavorano essi stessi; industrie ed attività ben rare nei due reami di Napoli e di Sicilia.
Partimmo da Tropea il 5 dicembre, dopo aver salito assai rapidamente durante il corso di tre miglia, e lasciando a destra l’Appennino che costeggiavamo, trovammo una strada gradevole e buona per viaggiare a cavallo attraverso un paese ricco, abbondante in grano e ben coltivato; scorgemmo presto Monteleone a diciassette miglia di Tropea.