SICHELGAITA
Principessa Longobarda e Duchessa Normanna
di Giovanni Napolitano
Dalle antiche cronache tropeane risulta che molto fiorenti sono sempre state le relazioni tra i Duchi e i Re della dinastia normanna con i Vescovi di Tropea. Alla venuta dei Normanni in Calabria nella sedia vescovile tropeana si era insediato un uomo molto illustre, Calociro, protosincello imperiale nonchè ultimo vescovo di rito greco, al quale Roberto il Guiscardo concesse dei privilegi, come si evince da un diploma pervenutoci in traduzione latina, rogato da tal Giovanni, regalis clericus, nel gennaio del 1066. Il medesimo Calociro nel 1062 avrebbe accolto con grande ospitalità, tributandole solenni onoranze, la profuga moglie del Guiscardo, Sichelgaita, la quale, a quanto racconta Goffredo Malaterra, s'era rifugiata a Tropea in seguito alla notizia (falsa) che il marito era stato assassinato a Mileto ( G. Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris eius, a. c. di E. Pontieri, Bologna 1927). Detto vescovo seppe così bene accattivarsi la riconoscenza del Guiscardo, che questi, col diploma del 1066, confermò ed accrebbe i domini che il Vescovado di Tropea possedeva. Calociro in questo ampio diploma è detto Protosincello, posto più illustre fra i Sincelli e loro capo e fu in quell'occasione che la stessa Sichelgaita fece dono al suo ospite benefattore del famoso pastorale, il pezzo più pregiato d'alta oreficeria facente parte del tesoro della Cattedrale di Tropea. Successivamente, il vittorioso Roberto si dice avesse ancor più arricchito l'illustre Vescovo Protosincello, suo Consigliere. Anche il Duca Ruggero Borsa con diploma del 1094 accrebbe le donazioni fatte dal padre suo al Vescovo di Tropea, Iustego, unendovi la sedia di Amantea, allora soppressa, e poi Guglielmo il malvagio, trovandosi a Messina, ne estese ampia conferma nel 1155. Le cronache sostengono anche che in quel tempo Sichelgaita avesse delle pertinenze in quel di Tropea e precisamente la località di Bordila (Parghelia) e della sua tonnara (<<tonnaria in territorio Tropeae loco qui Bordella vocatur>>). Tonnara che fu poi dal Duca Ruggeri concessa al monastero di Montecassino e all'abate Oderisio, proprio nell'anno della morte di Gaita (1090), la quale era stata assidua benefattrice di Montecassino, cui la legava il vincolo di parentela con l'abate Desiderio, poi Papa Vittore III. E non a caso, le sue ultime volontà furono quelle di essere sepolta nel suddetto monastero. Ma vediamo chi fu veramente questa donna, affascinante e sapiente, che, giovanissima, a ventidue anni divenne sposa del gigante dagli occhi azzurri, Roberto il Guiscardo, il più grande guerriero del suo tempo, ma rude analfabeta e come la sua discreta e assennata opera diplomatica, presso la corte normanna, sia risultata vincente.
La principessa Sichelgaita visse in un periodo di eccezionale rilevanza storica, che vide il processo di rinnovamento della Chiesa di Roma, nel segno della riforma gregoriana, la lotta delle investiture, l'espansione dei nuovi barbari nella Longobardia minore, il declino dell'antico principato di Salerno, il trionfo dello Stato normanno. I protagonisti furono: Gregorio VII, Enrico IV, Desiderio di Montecassino, Alfano I di Salerno, Roberto il Guiscardo e Sichelgaita, figura che Amato di Montecassino descrive "nobile, bella e saggia" e Romualdo, arcivescovo e storico salernitano "onesta, pudica, virile nell'animo e provvida di saggi consigli". Sichelgaita nacque a Salerno nel 1036 dal principe Guaimario IV, della dinastia dei longobardi spoletini, e da Gemma, figlia del conte Landolfo di Teano. Guaimario volle dare alla sua terza figlia il nome di sua nonna, donna di altissimo lignaggio longobardo. Gaita trascorse l'infanzia e la fanciullezza nel monastero di S. Giorgio, contiguo al Palatium; da un documento del 1037 risulta che in quel prestigioso monastero vi era una infermiera nel cui laboratorio si preparavano i medicamenti. Gaita conobbe perciò l'arte medica sin da fanciulla (fu discepola di Trotula De Ruggero, la celebre medichessa) e subì una grande attrazione per lo studio, la bellezza dei classici latini e greci e la sapienza delle Sacre scritture. Fu circondata dall'affetto del padre, che era l'uomo più potente dell'Italia meridionale, principe di una Salerno detta, universalmente, "opulenta"; purtroppo il suo potere gli procurò ostilità ed isolamento politico ed il 3 giugno 1052 fu barbaramente trucidato da congiurati di palazzo, che avevano cospirato con i ribelli amalfitani. Ad ereditare l'ingegno paterno fu Sichelgaita ma, per la sua condizione di donna, dovette dare spazio al fratello Gisulfo II, di lei più giovane; ebbe però il suo ruolo di guida e di governo del Palatium, talché divenne subito famosa per le sue opere sociali e culturali. Gli storici raffigurano Sichelgaita come un personaggio imponente e forte, più affascinante che bello: longilinea e slanciata, dall'incedere regale, sguardo penetrante e un'indole autoritaria non priva di personalità e misticismo. La fama delle sue virtù giunse sino al potente Roberto il Guiscardo e ne fu affascinato. Questi colse l'occasione per chiedere la mano della principessa longobarda allorquando Gisulfo II gli inviò suo fratello Guido, per chiedergli aiuto contro le continue invasioni del principato ad opera di Guglielmo il normanno. Roberto così si rivolse a Guido: "annuncia al principe Gisulfo che chiedo in sposa Sichelgaita, principessa di Salerno, sorella sua e tua. E' giunto a me ed alla mia gente la fama di donna avvenente, saggia, pudica e religiosa. sarà grande onore e gioia per il popolo normanno vederla sposa e signora del suo duce". Aggiunse che avrebbe divorziato da Alberada, da cui aveva avuto Boemondo. Per motivi politici Gisulfo II tentò di ostacolare le nozze ed addusse che l'erario del principato non era, allora, in condizione di sostenere le spese totali. Il Guiscardo, per tutta risposta, venne a Salerno, affrontò Gisulfo, gli confidò che prendere in sposa Sichelgaita significava il suo massimo ideale e gli gridò che avrebbe provveduto lui stesso ad assegnarle in dote le più ricche terre ed i più splendidi castelli di Calabria. La fiaba diventava storia. Gaita compiva allora 22 anni, conservava il titolo di principessa longobarda, acquisiva quello di duchessa normanna, diventava sposa di Roberto il Guiscardo, il biondo gigante dagli occhi azzurri, il più grande guerriero ed il più abile ed astuto statista del suo tempo, ma "rude analfabeta". Pur rimanendo nel suo ruolo, ella apporterà un concreto e fattivo contributo al successo di tutte le tappe politiche di Roberto, grazie alla sua cultura, alla sua rara saggezza, al suo sincero affetto coniugale. I loro rapporti furono di una certa conflittualità: da una parte lei con la sua tenace longobardicità, a cui non abdicò mai, dall'altra lui, rozzo, con l'asprezza e l'inflessibilità dei vichinghi, sterminatori e privi di pietà. Fu un freddo duello tra razze e civiltà diverse, una a suo sorgere, l'altra al suo tramonto; riuscì sempre a prevalere il garbo, il fascino personale, l'eleganza e la nobiltà di Gaita. Nell'aprile 1059, con papa Nicolò II, ebbe luogo in Laterano, uno dei più rivoluzionari concili della storia, in cui furono sancite le norme che travolgeranno il tradizionale assetto della Chiesa. I riformisti erano attenti alle possibili reazioni della corte tedesca e non potevano non pensare di coinvolgere i normanni, quali possibili difensori della strategia indipendentista della Chiesa. Questa valutazione politica non sfuggì a Sichelgaita, la quale pensava ai vantaggi che poteva portare al marito l'avvio di un processo di pacificazione e di revisione degli antichi rapporti di conflittualità con il papato. Cominciò allora un'abile opera per persuadere Roberto e favorire opportune intese ed alleanze: per quanto fiero, autoritario ed arrogante, il normanno accettò l'ingerenza di Gaita nelle sue determinazioni e manifestò al nuovo papa Nicolò II, il quale, forte dell'incoraggiamento degli ideologi riformisti, approfittò per indire subito un nuovo concilio a Melfi. Sichelgaita volle provvedere all'intera organizzazione, riservando al pontefice un'accoglienza maestosa. Roberto e Gaita si inginocchiarono dinanzi a lui con sentita umiltà e lui li abbracciò e benedisse: era questa una importante tappa della scalata dei normanni alla completa conquista del Mezzogiorno. Furono confermate le norme appena sancite dal concilio lateranense, e, nella giornata conclusiva, il papa consacrò ufficialmente Roberto, duca di Puglia e Calabria, con la possibilità della conquista della Sicilia. In cambio il Guiscardo si impegnò a difendere la Chiesa contro l'impero bizantino e germanico ed a garantire l'elezione del Papa secondo le norme del concilio. Sichelgaita era felice di aver contribuito alla grande riconciliazione. Alla fine del 1059, nacque Ruggero, il primogenito; verranno altri sette figli, due maschi e cinque femmine. Gaita seppe coniugare brillantemente il ruolo di donna politica con quello di madre. Purtroppo, i rapporti tra il papa Gregorio VII e il Guiscardo si incrinarono perché quest'ultimo aveva rifiutato di combattere i normanni che devastavano i territori della Chiesa negli Abruzzi. Il Guiscardo mirava alla conquista di Salerno e ragioni politiche imponevano tale atteggiamento. Fu perciò raggiunto, nel 1074, dalla scomunica, con grande dolore di Gaita che ne rimase profondamente sconvolta. L'esercito normanno mosse alla volta di Salerno nel maggio 1076. Sichelgaita, per evitare spargimento di sangue, escogitò ogni possibile tentativo e riuscì persino a convincere suo cugino, l'abate Desiderio di Montecassino a intercedere presso Gisulfo II per una risoluzione diplomatica della vicenda, ma inutilmente. Alfano, vescovo di Salerno, dinanzi a tanta follia del suo principe, si rifugiò presso Roberto nella speranza che il suo gesto avrebbe fatto precipitare gli eventi. Gaita era tormentata dalla sorte del fratello Gisulfo e si adoperò presso il marito affinché avesse il massimo rispetto del suo dramma e della sua dignità; Roberto, seppure con riluttanza, ne raccolse l'appello. Donò a Gisulfo II mille bisanti d'oro e gli concesse di rifugiarsi da papa Gregorio VII, che lo nominò governatore delle terre della Chiesa. Il 13 dicembre 1076 i normanni entrarono in Salerno e l'occuparono: alla notizia dell'arrivo di Gaita accorsero i vecchi longobardi, gli amalfitani del vico di Santa Trofimena, gli ebrei del quartiere di Santa Maria de Dommo, gli schiavi saraceni, i profughi bizantini, tutti plaudenti a lei, loro speranza. Era lei la vera grande trionfatrice e, nel vedere sgretolarsi la Longobardia Minore, giurava a se stessa di farla rivivere in suo figlio Ruggero. Gaita tornò nella sua vecchia reggia e da consigliera abilissima, spinse il Guiscardo ad essere prodigo ed a ristrutturare chiese e conventi. Nel 1080 si dava anche inizio alla costruzione del Duomo; tanta dimostrazione di profonda devozione da parte di Roberto, indusse il Papa a liberarlo dalla scomunica. Sichelgaita riprese anche a frequentare la scuola medica, in cui, dominava la figura di un gigante della medicina, Costantino l'Africano, profugo dalla nativa Cartagine, uno dei massimi veicoli della scienza araba nell'occidente. Roberto volle donare a Gaita una nuova reggia, Castel Terracena, che, per merito suo, divenne un centro politico e sociale, culla del mecenatismo dei sovrani, all'attenzione dell'Europa: Salerno assurse così a mediatrice tra l'oriente e l'occidente. Purtroppo un pesante pensiero tormentava da sempre Gaita: era interiormente angosciata per la sorte della figlia Olimpiade, che era stata inviata alla corte di Costantinopoli quale promessa sposa. L'evolversi degli eventi, nel 1078, comportò, però, la deposizione dell'imperatore Michele Dukas per cui Olimpiade, poi divenuta Elena, fu relegata in un convento. Tale situazione portò Sichelgaita ad appoggiare il progetto di Roberto di volgere contro Bisanzio; fu una spedizione che assunse il carattere di una "precrociata". Venne allestita una flotta imponente sulla quale si imbarcò anche Sichelgaita. Dopo Corfù, l'esercito normanno volse alla conquista di Durazzo. Lo scontro fu di inaudita violenza, un'ala delle colonne normanne, guidata da Roberto e Boemondo, ebbe la meglio sulle truppe greche e veneziane, alleate, mentre un'altra ala stava per ripiegare. Sichelgaita sentì cadere su di lei la responsabilità del momento: saltò a cavallo ed alla testa dei suoi uomini si lanciò impavida nella mischia. Una freccia la colpì alla spalla sinistra e rischiò di essere fatta prigioniera, ma il suo coraggio risvegliò talmente l'ardire dei normanni che li portò alla vittoria. Durazzo, il 18 ottobre 1081, era conquistata: Roberto corse incontro a Sichelgaita e l'abbracciò tra l'esultare e le acclamazioni dei soldati. L'atto di coraggio fu così commentato da Guglielmo Appulo: "Dio la salvò perché non volle che fosse oggetto di scherno una signora sì nobile e venerabile". Purtroppo Roberto non poté continuare la spedizione verso l'Illiria perché, su invocazione di Gregorio VII, dovette muovere verso Roma, contro Enrico IV. Giunto a Roma, nel maggio 1084, con un esercito di seimila cavalieri e trentamila fanti, compì massacri di inaudita ferocia, talché Gregorio dovette partire in esilio al seguito del Guiscardo, perché il popolo lo riteneva colpevole elle sue disgrazie. Fecero tappa a Montecassino: il Papa, benedettino, sperò di ritrovare lì la sua pace, ma l'ambizione di Roberto lo voleva nella capitale normanna, a Salerno, per cui dovette subire, quasi prigioniero, la volontà di chi era il vittorioso protagonista di una immane tragedia. Sichelgaita fu felice di poter ricevere il Papa con accoglienze trionfali e subito organizzò la consacrazione solenne della splendida cattedrale che, con Roberto, aveva fatto costruire in onore di S. Matteo. Era infatti necessario ripartire con urgenza per l'Oriente, ove l'esercito del Guiscardo era allo sbando. Ai primi di ottobre del 1084 salparono da Brindisi, con una flotta di 120 galee, Roberto, Boemondo e Ruggero; li accompagnava Sichelgaita per stare accanto al suo sposo, ormai settantenne, e per nostalgia della figlia Elena . L'anno 1085 fu un anno funesto. La gloria, per Salerno, di ospitare, tra le sue mura, quel gigante di pontefice non durò a lungo: il 25 maggio del 1085, nel cenobio di S. Benedetto, esalò il suo spirito. La sua morte lasciò attonito il mondo intero; intorno a se, negli ultimi anni del suo supremo pontificato, si era svolta la vita di tutte le nazioni ed aveva tenuto testa a tutti e contro tutti, per tutelare i sacrosanti diritti della Chiesa. Sichelgaita, lontana da Salerno, non pose mai freno alle lacrime e lo pianse come un padre. Le reliquie del patrono S. Matteo e quelle di S. Gregorio sono state sempre il maggior orgoglio della basilica salernitana, che per averlo ospitato nel suo esilio ebbe l'onore di diventare "Chiesa Primaziale". Dopo meno di due mesi, moriva in Cefalonia, colpito da malattia epidemica, il Guiscardo: cedeva alla natura il 17 luglio 1085, nel settantesimo anno di vita; Sichelgaita, Boemondo e Ruggero, immersi nel più straziante dolore, sciolsero le vele verso la Puglia, con le sue spoglie mortali, che furono sepolte nella chiesa della Badia della SS. Trinità di Venosa. L'autorevole cronista Guglielmo Appulo descrive con vivo realismo la commozione di Sichelgaita: "oh dolore ! che arò io sventurata? dove potrò andarmene infelice? Quando apprenderanno la notizia della tua morte i Greci non assaliranno forse me, tuo figlio e il tuo popolo, di cui tu solo eri la gloria, la speranza e la forza?". Henric von Kleist, nella tragedia "la morte del Guiscardo" di cui fu pubblicato un solo atto, rappresenta Sichelgaita mentre cerca di ristorare il marito bruciato dalla febbre e la figlia Elena, presente purtroppo solo nella rappresentazione tragica, che stringe sul petto la madre. Dante Alighieri non dubitò di collocare il Guiscardo in paradiso, tra le anime di coloro che avevano ben amministrato la giustizia. Il nove ottobre ancora di quell'anno, la morte colpì un altro personaggio non meno interessante per la storia di Salerno, l'arcivescovo Alfano I, medico e letterato. Fu sepolto accanto alla tomba di Gregorio VII, suo amico, affinché la morte non valesse a separarli. Fu un ulteriore dolore per Gaita, perdeva l'ultima sua guida, un amico di sempre, a lei congiunto in parentela, un longobardo cui aveva sempre confidato i suoi più intimi pensieri. Ormai sola, si ritirò in Castel Terracena e continuò a prodigarsi in favore del figlio Ruggero Borsa. Con illuminata intuizione attuò un antico "istituto longobardo": decise di associarlo nel governo del ducato, fin quando non fosse sopita ogni polemica sulla successione. La soluzione fu ben accolta a corte, dal patriziato, dal clero e dal popolo, i quali erano certi che l'esperienza e la saggezza della madre si sarebbero integrate con la giovanile intraprendenza del figlio. A Boemondo furono assegnate le sue conquiste in Grecia e varie città pugliesi, quali Bari, Otranto e Taranto. Anche questa volta fu Gaita a trionfare, fu il suo carisma che si impose. La scelta del "bicefalismo ducale", come fu definito dagli storici, fu il modo più intelligente per scongiurare le lotte intestine ed assicurare il rilancio di un forte governo del ducato. Sichelgaita, pur senza Roberto, riuscì, in forza delle sue possenti note caratteriali, a portare Salerno al culmine della sua potenza. Essa non fu più solo "opulenta" e potenza militare; dalla tomba dell'evangelista S. Matteo e da quella di Papa Gregorio VII si levava il potente richiamo ai valori del cristianesimo militante. Negli ultimi anni, Gaita si dedicò ad una vita di preghiera; frequentava con molta assiduità la Badia di Cava, alla quale aveva fatto donare, sin dai tempi del Guiscardo , molti conventi e fu assidua benefattrice di Montecassino, cui la legava il vincolo di parentela con l'abate Desiderio, poi Papa Vittore III. Sentì molto vivo anche il culto di S. Nicola di Bari. Fu questo un periodo finalmente tranquillo, in pieno ardore religioso, in cui poté sostenere l'opera di moralizzazione della Chiesa. In un momento di sconforto spirituale, rivelò a Gaitelprima, sua sorella, la sua ultima volontà: chiedeva d'essere sepolta a Montecassino. Sichelgaita morì il 27 marzo del 1090: i longobardi si sentirono privati di una madre, i normanni ebbero chiara coscienza che si dileguava l'ultima testimonianza del loro potere, gli umili la piansero affettuosamente. Mentre il Guiscardo si era fatto seppellire nella SS. Trinità di Venosa, nel sacrario dei duchi normanni, dove, più tardi Boemondo fece tumulare anche sua madre Alberada, Sichelgaita scelse, come sua ultima dimora, Montecassino. Fu l'ultimo gran gesto di una figura maestosa della storia a noi più vicina; volle farsi in disparte dando un forte segno d'umiltà, di quell'umiltà che connota i forti e che la pose nella leggenda.