1963,The Beatles
Suonavano
insieme da pochi mesi ed erano sconosciuti al grande pubblico internazionale.
Ecco,
in questo straordinario reportage di Gino Begotti, uno dei primi concerti
dei Beatles!
di Guido Carretto
E' il 14 dicembre 1963 quando sulla scricchiolante assito rialzato (chiamarlo palco sarebbe ottimistico) del Wimbledon Palais a Londra, in sott'ordine rispetto a "David Ede & The Rabin Band", senza neppure una citazione su insegna e locandine, sale un complesso beat di alterno passato, pericolante presente e presumibilmente opaco futuro. Sono quattro compiti ragazzi di Liverpool - John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr - che si esibiscono in completo scuro e cravatta, camicia ben stirata con il colletto rigorosamente abbottonato: unica stravaganza, capigliature a caschetto che sembrano colbacchi delle Guardie della Regina bolliti da un lavaggio sbagliato. Tre sono carini, pizzicano con garbo le chitarre e cantano con voci aggraziate, il quarto, di rara bruttezza, percuote con malagrazia i vari strumenti della batteria e, secondo qualcuno, non va nemmeno a tempo.
Ma il pubblico,
soprattutto quello femminile, si entusiasma, sia pure senza perdere il
controllo: tanto che alla fine del concerto si metterà disciplinatamente
in fila davanti al bancone del bar dove i quattro di Liverpool dispensano
affabilmente autografi e sorrisi sorseggiando caffè nero. E' l'ultima
volta. Ancora pochi mesi e i quattro saranno il complesso più famoso
del mondo, al centro di un delirio universale. E ai pochi lampi che avevano
illuminato il loro percorso (4 ottobre 1962 Love Me Do e in quel 1963 Please
Please Me) se ne aggiungeranno tali e tanti da rendere la loro carriera
la più sfolgorante mai vista nella storia della musica leggera.
Nel 1961,
in Germania, si erano esibiti alla "Queen's Hall" di Aldershat davanti
a diciotto persone. John, George e Ringo volevano piantare tutto, ma Paul
li aveva convinti: 'Se siamo professionisti, dimostriamolo'. Nel febbraio
1964 sbarcheranno e sbancheranno negli Stati Uniti. Un trionfo dopo l'altro,
fino al 30 dicembre 1970, quando Paul McCartney, proprio quello che aveva
tenuto insieme il gruppo nei momenti duri, si presenterà al tribunale
di Londra per chiedere lo scioglimento.
Preistoria
il 1957, quando Lennon aveva fondato con i compagni di classe i Quarrymen;
nello stesso anno s'era aggiunto quindicenne Paul McCartney, poco dopo
George Harrison. Preistoria la diserzione del primo batterista Pete Best,
stufo di aspettare un successo sempre più impropabile, e l' "andata
al diavolo" del bassista che s'era intruppato con loro ma poi non li aveva
giudicati all'altezza.
In mezzo, le definizioni del Times: "I migliori musicisti
inglesi di sempre" e del Sunday Times: " I più grandi compositori
dopo Beethoven". Un'autodefinizione-scandalo: "Siamo più famosi
di Gesù Cristo". Il titolo di baronetto per tutti. Eppure la loro
non era stata una vera rivoluzione. Era nel giusto Lennon, quando disse:
"Noi Beatles non abbiamo cominciato niente: ma contemporaneamente a noi
cominciò negli anni Sessanta qualcosa che non dà segno di
voler finire". Solo che a vederlo nascere e a capire che cosa stesse nascendo
erano stati in pochi, particolarmente lungimiranti.
Quel giorno
di dicembre s'era unito al pubblico del Wimbledon Palais, una balera che
spesso ospitava incontri di catch, un giovanissimo fotografo veneziano
svelto come un furetto e attento come un gatto, che aveva intuito nei Beatles
la scintilla destinata ad accendere il grande fuoco. E per tutto il giorno,
durante e dopo il concerto, li aveva "tormentati" con l'obiettivo. Il ragazzino
si chiamava Gino Begotti.
Trentacinque
anni dopo, dando alle stampe questa preziosa antologia fotografica, mi
ha chiesto esitante qualche riga di accompagnamento scritto. Da vecchio
fan dei Beatles, e da amico ed estimatore suo, ho accettato subito: e qui
rispondo al suo "grazie" e gli dico che sono io ad essergli grato.
L'esibizione di Wimbledon
vista da Mark Lewisohn