E
nel Borgo in festa
il
Cammello continuò a ballare...
di Salvatore Libertino
L''alzata'
della barca al suono della 'caricatumbula'.
Encomiabili
le opere di falegnameria per la costruzione delle barche come pure gli
addobbi del borgo, dall'affaccio della villetta del cannone, lungo la via
Umberto I, alla vecchia conula che porta l'immagine della Santa Croce,
l'emblema che prevalse nel 1571 sulla Mezza Luna a Lepanto. Dove nel mezzo
della battaglia, i tropeani hanno rincorso per tutto il pomeriggio l'ammiraglio
comandante delle flotte turchesche Euldj Alì Pacha, che riuscì
a seminare i nemici e ritornare ad Istambul salvando nella fuga almeno
quaranta navi. Alì Pacha nel giro di sei mesi ha avuto la capacità
di ricomporre i cocci di quella disfatta e ricostituire una flotta più
imponente ed efficiente di quella che accusò la tremenda sconfitta
alle Isole Curzolari. Soprannominato Ulugh Alì (Alì il rinnegato)
ma noto anche come Occhialì o Luccialì, era nato in Calabria
nel 1519 con il nome di Dionigi Galeni. Fu rapito all'età di 16
anni nel porto di Tropea dal pirata algerino Ariadeno Barbarossa e stabilitosi
a Istambul rinnegò la religione cristiana convertendosi all'islamismo.
Morì in Turchia nel 1587.
Un
successo inaspettato è stata la vendita dei biglietti per la riffa
di una bella moto. Come anche quello che durante la giornata non si era
mai vista una così grande partecipazione di pubblico. Grandiosa
è stata la mole di gente che non è voluta mancare all'appuntamento
più importante con la tradizione tropeana. Anche se traboccante
in spazi molto ridotti e senza transenne (le uniche erano Enzo Taccone
e Pasquale Russo), ha invaso il teatro degli avvenimenti assistendo composta
a tutti gli atti via via consumati nell'intero arco festivo, dal primo
pomeriggio fino a notte inoltrata: dal ballo dei giganti processionali
ai giochi popolari, dalla distruzione delle barche al volo (ahimè,
deludente) della colombina, dal concerto coinvolgente dei bravi 'Los Locos'
allo spettacolo mozzafiato dei fuochi artificiali della superpremiata ditta
Schiavone di Reggio. Ma per tutti il momento più atteso, il cuore
della festa, è stato il 'ballo del camio' (cammello), anzi dei camii,
perchè quest'anno erano in due a ballare a via dei forgiari. Si
sono viste per strada intere familiole e non solo tropeane che hanno trovato
il clima giusto del divertimento e dello stare insieme. Nei parcheggi molti
erano a stazionare i pulman che hanno portato migliaia di turisti e visitatori
da centri vicini e lontani e dagli alberghi della zona. I veri sponsor
della festa sono stati i cittadini, che hanno risposto in termini economici
alla grande, tanto da permettere la copertura di una parte delle spese
per l'edizione del prossimo anno, che sarà rivoluzionata, a detta
del comitato, sia per l'estensione della durata sia per l'aggiunta di eventi
nuovi legati alla storia della città, come quello della rievocazione
del ritorno dei tropeani vittoriosi dalla battaglia di Lepanto.
La
ritualità dell'antica tradizione è stata rispettata in pieno.
Il bouquet di fiori deposto da Nicola Cricelli ai piedi della sacra conula.
Il suono della 'caricatumbula' (bravissimi i percussionisti) che ha accompagnato
le 'alzate' delle barche. L'invito di zia Rosina Addolorato ai passanti
ad assaggiare i fichi secchi contenuti in un elegante canestrino per non
essere molestati durante l'anno dai moscerini ('zappagghjuni). Lei abita
di fronte alla conula e per tutta la giornata della festa lascia aperta
la porta di casa. Sulla tavola è pronta una tazza di caffè,
fette di pan di spagna, il canestrino pieno di fichi secchi. Non tutti
sanno che dentro quella casa per i nove giorni che precedono la festa viene
organizzata con le sorelle e gli amici la santa novena con litanie, rosari
e canti tradizionali. 'Perchè la festa una volta - ci ricorda zia
Rosina - era anche religiosa ed il parroco della vicina chiesa del Purgatorio
diceva messa davanti casa'. Le piace raccontare aneddoti appartenuti un
tempo alla festa più antica di Tropea, parlare dei personaggi del
'borgo' che si occuparono per molti anni, animandola, della sua continuità.
Racconta di Antonio Calò, detto 'u ndossu' e dei suoi palloni di
carta ricavata dai sacchi di zucchero e fatti volare dall'affaccio con
l'aria calda alimentata dalla fiamma del petrolio. Dei 'pupi du ndossu',
una coppia di marionette variopinte che Ciccio Laganà muoveva all'interno
di una cassetta raccontando agli spettatori di ogni quartiere della città
storie tropeane di una lei e di un lui. Zia Rosina ricorda l'abito di marinaretto
indossato dalla marionetta/uomo e il vestitino a fiori portato dalla marionetta/donna.
E alla fine era sempre l'uomo a prenderle di brutto a suon di mattarello.
Era un teatrino mobile, divertimento dei grandi e dei bambini, che ricalcava
quello dei cantastorie siciliani che delle volte si spingevano fino a Tropea.
E zia Rosina già pensa all'edizione dell'anno prossimo. Sarà
indaffaratissima come del resto gli organizzatori perchè la festa
durerà qualche giorno in più. Festa, che una volta conclusa,
continua solo per il Comitato che nei tempi andati - lo imponeva la tradizione
- entrava all'osteria di Mastro Titta sempre a via dei forgiari a gustarsi
una bella porzione arrosto di 'crapettu' (capretto) con patate e un buon
bicchiere di vino. Quest'anno, per assaggiare il crapetto il Comitato è
entrato alla 'Pergola', uno dei ristoranti più esclusivi della città.
Ma
ritornando al Ballo del Cammello ci piace far rivivere l'affresco che ci
ha lasciato nel 1855 l'Arciprete Petracca di Ricadi descrivendo la ritualità
del Ballo durante le festività del villaggio. Si racconta della
figura di un Cammello non 'armato' di fuochi e botti, tipica questa del
'Tre della Croce' dove il ballo è sberleffo nei confronti della
dominazione saracena, ma dell'immagine pacata, distesa e pacifica che ricorda
la buona convivenza dei saraceni con i loro 'confratelli' abitanti del
posto.
Vecchie
glorie della Banda Musicale Tropeana durante la Sagra del Camio degli anni
Sessanta.
Ne' giorni festivi
è a notarsi un'usanza che ha molto del ridicolo. Nella vigilia delle
feste principali, alla prim'ora, i fanciulli del villggio di Ricadi accorrono
tripudiando al confine dell'abitato, ove hanno di già dato i tamburini
che vennero dalla città di su' loro sonori strumenti il primo segnale
della festa. In compagnia di costoro viene un uomo che indossa vesti da
facchino tropeano, il quale scaricatosi di un grosso fardello, che sta
quivi sostenendo con una mano, va con l'altra asciugandosi la fronte dal
sudore ond'è bagnata a causa del fastidioso carico portato da Tropea
fino al paese. Ivi presso vedesi un brulichio, un va vieni, odesi un gridar
confuso... Sono que' fanciulli accorsi al tocco de' tamburi, i quali giunti
alla distanza di pochi passi, da lieti e vispi ch'eran, si arrestano sorpresi;
ed odesi allora un misto di voci fra 'l tripudio e la paura. Perchè
ciò?... perchè è venuto il Camelo1!
E'
questo Camelo un goffo animalaccio artefatto, lungo circa sette palmi,
di forma bizzarra, senza piedi, con lungo e largo dorso simile a quello
della testuggine, ma dipinto a strisce di
vari colori, con coda di bove, testa di legno nera ed orribile, che somiglia
a quella del cavallo con due occhiacci sempre spalancati; coperto da falda
giallastra, che formando continuazione col dorso, cala giù fino
a terra a guisa di gonna, e serve a nascondere l'uomo sopradetto, il quale,
adagiatasi sugli omeri la goffa bestiaccia camminando la fa camminare e
tiene in continuo moto quella nera testaccia, facendole aprire e chiudere
incessantemente la bocca senza lingua per mezzo d'un laccio invisibile,
che all'uopo ei tira ed allenta; ed or contraendone il collo, ora allungandolo
in alto a guisa del vero Camelo, ed or contorcendolo in mille modi. Siede
a cavaliere inchiodato sul dorso di quella strana effigie di animale un
moretto di legno dal berrettino rosso, che vien detto il diavolicchio.
Al suono ordinato
de' tamburi progredisce il Camelo seguito dalla ciurma festante de' fanciulli,
e ballando e movendosi con tutt'agilità in modo strano, e guardando
verso le finestre, ove si son già i curiosi affacciati come per
salutare il nuovo venuto, fa una corsa per le strade principali
del villaggio, e va poi a riposare in casa del Procuratore della festa.
Esce quindi di nuovo parecchie volte durante la vigilia, e più allo
spesso nel dì della festa (tranne le ore in cui si eseguono le sacre
funzioni), percorrere tutti i vicoli, e passando innanzi alle case delle
principali famiglie, vi si trattiene a far la sua ballata di ossequio,
che termina con un profondissimo inchino, consistente in abbassare sino
a terra la testa dalle orecchie d'orso, strisciando ambe le tempia successivamente.
Simile inchino vien fatto tutte le volte che s'imbatte in persone autorevoli.
Ove osserva gente stare in crocchio, là si dirige, e fatta la sua
ballata, va con la testa intorno intorno tastando la saccoccia di ognuno,
e ad ogni obolo che riceve, ripete il solito profondissimo inchino al donatore:
poi congedatosene lietamente ripiglia il suo corso. E' pur curiosissima
cosa il vedere quando esso Camelo, o meglio colui che lo muove, si accorge
di qualche balordo della plebaglia, il quale avendone paura cerca di darsela
a gambe: esso allora gli dà la caccia, come il cane alla lepre;
e gli corre dietro di galoppo, seguito dalla ciurma festante de' fanciulli,
che con grida, schiamazzi e fischi dan la baja al povero fuggitivo, sino
a che non trovi questi rifugio in qualche casa che rinvenga aperta.
Nel dopo pranzo
della festa, verso l'ultima ora, il Camelo fa la sua ballata finale, eseguendo
la solita cerimonia avanti le case, come per prendere commiato2,
e per avere complimenti casarecci: quando poi ha compito il giro delle
strade tutte del villaggio, si ritira. Così finisce la festosa rappresentanza
del Camelo, riguardata di tanta importanza presso il popolo, che non affatto
per festa quella, ove mancasse lo spettacolo del Camelo.
NOTE
1 La
festa del Cammello della Ricadi saracenica sembra essere stata posta in
ricordo dell'Arabia di Maometto dove sono frequenti i viaggi delle carovane
colla bestia paziente dell'Asia.
2 Questa
circostanza ricorda la fuga dei Saraceni della Calabria, e il commiato
che presero dai loro confratelli.
Il
Comitato alle prese con il 'crapetto' con patate
Umori,
emozioni, tradizioni, ritualità intrisi di storia e fortemente legati
alla tropeanità di una festa ritrovata. Un'ultima puntualizzazione
sulla festa. Abbiamo toccato con mano la risposta turistica o quanto meno
l'interesse da parte di visitatori/turisti a voler presenziare nel territorio
quando si alimentano cultura e tradizione, di cui purtroppo da vari decenni
si assiste ad un continuo, enorme e desolante sfacelo. Qualche anno fa,
nel periodo della festa, non pochi giornalisti e turisti si erano riversati
alla Pro Loco per avere ragguagli sul programma degli avvenimenti. Quando
si è saputo che non era stata programmata alcuna festa, qualcuno
voleva sporgere denuncia per la 'pubblicità ingannevole' riportata
dalle guide. Siamo del tutto convinti che non può esistere il 'turismo
culturale', se in primis sul territorio non si coltiva l'humus cultura/tradizione
che costituisce in buona sostanza l'identità tropeana artistica,
musicale, letteraria, teatrale, cinematografica, filosofica, scientifica,
storica, religiosa....
A
questo punto è d'obbligo l'augurio (poco importa del volo andato
male della colombina...) a che la Festa del Tre della Croce possa ripetersi
ogni anno come quest'anno con la partecipazione attiva di tutta la cittadinanza.
Se ci sarà anche l'anno prossimo, il primo ad aggorgersene sarà
il turista/visitatore. Appuntamento quindi all'anno prossimo. Tutti a casa
di zia Rosina!
Il
Presidente del Comitato Nicola Cricelli depone un mazzo di fiori alla Conula
della Santa Croce.