di Annunziato Pugliese
Le poche notizie che abbiamo su Girolamo
Ruffa sono desunte quasi esclusivamen-te dei frontespizi delle tre sue
opere che ci sono pervenute, vale a dire:
1) Graduali Per tutte le Domeniche
minori dell’anno, non sole commode per le Cappelle, ma utili per Solfeggiare,
Composti dal P. Girolamo Ruffa Della Città di Tropea, dell’Ord.
de’ Min. Convent. Di S. Francesco, e Maestro di Cappella della Cattedral
Chiesa della Città di Mileto. Opera prima, …, Napoli, De Bonis,
1700;
2) Salve, a solo, et a due, con violini
e senza e litanie della B. Vergine a tre Concertate, …, Opera terza, …,
Napoli, De Bonis, 1701;
3) Introduttorio Musicale Per ben
approfittarsi nel Canto figurato, Con regole utili a’ principianti: comodo
e dilettevole a’ professori, che insegnano. Quarta opera …, Napoli,
De Bonis, 1701.
Da frontespizi, quindi, apprendiamo che
era di Tropea, che era un minore conventuale e che, nel 1700, era maestro
di Cappella a Mileto.
I dizionari, quando non lo ignorano,
non aggiungono altro. Le fonti archivistiche calabresi sono relativamente
poche: a Tropea i registri di battesimo, relativi alla seconda metà
del Seicento, che si conservano, sono solo quelli della parrocchia di san
Giacomo e quelli dell’Arciprete della Cattedrale che curava le anime delle
famiglie fuori le mura, ma in questi registri il cognome Ruffa non figura.
È vero che mancano quelli delle parrocchie di san Demetrio e di
san Nicola alla Piazza, ma non è da escludere che Ruffa fosse di
Drapia, uno dei casali di Tropea, dove il cognome Ruffa è ancora
ampiamente diffuso e da dove pare che vengano i Ruffa che oggi si trovano
a Tropea, ma i registri di battesimo più antichi di Drapia partono
dal 1791 e quindi non ci sono di aiuto.
A Tropea, comunque, Girolamo Ruffa, molto
probabilmente, verso la fine del Sei-cento, era nel convento dei Minori
Conventuali, allievo di Domenico Scorpione, uno dei teorici più
accreditati, come ci dirà meglio il prof. Ferraro, tra la fine del
Seicento egli inizi del Settecento, dant’è vero che le sue Riflessioni
armoniche rimasero in uso fino all’inizio dell’Ottocento e furono ampiamente
utilizzati, fra gli altri da Leonardo Leo, nelle sue Instituzioni o
Regole di contrappunto.
Della sua attività a Mileto non
resta traccia, eppure è probabile che vi sia rimasto per parecchi
anni, dal momento che nel 1701 sarà nominato «Discretus perpetus»
grazie anche alla sua attività di maestro di cappella «… per
plures annos …». Non avendo fonti che ci indichino dove egli può
aver svolto prima il suo magistero, abbiamo motivo di credere che sia stato
nella stessa Cattedrale di Mileto, dove probabilmente «D. Hurtado
de Mendoza Cavaliero dell’Ordine di Calatrava, Governatore, e Vicario Generale
delli Stati di Mileto, e Francavilla, e Capitano à Guerra della
Città di Pizzo, e sua paranza», dedicatario dei Graduali e
dei Salve Regina di Ruffa, potrebbe aver sentito, durante le funzioni liturgiche,
dirette dallo stesso Ruffa, alcune delle composizioni del musicista di
Tropea. Nella dedica, infatti, si legge, fra l’altro: «… Spero almeno
d’incontrare il suo genio, per esservi qui una parte di quelle composizioni,
che la sua benignità non ricusò di accogliere con l’onore
della sua attenzione, e dar lo spirito col fiato delle sue lodi …».
Ma se fino al 1700 si è potuto
avanzare qualche timida ipotesi, ciò non è proprio impossibile
per gli anni successivi: la nomina a «Discretus perpetus» gli
ha impedito di continuare la sua brillante carriera di musicista?
Il compianto padre Francesco Russo lo
dice maestro di Cappella a San Lorenzo Maggiore di Napoli, ma ritengo che
sia una sua svista: nella fonte che cita, i Regesta ordinis numero 56 dei
Frati Minori Conventuali, a carta 111r, si legge, infatti, che in da-ta
12 marzo 1700:
Patri Fratri Hieronimo Ruffa de Tropea Provinciae Calabriae Magistro Mucises conceditur licentia, ut magister musices Conventus Nostri Sancti Laurentii Neapolis et Vicarius Chori eiusdem Conventus revideant opus elaboratum ab ipso cuius titulus “Istitutioni Corali” et alia musica ab eodem composita
Il testo del documento mi sembra molto chiaro: a Girolamo Ruffa viene concessa la licenza affinché il Maestro di Cappella del convento di san Lorenzo di Napoli (che in realtà era Nicola Rocco) e il vicario del coro (che era Bonaventura de Itro), rivedano le Istituzioni Corali, opera elaborata da Ruffa, e altra sua musica, evidentemente per dargli il permesso di stampa. Del resto, Girolamo Ruffa, a quello tempo era Maestro di Cappella a Mileto, e certamente non avrebbe potuto svolgere contemporaneamente tale attività in due città alquanto distanti luna dell’altra.
Non meno problematico si presenta il discorso
sulle opere: in poco pù di un anno (considerato che la prima è
del 1700 e la dedica della quarta è datata 12 aprile 1701) ne ha
pubblicato quattro, due teoriche e due pratiche. A dare più problemi
sono quelle teoriche, la seconda e la quarta, ovvero le Istuzioni corali
e l’Introduttorio musicale. Le Istuzioni corali non ci è
proprio venuta, ma ne abbiamo notizia proprio dal citato Regesta ordinis,
da dove, oltre al titolo, apprendiamo che nell’aprile del 1700 erano in
atto gli adempimenti burocratici per la pubblicazione; supponiamo che sia
l’opera seconda proprio perché è quella che manca tra la
prima – i Graduali, che sono del 1700 – e la terza – i Salve
Regina, che sono del 1701.
La quarta, cioè l’Introduttorio
musicale, da più parti viene attribuita a Scorpione. Qualcuno
ha anche avanzato l’ipotesi che Ruffa sia addirittura uno pseudonimo del
musicista rossanese, ma, da quanto già finora esposto, ciò
mi sembra difficile da sostenere. Il dubbio, per la verità, lo fa
sorgere lo stesso Scorpione quando, nelle sue Istruzioni corali,
che sono del 1702, dice che del canto figurato «mesi sono, ne diedi
alla luce un trattato di pochi fogli col titolo di Introduttorio Musicale,
ma sotto altro nome, perché, per dirla, m’arrossiva di far campeggiare
per mondo un pigmeo armonico»; a pagina 21 dà poi per scontato
che l’opera è sua. Tutto questo, però, dopo che nelle sue
Riflessioni Armoniche, che sono del 1701, aveva detto che «in
atto sta sotto il torchio un Introduttorio Musicale del padre Girolamo
Ruffa della Città di Tropea».
Non è certo questa la sede per
riaprire il dibattito sulla paternità dell’Introduttorio.
Io resto sempre dell’opinione che si tratta di un’opera di carattere didattico,
che il musicista di Tropea ha pubblicato, magari riorganizzando, in forma
di trattato, gli appunti delle lezioni di Scorpione, come forse aveva già
fatto con le Istituzioni corali. Ne viene fuori un manuale di carattere
didattico, che pur non aggiungendo nulla di nuovo ai trattati del tempo,
ha il pregio di essere agile e molto chiaro, oltre che dare consigli utili
sia ai maestri che agli allievi, nonché ai cantanti di professione.
Scorpione, quindi, in un primo momento
si dimostra contento dell’iniziativa dell’allievo, tant’è vero che,
come abbiamo visto, nelle sue Riflessioni Armoniche, pubblicate
qualche mese prima dell’Introduttorio, ne annuncia l’imminente pubblicazione.
Ma è probabile che subito dopo i rapporti tra i due si siano incrinati:
a distanza di meno di un anno della pubblicazione dell’Introduttorio,
Scorpione pubblica le Istruzioni Corali, opera che forse è
servita a fare togliere dalla circolazione le Istituzioni Corali
di Ruffa, di cui, come ho già detto, non ci è pervenuta neanche
una copia.
Particolare attenzione meritano invece
i Graduali. Si tratta, infatti, di una raccolta sistematica dei
graduali per tutte le domeniche minori dell’anno liturgico, quindi di brani
del proprium, per ciò con testi variabili che venivano cantati una
sola volta l’anno. Con questa silloge Ruffa intende colmare una precisa
lacuna che si era venuta a creare in epoca barocca, nonostante i ripetuti
appelli della Chiesa, con varie bolle ed editti.
Mi spiego meglio: dal momento che il
Graduale è una forma del proprium, e che quindi viene eseguita
solo una volta l’anno, i compositori non sono motivati a scrivere musica
per tale forma; sono molto più stimolati invece a intonare
le parti dell’ordinarium, che vengono eseguite continuamente. Il problema,
ovviamente, si pone essenzialmente all’inizio di una nuova epoca, quando,
cioè, subentrano nuovi gusti. È proprio quello che è
accaduto con il passaggio dalla polifonia rinascimentale alla monodia del
barocco: se alla fine del Cinquecento ormai anche il repertorio del proprium
era florido, ancora alla fine del Seicento, per i motivi cui ho appena
accennato, esso, specialmente in alcune forme – come, appunto il Graduale
–, era privo i brani nel nuovo stile del basso continuo, cui neanche la
musica sacra non sepava resistere. Sin dal primo Seicento, non si attinge
più alle splendide sillogi delle parti del proprium lasciate in
eredità dal Cinquecento, ma ad alcune raccolte inorganiche, su testi
non sempre tratti dalle sacre scritture, ma spesso della letteratura devozionale
più recente, o addirittura a brani strumentali che vengono
eseguiti mentre il celebrante, per salvaguardare la validità del
rito, pronuncia sotto voce i testi del proprium.
E certamente la situazione doveva essere
alquanto degenerata se la Chiesa, nel 1665, è costretta ad intervenire,
dopo le varie bolle papali passate inosservate, con il noto Editto sopra
le musiche, fra l’altro, si legge:
Secondo, che nelle messe
non si cantino, se non parole prescritte dal Messale Romano … e specialmente
che dopo l’epistola non si canti se non il graduale o tratto …
Quinto, che non si canti
a voce sola tanto grave quanto acuta tutta o parte notabile d’un salmo,
inno o mottetto: ma, non cantandosi a pieno coro, si canti alternativa-mente
variando sempre il canto ora con voci pari, ora con gravi e con acute.
Sesto, che le parole così
del Breviario e Messale come la Scrittura de’ Santi Padri si mettano in
musica ut jacent, in maniera che non s’invertano ne vi si frappongano pa-role
diverse né si faccia alterazione alcuna.
E tuttavia neanche questo Editto ha avuto
gli effetti desiderati se nel 1678 Innocenzo XI e poi nel 1692 Innocenzo
XII si trovano costretti ad intervenire sull’argomento per ribadire i principi
enunciati negli interventi dei loro predecessori.
In realtà il Seicento, per quanto
ci riguarda, è un secolo carico di contraddizioni: da una parte
le esigenze liturgiche del clima della Controriforma; dall’altra le nuove
esigenze artistiche. Esso termina lasciando, nel campo della musica sacra,
una profonda dicotomia tra polifonia classica e lo stile concertato e fiorito
della monodia moderna, tra forme liturgiche in latino e quelle nuove in
volgare.
È in questa cornice, seppure affrettata,
che va inquadrata la produzione liturgico-musicale di Ruffa. Da una parte
i Graduali, nello stile contrappuntistico, di sapore più
modale che tonale, con il basso continuo concepito più in forma
di partecipazione con le voci che di accompagnamento; dall’altra i Salve
Regina nello stile concertato.
Con i Graduali Ruffa, da vero Maestro
di Cappella, intende colmare una precisa lacuna, intonando quelle delle
domeniche minori, che non era facile reperire nei repertori allora in circolazione,
attenendosi scrupolosamente alle indicazioni dell’Editto sopra le musiche;
con i Salve Regina, invece, s’immerge completamente nella poetica
barocca, che tende alla ricerca di immagini rivolti a colpire l’animo dell’ascoltatore
per la loro densa e viva espressività.
La riforma luterana aveva improvvisamente
svuotato di significato la figura della Madonna e dei santi e la Chiesa
della Controriforma si preoccupa di rivalutare queste figure, potenziando
tesi e preghiere di particolare immediatezza, attingendo anche ad una letteratura
di carattere popolare ricca di immagini emergenti: la Croce, il Cristo,
il Sangue e in particolare e la Vergine e la Madre.
Con i Salve Regina abbiamo, quindi,
uno stile più espressivo, più intenso, più eterogeneo
rispetto a quello dei Graduali e ciò emerge subito dalle
numerose indicazioni di carattere agogico, che sono invece completamente
assenti nei Graduali.
La struttura dei Salve Regina
di Ruffa è in forma aperta, cioè senza riprese tematiche.
Lo stile del concerto strumentale si scontra anche nelle parti vocali:
esse, infatti, spesso si presentano come un continuo fluire in quartine
in virtuosismi derivati dalla letteratura strumentale. L’impostazione è
di tipo armonico-verticale più che contrappuntistica e lineare,
anche se ricorrono spesso imitazioni sia tra le parti concertanti, sia
tra queste e il basso continuo. Anche qui il basso continuo spesso si presenta
come una parte in contrappunto, disegnando linee melodiche per gradi congiunti
più che salti di gradi armonici e così va oltre la sua semplice
funzione di sostegno armonico. Del resto questa era la caratteristica dei
concerti sacri con il basso continuo del diciassettesimo secolo.