Gioacchino Murat, Re di Napoli

La sorte del capo mozzato

di Gioacchino Murat

 

di Felice Muscaglione

 

Ettore Capialbi, nel noto volume La fine di un Re – Murat al Pizzo, Monteleone, Tip. Passafaro, 1894, pp. 188-189, scrive a proposito della sorte toccata alla tomba e alla salma del re: «Condeleo [dalle sue memorie scritte] ha narrato che la salma, sanguinosa per le ferite ricevute, fu disposta nella fossa mortuaria comune della Chiesa Parrocchiale». Subito dopo aggiunge: «Egli accompagnò il suo racconto con tali precisi, e raccapriccianti dettagli che non è possibile metterne in dubbio la sincerità». E alla fine conclude: Egli ha distrutto la triste leggenda che il capo del Re suppliziato fosse stato staccato dal busto, ed inviato in Napoli al Re Ferdinando, che lo conservava in un boccale ripieno di spirito».

Ma è sicuro che il racconto del Condoleo rispondesse al vero? C’è una testimonianza di una fonte particolarmente autorevole, il generale Guglielmo Pepe, sotto il quale militò anche il nostro Michele Morelli, che dà con tutta evidenza ragione alla «triste leggenda».

Nel volume Memorie del Generale Guglielmo Pepe intorno alla sua vita, Parigi 1847, p. 213, il Pepe, parlando delle sue vicende nel periodo che va dal 25 maggio 1815 al 1° novembre 1817, così scrive a proposito di quanto accadde dopo la fucilazione di Murat: «Alcuni giorni dopo, la testa, recisa dal corpo e messa in un vaso di vetro pieno di spirito di vino, fu mandata a Napoli, e riposta nella reggia. Il corpo fu seppellito in quella stessa chiesa di Pizzo per la cui edificazione, trovandosi egli a passar per caso in quel Comune durante il suo regno, aveva generosamente dati duemila ducati». E alcune pagine dopo (pag. 245).

Guglielmo Pepe (1783 - 1855)

Il Pepe ha modo di ribadire la notizia, trovandosi a parlare con il Tenente Colonnello Gennaro Lanzetti, uno dei membri della Corte di Giustizia che aveva condannato a morte Murat. Il 13 ottobre 1815. Costui era stato inviato dal ministro della guerra al quartiere generale del Pepe col grado e la funzione di “sottodirettore del genio della sua divisione”.

Il Pepe, ricordando il vile comportamento di Lanzetti nel processo sommario contro Murat, reagì violentemente a tale nomina e si rifiutò di ricevere l’ufficiale e anzi gli mandò a dire col suo aiutante di campo Cirillo: «Dite a Lanzetti che essendosi egli vituperato col farsi giudice del già suo re e benefattore Gioacchino, giammai non servirà sotto i miei ordini, giammai non parlerà meco».

Il rischio che correva il Pepe con tale suo atteggiamento di aperta insubordinazione era gravissimo. «Le milizie di Avellino – riferisce nella stessa pagina – che seppero quel fatto rimasero costernate; e siccome non ignoravasi ch’il teschio di Murat si conservava nella reggia qual preziosa reliquia, chi prediceva la mia destituzione, chi il mio esilio, e chi assai peggio ancora».

Dalla frase del Pepe si evince che era convinzione comune che al Murat era stato tagliato dopo la morte il capo e che esso era custodito in un vaso sotto spirito nella reggia di Ferdinando.

La testimonianza precisa  e reiterata di Guglielmo Pepe contrasta chiaramente con la tesi sostenuta da Ettore Capialbi e piuttosto diffusa.

Decreto di condanna stampato a Monteleone

Alcuni decenni prima dell’apparizione del libro di Capialbi, si era occupato della questione anche Alessandro Dumas nel volume Storia dei Borboni di Napoli – p. Napoli 1864, pag. 299. Ecco quanto scriveva il Dumas: «Narra la tradizione, senza che noi garantiamo il fatto, che il capo di Murat fu troncato e spedito al re Ferdinando perché se qualche falso Murat si presentasse […] gli si potesse mostrare la testa del vero. Quel teschio era, dicesi, conservato in un boccale di acquavite, in un armadio segreto di re Ferdinando: morto il re, sarebbe stato trasportato nel palazzo della vecchia prefettura di polizia, poco lontano dal comando della piazza, che fu rifatto nel 1849. In quell’anno ritrovassi infatti un capo umano in un vaso deposto in una nicchia segreta scavata nel muro. Un commissario di polizia a nome Campobasso fu spedito sul luogo, e mentre teneva in mano quel capo, il pavimento sprofondò, e Campobasso si fiaccò le gambe ed il capo nella caduta e morì pochi giorni dopo. Napoli intera parlò di questo fatto e susurrossi che quel teschio fosse quello del re Gioacchino».

Lo scrittore Francese non prende posizione contro la veridicità del fatto; non la ammette ma nemmeno la esclude.

Ma la risoluta testimonianza di Guglielmo Pepe (non ignoravasi) fa propendere nettamente per la veridicità del fatto, e la sua parola sulla questione è certamente assai autorevole.