C'era
(una volta)
il NATALE
di Franco Aquilino
Zampognari a Tropea
Natale 2005. Organizzazione Pro Loco
-1 : l'Italia unita...; la paura fa 90; 7: la
zappa: gli occhiali del Papa...
-Che cosa avete chiamato?
-Ma è l'88, no?
-Se lo dite voi, don Ciccillo...comunque i numeri bisogna spiccicarli per bene,
chiaro e tondo!
-Allora 2 per don Pasquale, insomma la coppia, lui e lei, vi va bene così a don
Pasqualino bello. Oh, guarda chi si vede: il 77...
-Ma non sono le gambe delle donne?
-Non dite così, che ci sono i bambini!...
Ecco,
erano questi all'incirca i toni ruspanti di una tombolata in una famiglia del
Sud (e forse non solo del Sud), intorno agli anni Cinquanta. Costituiva la
tombola, il clou delle serate natalizie,
trascorse fra l'allegra impazienza e la sorniona partecipazione dei giocatori.
Vi presenziava innanzitutto la famiglia al gran completo, dai più piccoli
(neonati compresi, con tanto di "ciuccio") ai più grandi (zii e nonni in testa,
eventualmente anche bisnonni, se ancora in grado di reggersi). In più era
invitata una rumorosa "fazzolettata" di amici e di vicini. Era una gara
indiavolata, che stava tra la tombola vera e propria, il lotto (con i numeri
rapportati immaginosamente alla smorfia napoletana e opportunamente commentati)
e una forma genuina quanto sgangherata di teatro. Così, in sostanza, si
assisteva ogni sera ad una estemporanea rappresentazione "per gruppi di famiglia
in un interno", in cui ognuno diceva le sue battute, attore o spettatore di
volta in volta. Lo scopo era quello, semplice e immediato, di divertire e
divertirsi in allegra compagnia e bastava veramente poco. Ma con la tombola (e
con i vari giochi di carte, fra cui spiccava il Sette e mezzo) si era ormai nel
cuore del Natale, il cui clima, a dire il vero, si respirava in giornate di
luminosa solarità già a partire dall'Immacolata (8 dicembre), quando nella
chiesa omonima venivano intonati i primo cori natalizi e nelle cucine si
eleboravano le prime "zeppole", frittelle di farina e zucchero, ripieni di
pezzetti di tonno o di uvetta, fra il tripudio di grandi e piccini.
La sera del 15, poi, una sparuta banda musicale, ridotta a quattro o cinque
elementi più o meno scombiccherati e in piedi quasi per scommessa, annunciava
l'inizio della novena di Natale per il giorno successivo. Dal 16 al 24 sfilando
per le vie e vicoletti, il piccolo complesso eseguiva ogni sera puntualmente,
con qualsiasi tempo, la "Pastorale". Nelle sere di maltempo, appena
percettibili, si avvertivano ovattate, come in lontananza, quasi bucassero le
tenebre, con un che di lamentoso che ti penetrava nelle ossa. Il
25 mattina i solerti suonatori passavano di porta in porta per la strenna. Nello
stesso periodo, ma alle prime luci del giorno, zampognari e pifferai venuti dai
monti eseguivano nenie natalizie, ma il suono era gioioso e ricco di
modulazioni. Torme di ragazzini li seguivano, incantati. Per la novena di
Natale, tenuta solitamente nel Duomo in ore impossibili, a quel tempo le donne
si recavano in chiesa portandosi dietro uno scaldino di terracotta, chiamato
affettuosamente "maritino".
Nelle diverse chiese quindi si preparavano a gara i presepi, in cui i più
antichi pastori, opera estrosa di industri "pastorari", tramandavano il ricordo
di personaggi, ambienti e costumi d'altri tempi.
Ma in casa il presepe era accuratamente preparato in un angolo dal
Paterfamilias con tanto di carta, cartoni, muschio, sabbia, "occhi di
canna", fiocchi di cotone per la neve, rametti di mandarino e di mirtillo,
sugheri per la grotta della Natività...e naturalmente le statuine, ritirate
fuori con cura ogni anno (con qualcuna da rattoppare).
Per la famiglia era veramente un affar serio la costruzione del presepe, altro
che storie! La complessa liturgia che caratterizzava tutta l'operazione non può
non rimanere impressa nella mente di chi vi ha assistito. L'opera impegnava
strenuamente il Genitore (nel caso specifico, un ferroviere socialista) tutte le
sere, nonchè in ogni ritaglio di tempo possibile, a partire dal giorno di Santa
Lucia, se non anche dall'Immacolata.
Per tutto il periodo era severamente proibito ai piccoli disturbare in casa. Del
resto, con l'aria che tirava, quelli preferivano tagliare la corda per andare a
giocare con le nocciole, possibilmente presso altri bambini del vicinato, senza
un padre architetto tra i piedi, fra risse continue e precarie rappacificazioni.
Il Costruttore intanto dimostrava un'ingegnosa abilità manuale, trasformando man
mano in un firmamento, un pò incupito a dire il vero, la spessa carta azzurra
usata dal pizzicagnolo per avvolgere lo zucchero.
Per le rocce veniva invece utilizzata la carta da pacchi increspata
opportunamente, mentre pezzetti di vetro colorato diventavano ridenti laghetti,
di sapore vagamente alpino.
Ogni tanto la pestata del martello a un dito faceva sfugire al Grande
Progettista qualche colorita imprecazione, di solito all'indirizzo dell'ultimo
corifeo della fanfara di cristo, di cui peraltro non è memoria nei testi sacri,
nemmeno nei vangeli apocrifi. Anche il diavolo riceveva la sua buona razione di
indignate rampogne, accusato, a torto o a ragione, di non farsi mai i fatti suoi
e di far scomparire per dispetto gli introvabile chiodi.
Insomma, con Natale in casa Cupiello Eduardo ha dovuto inventare ben poco, visto
che a quei tempi ogni anno si ripeteva una commedia tale e quale in gran parte
delle famiglie del Sud.
Naturalmente, a capolavoro concluso, una processione di vicini e di curiosi,
veniva in casa a vedere il presepe. Di solito si elogiavano soprattutto la
grotta della natività in sughero e il castello di Ercole nello stesso materiale,
con la torre maestra insuperbita fantasiosamente da un impropabile orologio,
ricavato da un quadrante di un vecchio cipollone. L'accigliato Costruttore era
nel frattempo ridiventato un essere affettuoso, un padre tenero, in grado
perfino di sorridere divertito nel leggere le timide letterine nascoste sotto il
piatto dai marmocchi reclamanti la strenna.
La notte di Natale, poi, il più piccolo della famiglia spiccava il bambino dalla
grotta santa e lo portava in processione per tutta la casa, seguito dai
familiari salmodianti a una voce gli inni natalizi. Intanto mentre fuori
scoppiavano i petardi, nella cattedrale si celebrava la Messa di Mezzanotte, con
grande concorso di popolo, senza distinzioni di classi. Infine tutti a tavola, a
consumare secondo la tradizione numerose pietanze, di solito tredici (ma erano
più che altro...assaggi) per compensare sì al digiuno tradizionale del
mezzogiorno della vigilia, ma idealmente anche quello accumulatosi magari
nell'arco dell'anno, imposto dalle ristrettezze di una società in gran parte
alle soglie dell'indigenza.
Ogni
manifestazione si concludeva con l'Epifania "che ogni festa porta via", poi
ognuno avrebbe ripreso...il lavoro usato.
Era più o meno questo il clima natalizio di quegli anni in una piccola comunità
calabrese, come del resto un pò dappertutto, sia pure con le numerose varianti
locali.. Poi, come è risaputo, nel giro di pochi anni il Natale perse dovunque
il suo spessore umano, uniformandosi agli schemi preconfezionati del consumismo
generale all'insegna dello spreco, e diventando quella specie di melassa
insapore, frutto di una smaccata operazione commerciale che è sotto gli occhi di
tutti.
Del perchè i riti natalizi, a lungo tramandati da una secolare liturgia
popolare, si siano di colpo svuotati, e l'atmosfera di gioia genuina si sia
trasformata in una insopportabile rappresentazione di ostentata allegria,
bisognerebbe pur chiederselo.
Occorrerebbe domandarsi anche in che cosa abbiamo sbagliato un pò tutti e se
l'errore sia possibile ancora correggerlo.
Ma si rischierebbe di esibire
un'ennesima confessione in pubblico, imperniata sulla collettiva inettitudine e
sui fallimenti individuali, disseminati di rimorsi, che hanno portato alla crisi
più ampia dei valori esistenziali e principalmente della famiglia. Ma il tono
apocalittico non ci piace affatto, meglio lasciarlo ai profeti di professione,
con cospicuo conto in banca e triple ville con parchi "piantumati".
Rassegnamoci dunque a registrare la fine del Natale, come punto di convergenza
tra la pagana Festa del Sole e quella cristiana della Rinascita intesa come
speranza in una vita rinnovata, e cerchiamo un angolo residuo di silenzio, per
appartarci lontano da ogni trasformante volgarità.
Servirebbe a tutti una pausa di riflessione, prima di riprendere l'impegno
collettivo verso i più sfortunati, per una società più equa e più solidale di
quella di ieri e soprattutto di oggi.
Ci vengono in mente, a mò di conclusione, gli accenti semplici e accorati
espressi da Ungheretti in una breve lirica dedicata appunto al Natale. Sono
versi troppo noti per citarli nella loro scansione metrica, spezzata come un
sospiro a stento represso. Non profaniamo anche quelli!
Facciamoli meglio nostri, perchè anche noi avvertiamo oggi "tanta stanchezza
sulle spalle" e siamo rimasti "come una cosa posata in un angolo e
dimenticata...con le quattro capriole di fumo del focolare"...
Già, ma il focolare, dov'è?
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