Due immagini rubate a Parigi di Marlene e Raf nel 1958

 

MARLENE DIETRICH

«Spesso mi divertivo ad immaginare i miei funerali».

 

di Costanzo Costantini

da "Le Regine del Cinema" Gremese Editore

 


Sono le prime ore del pomeriggio d’una giornata estiva. Il cielo è azzurro, l’aria soffusa d’una luce dorata. C’è un silenzio magico tutt’intorno.

Siamo in casa di Raf Vallone, ai Parioli, uno dei quartieri alti di Roma.

Marlene Dietrich è affondata in una poltrona del salotto, le gambe un po’ in alto, accavallate.

Raf Vallone le siede di fronte, un sorriso dolce e seducente nel viso abbronzato.

Io sono fra l’una e l’altro, ma rivolgo la mia attenzione, pur senza mostrarlo, più verso di lei che verso di lui: ho sotto gli occhi l’incarnazione del più grande mito del nostro tempo dopo Greta Garbo.

Provo a rivederla, mentalmente, nelle vesti della Lola-Lola dell’Angelo azzurro: pagliaccetto di lustrini, cilindro, calze e giarrettiere nere, mutandine di pizzo, a cavalcioni d’una sedia, mentre canta «Sono fatta per l’amore dalla testa ai piedi».

Ma la sua presenza reale assorbe troppo i miei occhi, i miei sensi, le mie facoltà percettive.

La cosa che risalta di più. Come in primo, primissimo piano, sono le gambe. Gambe che vibrano. Si direbbe che vivano di vita propria, come se fossero staccate dal corpo. Un prodigio, per una donna che ha superato i sessant’anni.

Ma anche il resto desta stupore.

La pelle ancora pressoché intatta, fine, diafana, gli occhi intelligenti e ironici che ti scrutano entro sfumati aloni d’ombra, la bocca sensuale, il corpo agile e sinuoso.

Marlene Dietrich e Raf Vallone sono grandi amici, ma questa amicizia è il frutto dolce-amaro d’una lunga storia, l’esito sorprendente d’una schermaglia sentimentale dai ruoli inversi rispetto al costume corrente e dalla quale “l’ammaliatrice” è uscita sconfitta.

L’attrice e l’attore si erano conosciuti alla fine degli anni Cinquanta a Parigi, dove lei cantava all’Etoille e lui recitava al Théatre Antoine in Uno sguardo dal ponte, il dramma di Arthur Miller che era andato in scena, nell’adattamento di Marcel Aymée e con la regia di Peter Brook, l’11 marzo del 1958, con un successo memorabile, protrattosi per oltre due anni. Raf era andato a sentire Marlene all’Etoille e Marlene era andata a vedere Raf all’Antoine e ne era nata una grande ammirazione reciproca. Ma prima ancora che si conoscessero Marlene aveva tentato di sedurre impunemente Raf. Lo racconta lei stessa, con la sua ben nota franchezza, senza alcuna esitazione.

«Ciò che di Raf Vallone mi colpì subito» mi dice non appena l’attore si è allontanato per consentirci di parlare liberamente (in casa c’è anche la moglie di Vallone, Elena Varzi, attrice lanciata dal Neorealismo) «furono la sua eccezionale intelligenza, la sua discrezione, la sua mancanza di vanità. Durante il nostro primo incontro, che avvenne all’Etoile al termine dello spettacolo, mi disse cose che nessun altro mi aveva detto, fece delle osservazioni che mi stupirono, parlando più dell’attrice che della cantante. Quando andai a vederlo all’Antoine restai sbalordita. Dominava totalmente la scena e il pubblico, che lo seguiva come in trance. Un miracoloso equilibrio tra sapienza interpretativa e tensione emotiva».

Dopo quella sera cosa accadde?

«Incominciammo a vederci, da soli o in casa di amici. Ebbene, non mi parlò mai dell’Angelo azzurro con le lacrime agli occhi, come facevano un po’ tutti. Mi poneva, invece, domande riguardanti i miei problemi reali, i miei interesse profondi».

Ma è vero che lei aveva concepito una grande simpatia per lui prima ancora che lo conoscesse?

«Tutta Parigi era innamorata di lui. Erano ben due anni che restava la massima vedette del momento nel mondo del teatro. Pochi altri spettacoli erano rimasti in cartellone così a lungo come Uno sguardo dal ponte. Per di più aveva accettato la sfida di recitare in francese e l’aveva vinta. Usava quella lingua non propria con grande padronanza».

Mi scusi, signora Dietrich, ma si è detto che lei ne fosse innamorata in maniera particolare.

«Avevo visto le sue foto sui giornali e avevo letto ciò che si diceva di lui come attore. Sapevo che abitava al Raphael e così presi una suite nello stesso albergo. Grazie alle informazioni che mi davano il portiere e il cameriere del piano, facevo in modo di incontrarlo presso gli ascensori, nella hall, all’uscita. Ma non ci fu nulla da fare. Si schermiva, si mostrava indaffarato, trovava ogni pretesto per sfuggirmi. La sola cosa che ottenni fu un mazzo di rose rosse. Ma poi diventammo grandi amici, tanto è vero che pensammo di fare delle cose insieme. Studiammo insieme l’idea di ridurre per la scena Il riposo del guerriero, il romanzo di Christiane de Rochefort. Gli batteva anche i fogli a macchina. Io gli consigliai di farne uno spettacolo di due ore, ma il regista, Jean Mercure, ne fece uno spettacolo di quattro ore. Se mi fosse dato retta, l’esito sarebbe stato molto diverso».

Ma cosa le disse di così stupefacente Raf Vallone dopo lo spettacolo all’Etoile?

«Mi disse delle cose lampeggianti. Aveva capito perfettamente com’ero sulla scena. Nessun altro lo aveva capito così lucidamente quanto lui».

Signora Dietrich, da come ha parlato dell’Angelo azzurro si penserebbe che lei non ami eccessivamente il film che l’ha resa famosa nel mondo e che ha fatto di lei una leggenda.

«Per parlare esaurientemente di quel film dovrei raccontare una buona parte della mia vita. Dirò che quando, nel 1928-29, conobbi a Berlino Joseph von Sternberg, non ero né una sprovveduta né una sconosciuta. Nel ’23 avevo fatto tre film, Der kleine Napoleon, Tragedia d’amore e Tre amori, quest’ultimo diretto da Wilhelm Dieterle, con il quale avrei fatto in seguito Kismet. Nel ’24 mi ero sposata con il produttore Rudolf Sieber e nel ’25 avevo dato alla luce Maria e avevo interpretato La Via senza gioia di Pabst. Nel ’26 avevo fatto Una moderna Du Barry di Alexander Korda e fra il ’27 e il ’29 avevo fatto parecchi altri film».

Ma che cosa pensa oggi dell’Angelo azzurro?

«Che è un grande film, uno dei film più importanti della storia del cinema, ancora oggi molto moderno. Ma è anche un po’ kitsch. Lei conosce questa parola? E’ una parola tedesca».

E di Joseph von Sternberg cosa pensa?

«Che era un genio, un gigante, un grande maestro del cinema. Ma quel “von” non gli appartiene».

E’ vero che non voleva farlo, il ruolo di Lola-Lola?

«Sia il protagonista che il produttore del film, Emil Jannings e Erich Pommer, volevano assolutamente per quel ruolo Lucie Manaheim, un’attrice molto popolare in quegli anni, ma Joseph von Sternberg non era d’accordo. Voleva me. Aveva visto una mia foto di scena in Due cravatte, la rivista musicale di Georg Kaiser e si era invaghito di me. “Sembra uscita da una litografia di Toulouse- Lautrec”, aveva detto. Io non volevo farlo perché temevo di non farcela. Ma Joseph von Sternberg non era tipo da arrendersi. Mi fece un provino, mi incoraggiò in tutti i modi e facemmo il film. Fu l’inizio d’una lunga collaborazione».

Nel secondo film che fece con Joseph von Sternerg, Marocco, lei lanciava il tipo della donna un po’ maschile, che oggi è tornata di moda…

«Io non ho lanciato niente. La donna che fa ruoli maschili risale a Shakespeare. Le donne in pantaloni s’incontravano anche alla scuola di Max Reinhardt. Io indossavo abiti maschili già in La nave degli uomini perduti, il film diretto da Tourneur nel ‘29».

Anche Greta Garbo indossava abiti maschili.

«No comment».

In La via senza gioia di Pabts c’era anche Greta Garbo.

«No, comment».

Quali dei suoi partners ricorda con più simpatia?

«Ma sono tanti. Gary Cooper, Cary Grant, James Stewart, John Wayne, Jean Gabin, Charles Boyer, Spencer Tracy, Cark Gable…».

Nessuno in particolare?

Ma sì, sì, Jean Gabin, Spencer Tracy... ».

Come mai non ha citato Vittoria De Sica?

«Lo ricordo con molta simpatia. De Sica fu mio partner in Montecarlo di Taylor, ma il film lo ricordo con meno simpatia. Ricordo che un giorno, durante le riprese, stranamente, De Sica mi chiese se pensavo alla morte».

Lei cosa gli rispose?

«Gli risposi di sì, aggiungendo che spesso mi divertivo ad immaginare i miei funerali. Immaginavo che sarebbero intervenuti tutti i miei amici intimi: Gary Cooper, James Stewart, John Wayne, Douglas Fairbanks junior. Douglas avrebbe indossato una divisa da alto ufficiale di marina, mentre Jean Gabin, con maglione girocollo e la sigaretta fra le labbra, sarebbe rimasto presso la porta della chiesa per non confondersi con la folla. Erich Maria remarque, il più intimo dei miei amici ma anche il più distratto, sarebbe arrivato puntualissimo ma in una chiesa sbagliata per un funerale sbagliato».

Lo sa che cosa ha detto De Sica di lei? Che sul piano professionale le è superiore soltanto Charlie Chaplin.

«Io non nutro una grande ammirazione per Charlie Chaplin. Uno degli attori che più ammiravo era Gerard Philipe. La sua morte mi sconvolse».

Perché non ha citato Ernest Hemingway parlando dei suoi amici intimi?

«Avrei dovuto citarne tanti. Il mio rapporto con Hemingway fu assolutamente platonico. L’uomo più straordinario che abbia conosciuto è il musicista Burt Bacharach, con lui mi sentivo come in paradiso. Di Erich Maria Remarque ero più che altro la consolatrice, perché andava soggetto a profondo e struggenti malinconie».

Tutti falsi gli altri flirt che le sono stati attribuiti?

«Gossip. Di molti dei miei amici sono stata tutto tranne che l’amante».

Si dice che anche Hitler si fosse innamorato di lei e che glielo avrebbe fatto sapere attraverso Goebbels.

«Gossip».

E vero però che Hitler voleva che lei tornasse in Germania.

«Forse».

Come mai ha accettato di interpretare in Scandalo Internazionale di Wilder e in Vincitori e vinti di Kramer personaggi compromessi col nazismo?

«Io non mi sono mai identificata con i personaggi che interpreto sullo schermo. Ho ben poco a che fare con i personaggi che interpretavo nei film di altri registi, da Mamoulian a René Clair, da Orson Welles a Hitchcock, da Lubitsh a Lang».

Pare che Joseph von Sternberg abbia detto, arieggiando Flaubert: “Marlene Dietrich sono io”.

«Ma io non ho nessuna idea di dire: Joseph von Sternberg sono io».

Quali sono i suoi registi preferiti?

Orson Welles, Frank Borzage, Billy Wilder.

Il ruolo che ho fatto nell’Infernale Quinlan, anche se piccolo, mi piace molto. Frank Borzage, con il quale ho fatto Desiderio, era un regista delicato e romantico e un uomo straordinariamente affettuoso. Billy Wilder, con il quale ho fatto Scandalo internazionale e Testimone d’accusa, è molto divertente, sia come regista che come uomo. Hitchcock, invece, è burbero e dispotico».

Con quali registi italiani vorrebbe lavorare?

«Con Fellini, ovviamente, Rossellini, Visconti, Antonioni».

E dei registi non italiani?

«Con Ingmar Bergman. Non si penserebbe, ma è un regista e un uomo che ha il senso dell’umorismo».

Ha rimpianti, rancori?

«No, non rimpiango nulla, non ho rancori, o non sono più così brucianti come una volta».

Come sono i rapporti con sua figlia Maria?

«Non ci vediamo molto spesso. Ognuna di noi fa la propria vita. Quando aveva nove anni, fece una piccola parte in L’imperatrice Caterina, il mio sesto film con Joseph von Sternberg, poi è diventata una diva della televisione americana sotto il nome di Maria Riva, preso dal marito. Ricordo che a New York, quando portavo a spasso il bambino di Maria al Central Park, spostavo la carrozzina in modo che potesse essere sempre riscaldato dal sole».

Signora Dietrich, ora le rivolgo la stessa domanda che le pose De Sica: pensa alla morte?

«Sì, certo, ma più che la morte temo la vecchiaia».

Lei è religiosa, credente?

«No, purtroppo».

Crede in Dio?

«No. Ho smesso di crederci durante la guerra, di fronte a tutto quell’orrore».

Oltre la vecchiaia, che altro teme?

«Oltre e più che la vecchiaia, la solitudine».

L’indomani del nostro colloquio, chiedo a Raf Vallone come mai non prestò alcun interesse alla corte della grande attrice. Mi risponde: «Marlene era ed è ancora una donna bellissima, dal fascino insolito, inquietante, ma non era e non è il tipo di donna che io sognavo. L’attrazione sessuale è un fatto magico, misterioso, inconoscibile».

Roma, 28 giugno 1963