Il ruolo di 'intellettuale impegnato" di

GUGLIELMO LENTO

nel ritratto del Prof. Lino Daniele

 

di Salvatore Libertino

 

Tropea - Cortile del Seminario Vescovile

10 settembre 2009

In occasione della presentazione a Tropea del libro 'Onorevole... per caso' di Guglielmo Lento, il Prof Lino Daniele si era dato il compito di svolgere l'analisi letteraria del testo. Ne esce fuori un ritratto a tutto tondo di Guglielmo, dall'infanzia trascorsa a Tropea con la famiglia alla militanza politica, dai primi studi a quelli universitari e alla professione di medico in quel di Gela, fino all'esperienza esaltante di parlamentare. Ad alcuni giorni dalla scomparsa di Guglielmo, la testimonianza del Prof. Daniele, per fortuna registrata in video, offre un valore aggiunto a chi voglia conoscere aspetti significativi del ruolo di 'intellettuale impegnato' di Guglielmo, della sua passione viscerale 'di far politica' e 'di fare il medico', dell'amore struggente per Tropea, della brillantezza letteraria dei suoi scritti poetici.
Vi vogliamo proporre la registrazione e un racconto, tratto da 'Onorevole... per caso', legato ai ricordi di una Tropea che non c'è più. E un appello alle Autorità del Governo cittadino per apporre una targa ricordo in Vico Manco, dove Guglielmo visse.
 

 

©TropeaMagazine

 

Tropea - Ill carcere mandamentale (Monastero dei Minori Conventuali) e il liceo (Palazzo Giffone) nei primi anni Sessanta

 

PAGLIERICCI E CANCELLI

 

Da 'Onorevole... per caso' di Guglielmo Lento

 

Il Liceo Pasquale Galluppi, ai tempi in cui io frequentavo, era allogato nel Palazzo Giffone, il cui frontale chiudeva uno dei lati della Piazza Municipio.

Svoltato l’angolo si arrivava in un’altra piazzetta dove si trovava la Caserma dei carabinieri ed il carcere Mandamentale.

I bassi della caserma ospitavano le stalle dove “abitavano” i cavalli della benemerita.

Erano dei cavalli enormi, ben pasciuti e ben curati, con dei giganteschi fianchi che quando camminavano lungo il corso, sfregando gli zoccoli sulle basole “facevano scintille”.

La Pretura si trovava al “Piano regolatore”, là dovevano portare, poi da là li riportavano, i coatti da sottoporre a giudizio.

I reati di competenza pretorile erano rappresentati da infrazioni minime. Si trattava, quasi sempre, di pastori che dovevano essere giudicati per il reato di “pascolo abusivo e rottura di sipala”, o di contrabbandieri di sale che, non potendo e non volendo pagare la sanzione amministrativa, la scontavano in giorni di carcere.

Uno di questi, il “dottore”, così chiamato perché sempre azzimato ed in ordine e parlante un maccheronico italiano, quando raggiungeva una certa cifra, se l’andava a “fare di carcere”. Una giornata di carcere valeva, allora, cinquecento lire. Quando le varie multe, che gli erano state inflitte, raggiungevano la cifra di Ventimila lire, il “dottore” si preparava il “necessaire” e salutava gli amici con una frase consueta: “Vado a farmi quaranta giorni di villeggiatura”. Sentendosi alleggerito si presentava alla porta del carcere e varcava il cancello. Veniva, quindi, preso in carico da un donnone enorme, era la carceriera, coniugata ad un marito mingherlino e claudicante. A quei tempi, il ministero di Grazia e Giustizia, a loro aveva affidato in appalto questo Tropeano circolo Pickwich.

        

Tropea - La facciata del Liceo (Palazzo Giffone) e l'insegna del carcere mandamentale in Largo Galluppi

Benché si trattasse di un carcere per modo di dire, sempre in me suscitava una gran pena la visione di uomini incatenati che venivano portati in un luogo che rappresentava la privazione della libertà.

Avevo modo di vederli tutti perché, ammanettati, dovevano passare per forza davanti ai balconi del Liceo e, noi ragazzi, non potevamo fare a meno di guardarli.

Io ne rimanevo totalmente sconvolto e, per quel giorno, a pranzo, non riuscivo a mangiare.

Due carabinieri che portavano in mezzo a loro un poveruomo in catene era la scena che, quasi quotidianamente, si presentava alla nostra vista.

Alcune volte, i carabinieri, procedevano a cavallo, il coatto incatenato veniva trascinato, lui camminava a piedi, spesso non riusciva a regolare il suo passo a seconda del ritmo dei cavalli, ben diverso dal suo.

Il guaio era quando i cavalli si imbizzarrivano e, consequenzialmente, aumentavano la velocità. Allora, il povero disgraziato doveva correre per non essere trascinato nella polvere.

Io rimanevo sconvolto non solo perché mosso a pietà nei confronti del povero sventurato, ma ossessionato dalla possibilità di poter finire anch’io, un giorno, in galera. Non è che l’idea della privazione della libertà mi sconvolgesse più di tanto. Sarà banale, ma ero terrorizzato dalla notizia, avuta dalla gente che in collegio c’era stata, che in carcere per espletare i propri bisogni fisiologici, atto grande ed atto piccolo, come dicevano le Suore, ci si dovesse servire del bugliolo. Questo era un grosso secchio, posto al centro della cella, e là, sotto gli occhi di tutti, ci si doveva alleggerire.

Io non sarei stato capace di usarlo, avevo vergogna a farmi vedere mentre dovevo adempiere a questi ineludibili bisogni. Tutt’ora ho problemi ad usare i servizi igienici ad eccezione di quelli conosciuti e tranquillizzanti di casa mia.

Io che, da questo punto di vista, sono regolare come un orologio, se sto fuori casa sono capace di non defecare per alcuni giorni. Ho sempre paura che la porta del servizio usato, diverso dal mio, possa aprirsi all’improvviso e far percepire a chi sta fuori l’imbarazzante visione concernente la miseria di “un uomo che caca”. Non sono mai riuscito a liberarmi da questo tabù, non riesco nemmeno ad interpretare cosa possa rappresentare nel mio profondo inconscio. Rappresenta, quindi, una grande gioia per me l’essere eletto deputato e quindi non correre più l’alea di andare in carcere da innocente, e dover subire le conseguenze di uno dei miei tabù.

Essere deputato, quindi, per me fu rassicurante: avrei potuto cacare tutti i giorni senza l’ossessione di dovermi esibire in un atteggiamento che percepivo come immondo.

Debbo registrare che, parlando del mio tabù più tabù, riesco ad esorcizzarlo. Sono riuscito a dire, a scrivere, “cacare”, mentre fino ad ieri, pensando a quest’azione dicevo: “fare atto grande” come mi avevano insegnato le buone suore dell’asilo.

Credevo, però, che il carcere fosse solo questo; l’obbrobrio di dover usare in pubblico il bugliolo, ma non avevo mai visto, veramente, un carcere.

L’occasione l’ebbi quando, facendo parte di un gruppo di deputati siciliani, visitai l’Ucciardone.

Mi accorsi che l’Italia non è un paese civile, non si possono costringere degli uomini che sono composti della stessa materia nostra, a vivere in queste condizioni.

Il carcere borbonico di Palermo come il regno Borbonico delle due Sicilie:

“La negazione di Dio”.

Descrivere quanto visto, non mi basta lo stomaco, ma l’episodio che più mi colpì lo voglio narrare.

In strettissimo isolamento trovammo due uomini politici della nostra isola. Un ex assessore regionale ed un ex ministro. Nemmeno l’ombra della spocchia che conoscevo era rimasta sui loro visi. Davanti a noi si presentavano due poveretti, ben più miseri dei pastori che a Tropea venivano trascinati in catene dai carabinieri a cavallo. Piagnucolanti e chiedenti compassione.

Uno di loro, quasi piangendo, volle parlare:

“Ogni sera mi spogliano nudo e poi mi fanno l’ispezione corporale”.

Vedendo che non riuscivamo a recepire appieno il suo pensiero si espresse più esplicitamente in siciliano:

“Mi mettinu un itu “nculu”.

A quanti Siciliani quell’uomo aveva messo più che un dito nel culo per tanti anni, senza che nessuno, o quasi, dicesse niente.

Il vento stava cambiando direzione, come diceva l’ammiraglio di “Mary Poppins".

Le prime avvisaglie si incominciavano a percepire. Avrei dovuto essere contento per questa legge del contrappasso che, già su questa terra, in un carcere borbonico, si cominciava ad applicare.

Provavo, invece, una strana sensazione, come di formicolii, di nausea, di intolleranza verso tutto questo.

Tornai ad essere lo studente del Liceo Galluppi che guardava dal balcone il pecoraio “Sciò Sciò” trascinato dai culuti cavalli, buttato nella polvere.

Nemmeno quel giorno riuscii a mangiare.