I Vattienti
(Nocera
Terinese - 2007)
di Salvatore
Libertino
©TropeaMagazine
IL
RITO DEL SANGUE DEL GIOVEDI' SANTO
IN
NOCERA TERINESE
di Antonino Basile
(1959)
E', Nocera Terinese, un
paese della provincia di Catanzaro, situato alcuni chilometri dentro quel
golfo che gli antichi chiamavano "sinus terinaeus", golfo di Terina,
dentro la quale sorgevano l'antica Terina, l'antica Lametia e l'antica
Nucra o Nuceria. Nel suo territorio, sebbene non siano stati eseguiti scavi
metodici, avvengono qua e là fortuiti ritrovamenti archeologici:
qualche resto di acquedotto, tombe e lastroni di terracotta con la suppellettile
rituale, delle monete.
Sembra che Nocera sia l'erede
non di Terina ma dell'antica Nucria. Tutto qui parla di una civiltà
e d'una concezione della vita apparentemente estinte, che vivono, invece,
alquanto travestite, ma vivaci ancora, nelle tradizioni del popolo, come
nella caratteristica cerimonia dei "vattienti" nel giovedì
che precede la Pasqua.
Il rito ha attirato da
tempo l'attenzione delle persone colte.
Il prof. Ernesto Pontieri,
nativo di Nocera Terinese, attuale Magnifico Rettore dell'Università
di Napoli, gli dedicò, circa trentasei anni fa, un articolo dal
quale prendiamo la vivace descrizione: "... Per le vie è un movimento
di gente allegra ed oziosa, che entra ed esce dalle chiese, sosta nelle
piazzette, va sù e giù felice di godersi l'annuale ricorrenza.
Intanto capannelli di ragazzi sbucano da ogni vicolo; crocchi di donnucce
curiose si formano qua e là: i balconi e le finestre si popolano;
ad un tratto: - Eccoli! Eccoli! I battenti - grida una voce. Ed
in un baleno tutti i monelli accorrono allo spettacolo incosciente di gente
forse tutt'altro che devota. La quale - oggi ben poca e spinta da un bicchiere
soverchio, ieri invece molta e sorretta da un sentito spirito religioso
- senza la giacchetta ed in sola maglia, scalza e nuda le gambe e la maggior
parte delle cosce, e il volto nascosto da un velo nero e incoronata di
spine, percorre con le mani conserte al petto e con andatura compunta le
vie principali dell'abitato. La segue, s'intende, una allegra caterva di
monelli; la accompagnano gli sguardi curiosi di spettatori fanatici e pettegoli
che si sforzano di riconoscere quei battenti, così come chiamano
in dialetto codesta sorte di flagellati nocerini. Questi, sulle scalinate
delle chiese, davanti agli usci delle case amiche, lasciano sprizzare il
sangue caldo e rosso dei polpacci delle gambe e dalle cosce, percosse e
punte da un tappo - cardo - aculeato.
Poi, quando l'orrido e
degenerato atto di penitenza è compiuto e l'effetto del buon vino
scemato, i battenti rientrano a casa, dove le buone e pazienti mogli
hanno preparato un bagno tiepido di rosmarino, che lava e cicatrizza le
minuscole punture delle carni sanguinanti. Dicono che quest'effusione di
sangue sia un buon coefficiente di salute"1.
Così fedelmente il
Pontieri. Aggiungiamo che ciascuno dei vattienti procede quasi tenuto
al laccio da un ragazzino che ha il petto nudo ed il resto del corpo avviluppato
in un pannicello rosso e porta in mano una croce di legno o di canna rivestita
di un nastro rosso.
Si crede che esso rappresenti
il Cristo, tanto più che porta in testa una coroncina di spine puntute.
Molto più grossa è la corona che il vattiente porta
sul suo capo confezionata con i rami di un arbusto spinoso.
Il cardo, l'arnese
di tortura con il quale il vattiente sdrucisce le sue carni per
farne sprizzare abbondantemente il sangue, è un disco di sughero
col diametro di circa dodici centimetri, sul quale dono fissati, con cera
vergine indurita, dei frammenti di vetro, acuminatissimi e taglienti. Oltre
che del cardo, il vattiente è fornito d'un altro disco
di sughero, del diametro di circa una decina di centimetri, che usa per
detergere dalle carni l'abbondante sangue che versa, quasi mistica offerta,
alla terra2.
Siamo d'accordo col Pontieri
che la cerimonia di Nocera Terinese risenta della concezione cristiana
medievale della partecipazione alle sofferenze del Cristo, ma per noi le
origini di essa non sono nè cristiane, nè medievali: la cerimonia
è più antica e rimanda ad un altro rito, al rito di propiziazione
della fecondità della terra, con l'offerta del sangue da parte del
sacerdote o del fedele. Sotto questi punti di vista esso rimanda agli antichi
riti mediterranei per la morte di Adone e per la morte di Attis celebrati
alla fine di marzo al ritorno della primavera. Allora in Cipro si tagliava
un tronco di pino, lo si ornava di bende come se fosse un cadavere, e di
ghirlande e di violette, come un morto.
"In Pessinunte il terzo
giorno, il ventiquattro marzo - scrive il Frazer - era conosciuto col nome
di giorno del sangue: L'Arcigallo, o gran sacerdote, si cavava sangue
dalle braccia e lo presentava come offerta. Non era egli il solo a fare
questo sacrificio di sangue: eccitati dalla barbara musica dei cembali,
dal rullio dei tamburi, dal soffiar dei corni, dal suono stridulo dei flauti,
tutti i sacerdoti d'inferior grado si gettavano nel vortice della danza,
con la testa penzoloni ed i capelli al vento e ben presto, smarriti dalla
frenetica eccitazione e resi insensibili al dolore, si tagliavan le carni
con dei cocci e si laceravan la pelle con pugnali per spargere sull'altare
o sull'albero sacro il sangue che usciva dalle ferite. Il macabro rito
faceva probabilmente parte dei lamenti in onore di Attis e può darsi
che lo scopo fosse quello di dargli nuova vita per la resurrezione"3.
Ciò avveniva per
Attis a Pessinunte nella Frigia. Nella stessa Frigia, a Jerapoli, si svolgevano
simili riti in onore della primavera. "Molti Galli, e gli uomini che dissi
addetti al culto sacro - scrisse Luciano di Samosata - celebrano le orge,
s'intaccano le braccia, si percuotono l'un l'altro il dorso, mentre parecchi
suonano flauti, picchiano timpani, cantano sacre ed ispirate canzoni. Tutto
questo si fa fuori dal tempio, e queste perone non entrano nel tempio.
In questi medesimi giorni si castrano e diventano Galli"4. Cerimonie
simili si svolgevano a Babilonia ed in altre parti dell'Asia occidentale
per la morte di Tammuz, lo spirito della vegetazione, l'Adone babilonese
e sono bellissimi alcuni lamenti funebri che le donne cantavano per la
morte. Il culto di Tammuz doveva essere penetrato presso quella parte del
popolo d'Israele rimasto in patria se Ezechiele, dalla cattività
di Babilonia, aveva la visione del tempio dove "sedevano delle donne che
piangevano Tammuz" (Ezechiele, 8, 14). Bisogna pensare che quanto
al compianto funebre esso si eseguisse nel modo comune degli usi funebri
presso il popolo ebreo del tempo, con strazio dei capelli ed incisioni
delle carni, per farne uscire il sangue, rito che è attestato nell'annunzio
dell'ira del Signore contro Israele: "E grandi e piccoli morranno in questo
paese, senza essere seppelliti; e non si farà cordoglio per loro
e niuno si farà tagliature addosso, nè si raderà
per loro" (Geremia, 16, 6).
E l'uso era ripetutamente
proibito dai libri sacri, in nome d'una superiore concezione religiosa:
"Non vi fate alcuna tagliatura nelle carni per un morto e non vi
fate alcuna bollatura. Io sono il Signore" (Levitico, 19, 20). lo
stesso divieto troviamo nel Deutoronomio (14, 1): "Voi siete figliuoli
del Signore Iddio vostro: non vi fate tagliature addosso e non vi
dipelate fra gli occhi per alcun morto".
Nè il rito del sangue
nelle funebri cerimonie era limitato a questi popoli. Secondo Erodoto,
gli Sciti, alla morte dei loro Re, si troncavano le orecchie, si circoncidevano
le braccia, si trafiggevano con saette la mano sinistra5. Plutarco
dà notizia di altri barbari, i quali, alla morte dei loro cari congiunti,
si troncavano le orecchie e le nari. Secondo questo scrittore essi facevano
ciò perchè persuasi che alla vista di quel sangue gli dei
infernali si sarebbero racquetati e non avrebbero nociuto più oltre.
E' probabile che questa fosse opinione dello scrittore. Diversa credenza
avevano i popoli primitivi dell'Australia, dove gli aborigeni si ferivano
sulle tombe dei loro amici con lo scopo di dare all'anima la forza di rinascere6.
Così il sangue versato dai sacerdoti e dai fedeli, anche attraverso
le mutilazioni, dava al dio della vegetazione la forza di rinascere.
Il rito del sangue è
a volte legato alle cerimonie per la pioggia. I Dieri dell'Australia centrale,
per attirar l'acqua dalle nuvole fuggenti, scavano una fossa poco fonda
e vi costruiscono sopra una capanna con dei rami tronchi e delle foglie.
"Due stregoni, che si suppone abbiano ricevuto dai Mura Mura (gli
spiriti) una ispirazione speciale, vengono feriti con una pietra aguzza
infliuente; e il sangue cavato dall'avanbraccio vien fatto cadere sugli
altri membri della tribù che siedono calcati insieme nella capanna:
nello stesso tempo i due feriti gettan giù dalle manate di lanugine
che in parte si attacca ai corpi insanguinati dei loro compagni ed in parte
resta fluttuante nell'aria. Il sangue deve rappresentare la pioggia e la
lanugine le nuvole"7.
Facciamo grazia al lettore
di altre citazioni. Da quelle fatte balza chiara la rassomiglianza dell'uso
del giovedì santo dei "vattienti" di Nocera Terinese in Calabria
con i riti della morte di Attis, di Adone, di altre divinità della
vegetazione destinata a risorgere.
C'è a Nocera una
specie di misteriosa paura che le cose non vadano bene se non viene compiuto
il rito, c'è l'idea dell'utilità del rito stesso.
Nè si dica che sarebbe
impossibile che un rito pagano persistesse tanto a lungo nella società
cristiana. Possiamo subito rispondere che il caso di persistenza non è
nè unico, nè raro. Persistono forme di antichissimi riti
nella settimana della Passione: rimane vivo, sia in Calabria, sia in Sicilia
ed in Sardegna, sia in altre regioni meridionali l'uso di ornare il Sepolcro
del Cristo con piatti contenenti piccoli cespi di piantine di grano, di
orzo, di lenticchie, di altri semi fatti germogliare al buio8.
Le donne affezionate alla
chiesa li inviano per devozione, senza sospettare di rinnovar così
giardini o orti di Adone dell'antica religione di Siria, con quei piccoli
cespi pallidi, perchè germogliati rapidamente nel buio con scarsa
funzione clorofilliana. Se essi, originariamente creati per un Dio della
vegetazione e della natura la cui attività si ridesta in primavera,
sopravvivono negli usi mediterranei cristiani, non è meraviglia
che sopravviva ancora in un vecchio paese di Calabria il rito antichissimo
del sangue: originario per la morte di Adone e per la sua resurrezione
e per la morte e la resurrezione di Attis esso rimane in Nocera Terinese,
ma adattato alla commemorazione della morte e della resurrezione del Cristo,
come sopravvivenza o meglio reviviscenza. Anche Attis moriva e resuscitava
in piena libertà, mentre la natura rimetteva le novelle fronde ed
i nuovi fiori, premessa di frutti abbondanti.
Rimanda ancora all'origine
pagana, anzi primitiva, del rito di Calabria il fatto che nessun elemento
di tristezza vale ad offuscare nel giovedì stesso la letizia della
fausta cerimonia. Gli abitanti di Nocera Terinese sono allegri, nonostante
la tristezza che dovrebbe regnare nei giorni della Passione: non soltanto
le ragazze rubiconde ed avvenenti fanno sfoggio del loro abito nuovo, con
orecchini, fermagli, bracciali, anelli, ma, nonostante che sia per iniziare
la processione "tutti sono lieti e spensierati, tutti si scambiano auguri
e complimenti e alzano il calice della fraternità che non verrà
mai meno"9.
Evidentemente il rito del
sangue adombra l'offerta fatta allo spirito della vegetazione affinchè
produca sempre di più.
Del resto il Pontieri stesso
scrisse che nella cerimonia che segue il mattino del venerdì santo
sul poggio sul quale si scioglie la processione del Cristo morto, i cittadini
di Nocera Terinese si danno alla gioia del bere. Scorrono nelle loro gole
i liquori tra i quali l'anice inebriante: "Lì venuto meno in
molti, senza differenziazione di sesso, il mal certo senso di misura nell'uso
dell'augurale bevanda, incominciano gli effetti di coscienza di una cerimonia
in onore di Bacco, anzichè di una commemorazione della morte di
Cristo".
Questo particolare riconferma
il carattere pagano augurale del rito.
E la Chiesa? Quale atteggiamento
ebbe verso di esso?
La Chiesa lo sopportò,
paga nella sua cristianizzazione, derivante dall'attribuzione del rito
alla commemorazione della morte del Redentore, continuando ancora una volta
a rivestire di forme cristiane riti e credenze pagane che difficilmente
potevano essere soppressi.
Si ebbe qualche anno fa
un tentativo di combattere l'uso ma riuscì vano: alcuni Noceresi
celebrarono privatamente e singolarmente quel rito che non potevano celebrare
al cospetto del pubblico.
Tanta è la tenacia
con la quale resistono nel popolini gli antichi riti, le antiche credenze,
gli antichi usi!
NOTE
1 Ernesto
Pontieri, I flaggellanti di Nocera Terinese. Nella "Rivista
critica di cultura calabrese", anno I, Napoli, 1921, pagg. 223 e segg..
2 Pontieri,
articolo
citato.
3 J. Frazer,
Il Ramo d'oro, Re maghi e dei morituri (vol. I), Torino, Einaudi, 1951,
pag. 570.
4 Luciano
di Samosata, Dialoghi: Della Dea Sira, trad. it. Settembrini.
5 Erodoto,
Storie,
IV.
6 Frazer,
Op.
cit., pag. 570.
7 Frazer,
Op.
cit., pag. 130.
8 Frazer,
Op.
cit., cap. XXXIII: I giardini di Adone, pag. 557 e segg..
9 Pontieri,
articolo
citato, "Rivista critica di cultura calabrese", pag. 223.