Cardinale Pietro Paolo Parisio (1473 - 1545)
La città natale, la famiglia, l'infanzia,
i primi studi, i primi impieghi
di Antonio Francesco Parisi
Nei primi anni del secondo ventennio del secolo XVI, durante uno dei suoi lunghi viaggi per l’Italia, capita in Calabria, e visita anche Tropea, il frate bolognese Leandro Alberti. Quando vi giunge, ha negli occhi la verdeggiante piana lametica, l’amenità e la dolcezza delle colline maidesi e la splendida fioritura primaverile vista nella vallata dell’Angitola. Ma Tropea gli appare ancora più «bella» nella lussureggiante cornice verde dei suoi innumerevoli giardini, nell’azzurro splendore del suo limpido cielo e del suo mare. Soffermatosi in essa, ha poi modo di constatare come pure possegga altri meriti. È operosa, civile, ricca di popolo, ed abbondante di ogni cosa necessaria ai mortali. Anche Gabriele Barrio, eruditissimo calabrese del cinquecento, ha parole di entusiastica lode per la bella cittadina tirrenica. Ed in effetti Tropea era nei primi anni di quel secolo una delle poche isole di benessere nell’impoverita Calabria. Le guerre e le rivolte, il brigantaggio ed i balzelli imposti dal governo avevano, nella seconda metà del secolo XV e i primi anni del XVI, inaridito le principali fonti di benessere della regione: l’agricoltura, la pastorizia ed il commercio. Le scorrerie barbaresche avevano aggiunto o stavano per aggiungere a questi mali la devastazione quasi continua dei litorali e il loro spopolamento, gli intralci alla navigazione ed alla pesca con conseguenti aggravi alle condizioni dell’agricoltura e del commercio.
Ma Tropea situata in una magnifica posizione, presso il Tirreno, e circondata da una campagna ubertosa coltivata a giardini, vigne ed oliveti continuava a trarre dal mare e dalla campagna i mezzi per la sua floridezza.
Come accenna il Barrio, le barche tropeane si spingevano lontano e tornavano, onuste di preda, a rifornire il mercato cittadino di pesci spada, di tonni (di rara grossezza, spiega l’Aceti) e di molte altre specie di pesci; olii, vini, frutta, ed altre indispensabili vettovaglie forniva la ben coltivata e popolata regione dintorno. Antichi e nuovi privilegi salvaguardavano le libertà e gli altri diritti dei suoi cittadini, le fortificazioni la tutelavano dagli improvvisi attacchi barbareschi. Cinta di mura bastionate, e da un fossato largo e profondo scavato nella pietra, con due porte e due ponti levatoi, uno davanti alla porta del mare e l’altro davanti alla porta Vaticana, con un efficiente castello, su una rupe precipite addentro alla marina, Tropea era splendida e potente.
Entro la cerchia cittadina le sue strade strette, le sue piazze brevi, contornate da begli edifici civili, chiese e monasteri sono sempre affollate da gente locale e straniera. Come negli altri centri del vicereame la sua popolazione è suddivisa in nobili e popolani, oltre che in religiosi. Ma ancora la distinzione dei ceti non è così netta come in tempi più vicini a noi e nobili professionisti, religiosi, artigiani, contadini e pescatori vivono in ottima armonia. Anzi è proprio la nobiltà, di cui fa parte una attiva ed intelligente schiera di giusperiti che regge la città e ne salvaguarda la «demanialità». Infatti nel 1495, col sindaco Lancillotto Placido, accoglie con grande entusiasmo Alfonso II; nel 1506 promuove l’invio del sindaco Giuseppe Fazzari per ottenere la concessione di Reali privilegi che confermano ed aumentano le libertà concesse nel 1344 da Giovanna II a rappresentare la cittadina calabrese nella lontana Bologna per assistere all’incoronazione di Carlo V ed ottenere nuova conferma dei privilegi cittadini.
Un’antica fiera e regolari mercati le assicuravano buone prospettive commerciali. I mercanti erano molto attivi e nella seconda metà del sec. XV avevano ottenuto varie facilitazioni tra cui l’esenzione di ogni gravame tributario dei loro commerci con la Sicilia e con il Regno. Non deve quindi produrre sorpresa la presenza in città di un nutrito gruppo di ebrei. Questi, anzi, avvalendosi delle favorevoli condizioni tropeane, incrementano il commercio ed acquistano tanta importanza, da indurre l’università a chiedere ad Alfonso di Aragona di non sovraccaricarli di imposte; e verso la fine del XV secolo la stessa università riconosce pubblicamente la grande «utilità, commodo et beneficio» della dimora di costoro e chiede che ad essi vengano estese le franchigie cittadine per incrementarne l’immigrazione.
Ma Tropea non era certo ospitale soltanto per gli Ebrei. Vi andavano a cercare un tranquillo asilo di libertà demaniali molti nobili e popolani; di rilievo le immigrazioni dal Matese avvenute alla metà del sec. XV, quella della famiglia d’Aquino, e le successive dei maidesi Bongiovanni, dei Vianeo, e dei Romano.
L’artigianato locale approntava panni di nobile fattura. Ed anche il porto contribuiva al benessere economico, con un mediocre movimento di legni: vi facevano scalo buona parte delle navi che compivano i percorsi tra Napoli e la Sicilia.
Ma la gloria di Tropea in quei primi anni del sec. XVI era la così detta «Magia tropiensium», cioè la grande perizia e la mirabile arte di Pietro e Paolo Vianeo, in quel tempo i soli Chirurghi in Italia ed in Europa che praticassero con esito stupefacente per i contemporanei, operazioni di plastica facciale.
Oriundi, come si è accennato, di Maida, che avevano lasciato per sfuggire al giogo baronale ed anche al brigantaggio che infestava quei dintorni, avevano appreso dal padre Bernardino l’arte di ricostruire i nasi mutili e deformi; arte che già lo zio Vincenzo aveva portato ad una relativa perfezione.
Nel nuovo e più dinamico ambiente tropeano, ove maggiore era la libertà e più intensi i traffici, Pietro e Paolo ebbero un campo d’azione ed una fortuna che mancò al loro genitore ed illustre loro zio. La loro fama si estese tanto da acquistare a Tropea gloria non peritura. Il loro ospedale accoglieva gente proveniente dei più lontani paesi e rappresentava un notevole cespite d’entrata per l’economia cittadina. Invero fu un grande male per l’avvenire di Tropea, il non aver essi voluto dare principio ad una vera e propria scuola di plastica, ma certamente va ascritto a loro precipuo merito l’elevazione dell’intera classe medica tropeana. Non è quindi da stupire che nella loro scia anche Vincenzo Lauro si sentirà attratto dallo studio dell’arte medica, nella quale riuscirà anche a segnalarsi (1).
In quella seconda decade del sec. XVI, la «demanialità» di Tropea aveva subito un correttivo; giuridicamente era rimasta nel pristino antico stato di libertà, ma di fatto era stata sottoposta all’influenza dei duchi Carafa. Influenza in verità molto discreta, sia perché quel ramo dei Carafa si distingueva per l’umanità verso i propri sudditi, sia per la particolare mitezza del duca Ferdinando, il quale appunto reggeva la famiglia durante l’infanzia del futuro cardinale.
Ferdinando Carafa, era stato educato alla scuola del nobile ed illustre Marco Antonio Jasolino (2). Aveva sposato Eleonora Condoblet, di antica e nobile famiglia, e colla moglie e coi teneri figli passava gran parte dell’anno nella verde pace del Castello di Filogaso. I Lauro erano al suo servizio.
Parecchi autori parlano di una pretesa nobiltà dei Lauro, ed anzi secondo alcuni le origini della famiglia risalirebbero al famoso ammiraglio Ruggero de Lauria, che verso la fine del sec. XIII, comandando le squadre siciliane ed aragonesi, più volte sbaragliò sul mare ed in terra gli angioini.
Quantunque le ricerche del Prof. G. Pepe abbiano assodato che l’ammiraglio era senza dubbio calabrese e propriamente di Scalea, nulla autorizza a considerare i Lauro di Tropea suoi discendenti e tanto meno nobili. Se avessero fatto parte di questo ceto, certamente il loro casato sarebbe risultato iscritto nei capitoli cittadini del 1567 tra le 67 famiglie patrizie, o almeno posteriormente avrebbero curato di farsi registrare tra le famiglie nobili viventi nel «Sedile» o fuori.
La loro pretesa nobiltà fu frutto dell’adulazione del Tritonio; essi nondimeno erano una famiglia molto distinta e stimata. Del più antico stipite, Giacomo Lauro, non conosciamo che il nome. Il figlio Antonello, padre del futuro cardinale, ci vien descritto come persona di grande bontà, attivo ed operoso. A quanto pare era l’uomo di fiducia nel Tropeano dei Carafa. Forse per questo gli riuscì di sposare Raimonda Migliarese, o Migliarizzo, che apparteneva ad una delle più nobili famiglie Tropeane, ed era donna di squisiti costumi. Da essi nacquero ben sei figli, di cui tre femmine. Il figlio maggiore, Marco, abbracciò l’ordine domenicano e divenne invitato a partecipare al Concilio Tridentino ove ebbe modo di farsi notare per il suo sapere: tra l’altro nella sessione del 23 agosto 1546 gli venne affidato lo scrutinio dei voti per l’approvazione di un importante Decreto. Il 26 gennaio 1560 ricevette la tiara vescovile, succedendo a monsignore Camillo Mentuato nella sede di Campagna; morì nel primi mesi del 1571 (3).
L’altro figlio, che il Tritonio dice erudito, fu meno fortunato dei fratelli e morì, oscuro sacerdote in un paesino delle Marche.
La maggiore delle figlie, Beatrice rimasta zitella, passò al servizio della duchessa Eleonora; la secondogenita, Caterina, sposò un concittadino della nobilissima famiglia Vulcano; mentre la terzogenita, Dorotea, seguendo l’istinto religioso che aveva in comune coi fratelli, volle intraprendere la vita monastica e, come scrive il Tritonio, vestì l’abito monacale dell’ordine più severo: quello regolato dalle rigide norme dettate da S. Francesco.
Vincenzo, nacque secondo tra maschi e vide la luce in Tropea il 28 marzo 1523 (4).
Fu il più illustre ed anche il più fortunato della famiglia. Condotto con sé dalla sorella Beatrice, che quale dama di compagnia serviva la Duchessa Carafa, sin da fanciullo poté godere di un trattamento e di una educazione aristocratica preclusa ai fratelli.
Allevato ed istruito col figlioletto minore del duca, Alfonso Carafa, visse l’infanzia nel Castello di Filogaso residenza preferita del duca Ferinando.
Nel vasto e splendido castello, in mezzo a verdi boschi e nella serenità della vita rurale, i due fanciulli trascorrevano felici le loro giornate fino a che non raggiunsero l’età necessaria preferita del duca Ferdinando.
Il loro primo maestro fu uno spagnolo, tal Giovanni Padilla, che era già stato precettore del primogenito del duca. La Spagna era allora di moda e la nobiltà locale volentieri apprezzava quanto da essa proveniva. Chi fosse questo Padilla non sappiamo. Pare che vantasse nobiltà d’origini, e godesse di una certa fama per il suo ingegno. I suoi criteri pedagogici erano naturalmente consoni ai tempi ed alla sua provenienza, e molto differenti da quelli oggigiorno in vigore. La base dell’insegnamento era costituita dagli esercizi mnemonici e da una stretta quanto formale pratica religiosa. Infatti soleva giornalmente costringere i due allievi a mandare a memoria gran quantità di nozioni letterarie e religiose, e a dedicare molte ore del giorno alla preghiera.
I biografi scrivono che l’insegnamento del Padilla fu per il giovane Lauro particolarmente fruttuoso, specie per quanto riguarda la conoscenza del latino e del greco, nelle quali lingue riusciva a comporre versi non privi di eleganza. Però il Lauro non ricordò mai in maniera particolare questo periodo della sua vita se non per dire che in esso ebbe origine la consuetudine della preghiera giornaliera praticata senza interruzione anche prima di prendere i sacri voti.
Si era frattanto fatto un giovanotto dai modi garbati, dall’ingegno pronto, e alquanto più riservato di quanto non comportasse l’età.
Il duca Ferdinando, che lo amava qual figlio, era veramente lieto dei mirabili progressi ed anche ammirato della sua discrezione. Cominciò per questo motivo ad affidargli alcuni incarichi di fiducia nei suoi feudi, e la cura di buona parte della sua corrispondenza riservata.
Così Lauro quasi senza accorgersi principia la sua carriera di segretario e cortigiano. Ma un’altra passione si fa lentamente luce nell’animo del giovane. I lunghi periodi che insieme al duca e per conto di lui trascorse a Tropea lo avvicinarono alla classe dei medici che in quel tempo erano ancora la gloria cittadina. Lauro si sentì subito attratto dalle scienze mediche e ne intraprese lo studio. Ma quali risorse gli può offrire una piccola cittadina dall’orizzonte necessariamente limitato? Il desiderio di completare le nozioni acquisite e il modesto avvenire cui si vedeva costretto stando al servizio ducale in Calabria facevano sospirare al giovane Napoli, Roma e le altre grandi città. Il duca stesso capì che non era opportuno costringere ad un servizio tanto modesto un ingegno sì promettente e lo consigliò di lasciare la patria regione; lo fornì anzi dei mezzi necessari per recarsi a Napoli ove avrebbe avuto agio di migliorare le sue conoscenze e più comodamente dedicarsi alle discipline preferite.
La capitale del vicereame era allora, ed in parte ancor oggi, la prima meta degli studenti universitari calabresi; ma per il Nostro fu soltanto una breve tappa. Nel giugno del 1542 lascia Napoli e si dirige a Padova per compiere gli studi in quel fiorente Ateneo. Durante il viaggio, a Roma, gli capitò una singolare avventura interpretata dagli antichi biografi quale sicuro presagio di un luminoso avvenire nella gerarchia ecclesiastica.
Roma era in quei giorni tutta in festa per la ricorrenza di S. Pietro ed il giovane Lauro, trovandosi nei pressi dell’Esquilino dalle parti della chiesa di S. Marco, venne investito da un toro furibondo sfuggito al guardiano. Nel generale spavento si vide il toro sollevare da terra il Nostro e poi lentamente riportarlo al suolo. Lauro era assolutamente indenne davanti al toro diventato mansueto.
A Padova sfruttò appieno l’eccellenza e la duttilità del suo ingegno addottorandosi con una certa prontezza in filosofia medicina e teologia. Specialmente in quest’ultima disciplina divenne tanto profondo che una volta il pontefice Pio V restò meravigliato accorgendosi che il Lauro non soltanto aveva un’ottima cognizione della dottrina tomistica ma pure conosceva a memoria gran parte dell’opera di S. Tommaso. Nella antica università veneta il futuro cardinale conseguì a pieni voti il titolo accademico e subito dopo tornò a Roma per trarre profitto delle cognizioni acquisite.
Nella Città eterna egli si recava non senza commendatizie o alla ventura, come sembra voglia far apparire il Tritonio. Non bisogna dimenticare che in quegli anni il fratello Marco era discretamente noto agli ambienti religiosi calabresi ed era in buoni rapporti col cardinale Pietro Paolo Parisio, il quale per l’alta carica era il polo d’attrazione della maggior parte dei calabresi di Roma. Così il giovane Lauro venne ricevuto nel seguito del prelato cosentino ove fu l’ultimo di una triade famosa. Con lui vi erano: il futuro pro datario Contarini ed il futuro Gregorio XIII, cioè Ugo Boncompagni.
Sul servizio prestato alle dipendenze del Parisio nulla ci è stato tramandato. Per quanto fosse stato molto breve – non durò un anno – possiamo arguire che riuscì al giovane di grande vantaggio. Tommaso Aceti invero scrive che fu il Parisio a far nominare cardinale il giovane tropeano (5); ma l’inconsistenza di tale notizia è oltremodo evidente al solo considerare che tra la morte del Parisio e la nomina del Lauro intercorrono ben 38 anni. Tuttavia al seguito dell’illustre corregionale il giovane dottore cominciò a fare preziose amicizie negli ambienti della Curia e si impratichì nell’ufficio di segretario.
Perciò quando ai primi di maggio del 1545 Pietro Paolo Parisio passò a miglior vita, il Lauro non restò a lungo privo di occupazione. Dopo pochi giorni era già segretario del cardinale fiorentino Nicolò Gaddi, che per essere stato arcivescovo di Cosenza aveva avuto rapporti col Parisio e quindi aveva potuto conoscerlo bene. Al servizio di questo porporato il Nostro stette sei anni, ma nessuno dei biografi antichi pensò di tramandarci qualche particolare della di lui vita in questo lungo periodo. Il Tritonio scrive che riuscì ad acquistarsi la benevolenza del Cardinale e, a conferma, ci racconta come un giorno il porporato fiorentino, oltremodo stupito della prontezza d’ingegno del suo segretario, toltosi il cappello cardinalizio glielo volle imporre sul capo esclamando: «Prendi, Vincenzo, perché non v’è dubbio che almeno questo onore ti verrà concesso» (6). Ma, a parte la benevolenza e la previsione del cardinale, quegli anni trascorsi al suo servizio costituirono per il Lauro un periodo formativo e di orientamento che ebbe notevoli ripercussioni sulla sua vita futura. In quella prima metà del sec. XVI la scena politica europea era dominata dalla Francia e dalla Spagna in lotta fra loro per il predominio. L’Italia purtroppo era stata e continuava ad essere doloroso teatro delle loro guerre, mentre gli abitanti, incapaci di costituirsi in uno stato unitario e liberare il loro paese, simpatizzavano per l’una o per l’altra potenza e, divisi in opposte fazioni, spesso combattevano fra di loro. Lauro era nato in territorio sottoposto alla Spagna, era stato istruito da uno spagnolo ed era legato da vincoli di dipendenza familiare ad un feudatario, il Carafa, che figurava tra i più sinceri fautori degli iberici; tutto quindi contribuiva a farlo per lo meno ritenere favorevole al partito spagnolo. Ma la famiglia dei Gaddi militava nell’opposta fazione ed il cardinale era legato da vincoli di amicizia col re Francesco I; sotto la sua influenza anche il Lauro finì se non proprio col passare tra i francofili, certo per essere considerato tale, e ciò gli venne a costare molto caro più tardi quando, in predicato per la tiara pontificia, la nomina gli fu tenacemente ostacolata dal rappresentante spagnolo. In questo sessennio il giovane calabrese conobbe tra gli altri il poeta Annibal Caro, precettore nella famiglia Gaddi ed anche lui di tendenze francofile. Questa comunanza d’ideali e d’interessi politici mantenne in relazione i due anche dopo la morte del cardinale ed il passaggio del Caro al servizio del Farnese (7). Niccolò Gaddi morì in Firenze il 17 gennaio 1552 ed il Lauro passò a servire il cardinale e principe Francesco de Tournon.
NOTE
(1) La bibliografia di Tropea non è per nulla proporzionata all’importanza della piccola ed antica città. L’opera più recente, ma confusa e con notizie niente affatto controllate, è: Paladini, Michele. Notizie storiche sulla città di Tropea, Catania 1930. Io mi sono servito per pochi accenni, di varie fonti storiche regionali e dei seguenti autori: Alberti, Leandro. Descrittione dell’Italia, Venezia, 1588, fol. 201; Barrio, Gabriele. De antiquitate et situ Calabriae. Francoforte, 1600 (l’edizione con le annotazioni di Tommaso Aceti venne stampata a Roma nel 1737); Sposato, Pasquale. Attività commerciali calabresi in un registro di lettere di Alfonso 1° di Aragona, in «Calabria nobilissima», Cosenza 1954 (VIII) N. 23 e Saggio di ricerche archivistiche per la storia degli Ebrei in Calabria, ivi, 1954 (VIII) fasc. 22-24; sulla scuola medica vedi i vari studi apparsi nel volumetto a cura di Arturo Manna dal titolo: I«Vianeo» e l’antica autoplastica italiana. Atti del convegno storico scientifico di Tropea. 15-16 giugno 1947. Roma, 1950, e quanto io stesso ho scritto a proposito del predetto volume: «I Vianeo di Maida e l’invenzione della plastica». In HISTORICA, Reggio C., 1952 f. 4-5.
(2) Sposato, P. – Cultura e scuole in Taverna, in CALABRIA NOBILISSIMA, 1951.
(3) Tritonio, Ruggerio. Vita Vincentii Laurei. Bononiae, Rossii, 1599 pg. 3. Sulla nobiltà di Tropea: Toraldo, Felice. Il sedile e la nobiltà di Tropea, con genealogie. Pitigliano, 1898. Su Marco Lauro, oltre al Tritonio: Rivelli, A. V. – Memorie storiche della città di Campagna. Vol. 2°, Salerno 1895; Ughelli, Italia sacra (Ed. 1695) VII, 655; Sforza Pallavicino. Istoria del Cons. Tridentino. Roma, 1956. lir. 2/1 cap. 3,17.
(4) Tritonio, op. cit., pg. 85; Sgambatello – Elogium (V. Laurei). In Ughelli (2° ed.) IV, 1093.
(5) In Barrio, Op. cit. pgg. 110.
(6) Tritonio, Op. cit., pg. 7.
(7) Parisi, A. F. – Il cardinal Lauro e i letterati del suo tempo. In AUSONIA, Siena, 1955, fasc. II pag. 44-55.
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LAURO di Antonio Francesco Parisi |
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