La Chiesa Cattedrale di Mondovì
Da medico dei corpi a pastore di anime
di Antonio Francesco Parisi
Di solito i biografi del Lauro tacciono, o accennano appena all’esercizio della medicina da lui praticato per vari anni e che fu la principale occupazione sua negli ultimi tempi della dimora francese, come anche nei primi anni dopo il ritorno in Italia, fino alla nomina a vescovo di Mondovì. Da ciò ne consegue che per i circa quattro anni antecedenti a questa nomina i loro racconti appaiono vuoti di ogni attività. Preoccupati di esaltare il più possibile le già grandi doti morali e religiose del Nostro, il Tritonio e gli altri panegiristi hanno trascurato quasi del tutto ogni notizia delle sue capacità scientifiche, e così oggi qualcuno arriva persino a dubitare della perizia medica e dello stesso esercizio della medicina da parte del calabrese. Eppure è pacifica la sua frequenza delle facoltà mediche e la laurea in medicina conseguita presso l’università patavina; nessuno ha provato che son false le notizie delle cure prestate al cardinale Tournon o al re Antonio di Navarra. Anzi le prime hanno trovato un valido assertore in uno storico francese, il quale non solo conferma le affettuose prestazioni effettuate dal Lauro, ma accenna anche a delle diagnosi che il Nostro stese in quel periodo (1). Si tratta di due documenti autografi scritti per il vescovo di Dax in data 5 e 13 agosto 1558, nei quali egli diagnostica sulle condizioni del suo Patrono sofferente d’una crisi acuta di prostatite (2). Il Lauro gli appresta del cure necessarie, ma per la completa guarigione insiste col cardinale che vada a far la cura delle acque di Lucca; cosa che il porporato farà nella primavera successiva. Un’altra testimonianza ce la fornisce la relazione da lui fatta sul decorso della malattia e sulla successiva morte dello stesso cardinale (3).
Per quanto non chiaramente, anche a proposito del decesso di Antonio di Bourbon, le fonti contemporanee fanno intendere che il Lauro concorse a curare quella ferita alla spalla, che in seguito si rivelò mortale. Dopo la perdita di quel regio patrono, egli si mise al servizio di un altro potentissimo signore, il Duca di Guise. Fu certamente quello un periodo molto agitato, perché Francesco di Guise, prode combattente e capo degli eserciti cattolici, era in quel momento impegnato in sanguinose campagne di guerra. E fu, come il precedente, un servizio di corta durata e tragico, che finì dopo qualche mese colla morte del Duca. Il capo della fazione cattolica fu colpito alla spalla, a tradimento, da un colpo di pistola scaricatagli da un tal Giovanni Poltrot, mentre comandava l’assedio di Orleans, piazzaforte dei Calvinisti. Il Lauro, ed il noto chirurgo Castellon, praticarono al ferito tutto quanto la scienza d’allora consigliava, ma, come già era successo col Navarra, le loro ottimistiche previsioni furono smentite dalla morte, sopraggiunta sei giorni dopo, il 24 febbraio 1563 (4).
Queste due ultime diagnosi non depongono molto a favore della abilità professionale del medico Lauro. Ma la morte dei pazienti neanche in quei tempi intaccava la fama d’un medico, ed il Lauro, col suo intatto prestigio, venne accolto nel numeroso entourage del cardinal legato Ippolito II d’Este. Era quello un non felice momento per il cardinale estense. Il suo splendore s’era offuscato, la parabola della sua fortuna era in netta fase discendente. Si trovava anch’egli accanto al principe di Guise quando questi fu ucciso nei dintorni di Orleans; ed i calvinisti l’avevano minacciato di morte. Il suo morale era a terra, il corpo affranto. La podagra lo affliggeva insopportabilmente (5). Lauro aveva il suo da fare a curarlo e a scrivere le lettere che Ippolito indirizzava al Papa o al cardinale Borromeo, pregando ed insistendo che venisse liberato da un compito, che accolto con tanta gioia ed iniziato con tanto fasto e splendore, ora gli pareva quanto mai doloroso ed ingrato: la Nunziatura in Francia. Poté iniziare il ritorno da Bourges, il 22 aprile 1563. Dolore e pianto – scrive il Pacifici – lo accompagnano nel viaggio. Ma per il giovane segretario-medico il viaggio era pieno di gioia e il suo animo godeva del mirabile panorama offerto dalla alte montagne, là, sulle vette, dove si dissolveva la neve, e giù, dove nei botri scintillanti e nella gioia dei fiori, s’innalzava altissimo l’inno della primavera. Il 7 giugno finalmente giunsero a Roma. Ippolito d’Este finalmente compì le ultime formalità della Nunziatura e lasciò libero il seguito. Il Lauro ebbe un compenso di 3000 scudi. A Roma il Nostro s’incontrò col celebre medico piemontese Giovanni Argenterio, il quale lo invitò a sistemarsi in Piemonte (6). Come sia riuscito a passare al servizio del Duca Emanuele Filiberto neanche il Bonino (7) sa spiegarcelo. Egli aveva conosciuto il sovrano piemontese e la duchessa Margherita, in particolare, alla corte di Francia. Una sorella del suo patrono card. Tournon, Maria di Condy, era l’istitutrice di Carlo Emanuele (8). Ottime referenze, anche da parte dell’influentissimo cardinale Borromeo non gli mancavano; era avvezzo agli usi di corte, a contrarre familiarità coi potenti, ad ottenere rilevanti favori, ed infine era accreditatissimo in materia di medicina. Fu assunto qual medico e, a quanto pare, nel corso di quell’anno dovette più volte intervenire, insieme ad altri valenti colleghi, per sostenere la fibra del Duca messa a repentaglio da attacchi accompagnati da febbri lunghe e violente (9).
Nondimeno in quel periodo egli seppe conquistarsi appieno la fiducia del principe piemontese, il quale fu veramente lieto, quando se ne creò l’occasione, di farlo sedere sul trono episcopale della più popolosa città del ducato.
Vincenzo Lauro venne nominato vescovo di Mondovì con bolla del 20 gennaio 1566 (10). Cinque giorni dopo Emanuele Filiberto decretava: «Essendosi risoluta la Santità di Nostro Signore di conferire il vescovato che teneva mentre fu cardinale nella nostra Città di Mondevy in persona del Monsignor Vincenzo Lauro, et havendo tal elettione fatta da S. S.tà rata et grata come da lui fatta con molto giudicio per le virtuose parti et qualità che concorrono nella persona di detto monsignor Vincenzo, l’habbiamo per le presenti nostre nominato et presentato nominiamo et presentiamo in detto Vescovato del Mondevì, supplicando la sua Beatitudine, che ammettendo detta nostra nominatione et presentatione, sia contenta di conferirlo et prouedere canonicamente detto monsignor Vincenzo Lauro, mandando ch’egli debba goldere de’ frutti, redditi et proventi…» (11). La data di nomina per lungo tempo rimase ignorata, perché era andata smarrita la bolla con cui Michele Ghisleri, da pochi giorni divenuto papa Pio V, aveva destinato l’ex medico e consigliere di Emauele Filiberto a succedergli in quel vescovato da lui retto per circa sei anni. Senza derogare dagli usi del tempo, e nonostante l’invito ducale, Pio V volle riservarsi una pensione di 1000 scudi sulle rendite della chiesa monregalese: la qual somma gli servì in buona parte a remunerare alcune persone, che lo avevano fedelmente servito in quegli anni, e per beneficenza (12).
Non sono mancati scrittori che han fatto risalire la nomina episcopale del Lauro, oltre che agli innegabili meriti della sua persona, alla particolare benevolenza portatagli da Emanuele Filiberto. Sarebbe un grave errore non tener conto che l’assenso del Duca era indispensabile; nei territori del Ducato di Savoia, in forza del breve di Niccolò V del 10 gennaio 1461, confermato da successivi privilegi pontifici, la Santa Sede si era impegnata a non procedere a nomine vescovili senza la preventiva consultazione col Duca. Da ciò ne era derivato che talvolta l’iniziativa veniva presa proprio dal governo di Torino. Ma nel caso di Mondovì e del Lauro è indispensabile conoscere quanto si era trattato nel 1564 fra l’allora vescovo Ghisleri ed il Duca. Il primo, distolto dalle occupazioni romane e perpetuamente lontano dalla diocesi, pareva deciso a rinunciare al vescovato in favore di Filippo Spinola. Il secondo invece spingeva avanti un proprio candidato, il padre Giustiniano, che era il suo confessore. Sapendo di non poter aver la meglio, il Ghisleri soprassedette. E forse da qui ebbe principio il sotterraneo lavorio del Lauro attraverso il Borromeo, il Sirleto ed altri prelati nei confronti del Ghisleri e, direttamente, nei riguardi del Duca. Infatti già in una lettera del 16 novembre 1565 da Carlo Borromeo diretta al Sirleto, appare che il vescovo di Mondovì ha già deciso di rinunciare al vescovato in favore del Nostro, mentre lo stesso Cardinale milanese si ripromette di «far poi più commodamente e con maggior efficacia, quando io sia tornato da Roma l’ufficio con il signor Duca di Savoia» a favore del Lauro. Del Duca sabaudo non abbiamo notizie in merito al vescovo Lauro precedenti al decreto del 25 gennaio 1566. Ma in questo traspare tanta soddisfazione da sembrare che tutto si fosse svolto secondo le sue aspettative. Mi pare pertanto che si possa affermare che entrambi, Papa e Duca, si trovarono d’accordo sullo stesso candidato, del quale né l’uno né l’altro ebbero poi da pentirsi.
Ove si trovasse il nuovo vescovo di Mondovì in quel principio dell’anno 1566 non sappiamo. Senza dubbio era lontano da Mondovì e probabilmente anche da Torino; molte circostanze ci fanno propendere per una dimora in Roma. Proveniente da questa città e dopo essere passato da Milano e Torino per ossequiare il Cardinale Borromeo e i Duchi di Savoia, il novello vescovo fece solenne ingresso in Mondovì il 6 luglio (13).
La capitale della sua diocesi gli preparò una memoranda accoglienza: tra l’altro il Consiglio cittadino deliberò di mandargli incontro un numeroso corteo e di fargli omaggio di «stara 12 di vino tra bianco e nero, due vitelli, una dozzina di capponi, due dozzine di pollastri, di alcuni colombotti, ochetti con qualche frutta ad arbitrio del Consiglio» (14).
Ciò può dimostrare che alla città quella nomina non dispiacque. I monregalesi erano certamente al corrente non solo nella vasta coltura e della bontà d’animo del nostro come pure della onorevole missione che poco tempo prima gli era stata affidata dal Papa, ma anche della amicizia che per lui nutriva Emanuele Filiberto; e forse pensavano che tramite lui avrebbero potuto rendere quel Duca, così esoso e piuttosto maldisposto, più benevolo nei loro confronti.
Il novello Vescovo non fece però in quella sua prima visita una lunga dimora. Avendo ricevuto poche settimane prima l’incarico di Nunzio presso la regina Maria Stuard, aveva fretta di raggiungere la capitale di quel regno; e perciò dopo circa due settimane lasciò Mondovì dirigendosi a Torino (15). Soltanto l’anno successivo verso la metà di luglio, poté far ritorno da quella non molto fortunata missione, e dedicare la sua attività al bene della diocesi (16).
Fu appunto in questo periodo che effettuò la visita apostolica al suo gregge per potersi rendere personalmente conto dello stato della chiesa e delle sue necessità (17).
Le condizioni materiali e spirituali della città e della diocesi di Mondovì erano penose. Le recenti guerre, con le conseguenti devastazioni, occupazioni straniere, passaggi di eserciti, avevano rovinato la campagna e l’economia della città: languivano i commerci e le arti, ed il denaro era piuttosto scarso. Inimicizie private, oltre che differenti idee politiche, avevano contribuito a dividere la città in due fazioni, una filo francese ed un’altra filosabauda, che a seconda degli avvenimenti assumevano il potere, sfogando il proprio odio e la propria vendetta sui partigiani avversari. Così la vita cittadina era continuamente turbata da risse e tumulti sanguinosi, che approfondivano sempre più il solco tra gli stessi monregalesi, seminavano odio e vendetta ed impoverivano maggiormente la città. In più nuove idee religiose venivano ad accrescere lo smarrimento ed il tumulto.
Da decenni abbandonati a se stessi dall’imbelle governo ducale, la città era piombata in piena anarchia, che la passeggera dominazione francese aveva contribuito ad accrescere. Ora da qualche anno Mondovì veniva facendo una nuova esperienza: quella di un principe valoroso in guerra, avido di potere, ma anche bisognoso di denaro.
Gli storici aulici hanno esaltato oltre misura l’opera, in realtà notevole, di Emanuele Filiberto. Ma essa fu ben lontana dall’essere priva di difetti: tra l’altro neanche lui riuscì a rendere tranquilla e serena la vita della più popolosa città del suo Ducato. La pace di Cateau-Cambresis aveva inflitto un gravissimo colpo alla fazione filo-francese, il contegno fermo del Duca e la sua fama avevano contribuito ad affievolire certamente la velleità, non a spegnerle del tutto. D’altra parte il modo come trattò la città gravandola di tributi, conculcando gli statuti ed i privilegi cittadini, mancando alle promesse ed ingannandola, non era il metodo migliore per restaurare la concordia. Il Berra, ad esempio, che si sforza di dimostrare l’efficacia della opera di pacificazione perseguita dal principe Sabaudo, non riesce a minimizzare il malcontento che serpeggiava nella cittadina a causa dei continui aumenti di tributi ed anche della maniera come questi venivano imposti. I monregalesi non potevano neanche esprimergli le loro proteste: ben di rado i loro ambasciatori erano ricevuti ed ascoltati, sicché in città si era venuta formando la convinzione che dal principe non fossero visti di buon occhio (18).
Tutto ciò da una parte gettava nella costernazione coloro che avevano salutato il dominio sabaudo con gioia; e dall’altra contribuiva ad ingrossare ed a rianimare i filofrancesi con conseguenze prevedibili; perciò non mancavano scaramucce e violenze di faziosi, che se pur non sfociavano in vera e propria rivolta turbavano non di meno, in maniera profonda e grave, la vita cittadina (19).
Emanuele Filiberto in realtà poco si fidava del lealismo di questi suoi sudditi: tuttavia non mostrava di preoccuparsi molto. Tenendo sempre presente l’utilità di procedere per gradi nell’opera di consolidamento della monarchia, egli cercava, al momento, di trarre il miglior partito da quegli stessi torbidi. Innanzi tutto reputando la città molto ricca, la gravava oltre misura di balzelli. In secondo luogo al fine di legarsi un po’ di più la città di Torino, che gli stava maggiormente a cuore, per essere il centro del Ducato, e perché mostrava nei suoi confronti maggiore generosità, nel 1566 diede un colpo terribile all’orgoglioso cittadino monregalese, sopprimendo quella illustre università a beneficio della capitale.
Se così dolenti erano le note sulla vita politico-sociale non meno penose quelle riguardanti lo stato religioso. L’impotenza dei governi, la guerra e la dominazione straniera avevano di molto attenuato la disciplina del clero, avevano rilassato i costumi e favorito l’introduzione di idee nuove e contrastanti. Il clero ed i monaci davano essi stessi esempi riprovevoli, e perciò non potevano rimproverare ad altri quello che loro stessi facevano, senza scrupoli, e non curavano l’istruzione religiosa delle anime loro affidate.
Dalle valli erano discesi i predicatori valdesi ed al seguito degli eserciti francesi erano penetrati non pochi ugonotti: gli uni colla parola persuasiva e gli altri coll’esempio, avevano fatto non pochi proseliti. L’eresia non solo dilagava nel monregalese ma in tutto il Piemonte e frequenti erano risse con i cattolici.
I Re di Francia avevano da parte loro emesso bandi contro la diffusione delle idee eretiche, ma erano rimasti lettera morta, tanto che pastori venuti d’oltrealpe tenevano pubbliche riunioni anche se non all’aperto. I vescovi precedenti avevano fatto ben poco. S’era messo d’impegno il Ghisleri, ma sia perché i mezzi adoperati non erano idonei, sia perché si lasciò attirare molto presto dalle preoccupazioni della Curia Romana, dalla sua attività non sortì l’effetto desiderato (20).
Il suo vescovo suffraganeo Gerolamo Ferragatta, pur qualificato «instancabile» per attività, era forse troppo ossequiente alle direttive del Borromeo per poter riuscire efficace nell’azione di controriforma. Mancava poi di energia e in qualche caso arretrò dinnanzi a sfacciate situazioni scandalose (21).
Non era quella la via, non era quello il modo migliore per combattere l’eresia. L’influenza del Borromeo, benefica in quanto riverberava di luce beatifica l’apostolato del clero, ed in questo il suo esempio era un potente stimolo per chi ne veniva a contatto, poteva anche non riuscire efficace quando spingeva un vescovo ad una presa di posizione non consona alla situazione politica; come era stato il caso del Ghisleri, il quale in breve era venuto ai ferri corti con Emanuele Filiberto; ed allo stesso modo le sue direttive potevano dimostrarsi inapplicabili o inadeguate, come era avvenuto all’esecutore vescovo Ferragatta, in un ambiente diverso dal Milanese e senza il sostegno di una personalità tanto autorevole qual’era quella del prelato milanese.
Nella breve dimora di Mondovì e nella più travagliata visita apostolica attraverso le campagne, Lauro poté rendersi conto di tutto lo enorme lavoro che aveva da compiere.
E sappiamo che si mise all’opera con zelo e costanza tali che da un lato si meritò la riconoscenza dei monregalesi e dall’altro minacce così gravi da parte dei protestanti che dovette farsi scortare nelle visite diocesane.
Per prima cosa instaurò un clima di maggiore disciplina nel clero, in modo che esso fosse d’esempio e non desse luogo a spiacevoli lamentele. Damiano Grasso ci descrive qualche episodio di questa restaurazione di ordine del Nostro (22). Poi promosse il trasferimento dei monaci certosini dal monastero di S. Maria di Casotto in una località della diocesi, a Consovero, e fece loro ottenere la relativa bolla del Papa in data 21 febbraio 1568 sicuro che la loro venuta non sarebbe stata senza evidenti benefici (23).
Certamente non gli spiacque la bolla papale del 1. febbraio 1569 con la quale a tutti i monaci si ordinava una più severa ed estesa clausura. Egli era pienamente consapevole che gliene sarebbero derivati fastidi, perché ben conosceva che l’opinione pubblica ed il pensiero stesso dei monaci non erano affatto favorevoli ad ulteriori restrizioni; ma d’altro canto quell’ordine veniva a completare l’opera sua nel campo della disciplinazione del clero. Per tale motivo dopo una breve, ma legittima esitazione, la pubblicò. Non mancò tuttavia di senso pratico ed opportunamente più volte si adoperò affinché la clausura non riuscisse troppo penosa; ed altra volta cercò di favorire la domanda diretta dal Comune al Papa per ottenere la revocazione della stretta clausura imposta con quella disposizione anche a carico delle monache di S. Chiara, la cui regola non prescriveva clausura (24).
Ma perché la campagna religiosa avesse veramente successo e fosse condotta in profondità egli fece venire ottimi predicatori e curò che l’educazione e l’istruzione dei sacerdoti della diocesi fossero adeguate. A tal fine promosse la fondazione del seminario vescovile, cui diede un regolamento che rimase in vigore per quasi due secoli e che servì di guida alla compilazione di molti altri. Esso venne dato alle stampe il 20 maggio 1650 col titolo: Regole da osservarsi dai chierici, e Ministri del venerabile seminario della città di Mondovì, stampate d’ordine di Mons. Ill.mo e Reve.mo Maurizio Solaro. Ma il titolo originale era invece: Ordini, Statuti, e Costituzioni sopra il governo del seminario de’ Chierici Jntituito nella città di Mondovì da Monsignor Vincentio Lauro, vescovo di detta città, e conte… in essecutione delli Decreti del Concilio Tridentino, et d’altri Sacri Canoni.
Non pensiamo però che la compilazione di tali regole sia stata opera del Nostro. Crediamo invece che il Lauro avesse formulato le direttive, i principi che le dovessero ispirare, mentre la stesura l’abbia affidata a qualche segretario. Egli le rivide e rifece qualche articolo, ma non avrebbe avuto il tempo di dedicarsi alla intera loro stesura. Lo stile, del resto, non è quello suo; lo esclude anche la forma in terza persona usata per parlare del Lauro nel corso degli articoli, e la dichiarazione del preambolo: Per lo che Monsignor Vincenzo Lauro Vescovo del Mondovì, e Conte etc. non volendo mancare in ogni modo possibile alla sua Chiesa, ha istituito il Seminario… nella quale non è affatto precisato che sia stato pure lui l’autore dei suddetti Ordini. Dobbiamo infatti osservare ch’egli non era solito parlare di se in terza persona. Lo faceva soltanto nell’esercizio di Nunzio Apostolico, in quanto, in quel caso, egli non si sentiva il Nunzio Lauro, bensì il Nunzio rappresentante la Sua Beatitudine, ben distinto dalla persona di Mons. Lauro. Pertanto ci sembra opportuno attribuire al termine «Ordini» il significato più ampio di: direttive, indirizzo. Del resto anche se egli indicò solo le direttive generali e curò l’adeguamento dei singoli articoli alle norme dei Concili, i successori potevano ben a ragione considerarlo anche autore del testo.
I suoi principi regolatori sono meritevoli d’un sommario esame, perché se appaiono ancora formulati sotto l’influenza della pedagogia medioevale, nondimeno per aver voluto il Lauro riconoscere il valore dell’«Isperienza» acquistano un valore che oltrepassa l’età della loro formulazione e da quel punto di vista appaiono validi. Essi pongono tutti gli studenti su un piede di parità materiale e morale, concedendo loro gli stessi diritti ed obbligandoli agli stessi doveri: uguale trattamento per tutti, uguali incarichi per tutti. Nessuno può ricevere il vitto a parte, né dormire fuori dal seminario. Però accanto a questa parità materiale viene ammesso il principio della capacità individuale, ciascuno deve essere considerato ed istruito a seconda della propria intelligenza. «Li chierici saranno ordinati in classi secondo la capacità loro. Saranno tirati d’una in altra classe, non havendosi riguardo alla età, ma solo all’ingegno et alla intelligenza…».
Alla lezione di teologia parteciperanno solo quelli che saranno capaci di tal lettione. Altre norme prevedono il principio del rispetto della personalità: Il maestro di grammatica li istruirà affinché siano riverenti verso ogni persona… e fra loro stessi non si diano del tu, ma sempre del voi; non si chiamino con soprannomi… Dopo le debite genuflessioni al Santissimo Sacramento, et riverenza a Monsignor Ill.mo nel partir l’un l’altro si facciano tra di loro un poco d’inclinattione. Naturalmente tutto deve essere intrapreso volontariamente: i candidati chierici dovranno essere interrogati però prima da’ deputati, separatamente, et fuori della presenza de’ Padri loro, se volentieri entrano nel Seminario, se hanno animo d’applicarsi alli Studi. Le Regole poi mettono in chiara luce che l’insegnamento della virtù deve essere principalmente basato sugli esempi che il Rettore, i maestri e tutto il personale dovevano essi stessi porre in atto e che il vescovo Lauro era il primo a mostrare ed a pretendere. Perciò i maestri, e a maggior ragione il Rettore, dovevano essere di moralità ineccepibile, «ben istruiti» nelle rispettive materie d’insegnamento, e, all’assunzione, fare la professione di fede. Un altro paragrafo ci mostra quanto il Lauro fosse previggente: considerando per esperienza che non tutto può essere previsto e che le esigenze possono variare coi tempi, il Regolamento stabiliva una «Congregazione di Deputati sopra il Seminario» col compito di armonizzare le norme con le esigenze che a loro sarebbe parso opportuno tutelare (25).
Accanto alla Scuola, egli poi creava un altro potente mezzo d’integrazione dell’insegnamento e di lotta contro l’ignoranza: una Biblioteca che dotava, già nel 1573, di un primo nucleo di opere utili agli studenti di filosofia e, soprattutto, di teologia per completare la loro cultura (26).
Tutto ciò per lui non era ancora sufficiente; la lunga esperienza, i contatti ch’egli aveva avuto coi riformati in Francia, la sua sensibilità per i bisogni del popolo dal quale proveniva (si ricordi anche questo particolare), gli rendevano manifesto che l’esempio della vita virtuosa, che l’istruzione, le prediche e le stesse punizioni, per riuscire davvero efficaci, dovevano essere integrate da un vivo interessamento per i bisogni spirituali, ma anche materiali dei fedeli. Ed è pure in questo che il Lauro dimostra la sua larghezza di vedute, la sua modernità di idee, quali invano ricercheremmo in più celebrati prelati del suo tempo. Egli spendeva somme enormi in elemosine, si avvicinava alla gente e ascoltava la loro opinione ed i loro bisogni. Sapeva perciò quant’era difficile procurarsi danaro e quanto gravosa l’usura. Ed è lui che promuove la fondazione a Cuneo ed a Mondovì di due Monti di Pietà, per il secondo dei quali elargisce la somma di ben 3000 ducati (il doppio, quasi, di quanto elargisce Carlo Emanuele); è lui che chiama a predicare il padre gesuita Giacomo Croce, affinché coll’efficacia della sua eloquenza esorti i ricchi possidenti ad aiutare il sorgere di quell’istituzione (27).
Così dopo aver instaurato la disciplina nei ranghi del suo clero, ed apprestati i mezzi idonei, iniziò la campagna controriformistica nella sua diocesi. Circa la quale il Tritonio scrive che riuscì oltremodo fruttuosa. Noi l’esamineremo in altro capitolo comprensivo di quanto il Lauro fece e promosse per la Controriforma in tutto il Piemonte.
Nonostante che negli anni successivi al 1570 avesse dovuto stabilire la sua residenza a Torino, frequenti sempre furono le visite effettuate nella sua diocesi e sempre dimostrò la sua benevolenza per Mondovì. Lo troviamo nella sede del suo vescovato durante l’aprile del 1571: il 26 di quel mese inaugura la chiesa di S. Giuseppe nel piano di Carassone, destinata ai PP. Cappuccini (28). La nomina a Nunzio Apostolico in Polonia lo toglie da Mondovì in un momento spinoso. Nel 1573, il duca Emanuele Filiberto per far meglio sentire la sua autorità ai Monregalesi e, nello stesso tempo, salvaguardare il suo dominio dai loro umori, e per efficacemente fortificare i suoi stati contro le invasioni esterne, decise di costruire in quella città una cittadella. Il progetto, dovuto all’architetto militare Vitelli, prevedeva la distruzione delle antiche e venerate chiese di S. Domenico, di S. Donato e di numerosi altri edifici. Amore delle libertà cittadine, desiderio di evitar danni, zelo religioso si fusero nell’animo degli abitanti e unirono i cittadini e clero nella preghiera al Duca di recedere dal suo proposito. Anche il vescovo fu invitato ad elevare la sua voce ed intercedere a favore della città. Il Lauro era personalmente persuaso che sarebbe stato ben difficile convincere il Duca a rinunziare alla cittadella: sapeva, e forse ne giustificava l’idea, quanto il Duca aveva dichiarato in proposito, che, cioè «la fortezza facci bisogno a la conservazione di tutta la provincia et a mantenere quei popoli e la debita obedienza»; tuttavia cercò ugualmente di far qualche passo in favore dei cittadini ed ebbe dal principe qualche promessa (29).
Non mi sembra però che il Lauro si fidasse molto dell’assicurazione del Duca, se si affrettò a scriverne a Roma prima suggerendo che, in caso si potesse evitare la costruzione, fosse autorizzato a trasportare la cattedrale nella chiesa dei francescani che era vicinissima al palazzo vescovile al palazzo vescovile; e poi avvertendo Roma che verso il 10 giugno erano state iniziate le demolizioni (30). La lontananza gli impedì in seguito di regolare meglio la faccenda e forse di far evitare qualche danno, ma i suoi valenti collaboratori non si può dire siano rimasti inattivi.
Tornato dalla Polonia, fu trattenuto a Roma ed assegnato alla Congregazione per la revisione del Calendario; poté tornare quindi a Mondovì e riprendere la sua normale attività solo nella seconda metà del 1578; fra le altre cose lo vediamo inaugurare il 12 marzo dell’anno seguente, l’altare maggiore della nuova chiesa di S. Donato (31).
Tuttavia nel corso del 1578 i suoi doveri di membro della Commissione di riforma del Calendario lo richiamano a Roma. Qui si trovava nel 1580 all’annuncio della morte di Emanuele Filiberto. Rinviato in Piemonte colla carica di Nunzio può visitare Mondovì solo verso la fine dell’anno, saltuariamente nel corso del 1581 e, sempre più di rado, in seguito (32).
Per questo motivo, premuroso del bene della religione nella sua diocesi che a causa degli incarichi attribuitigli poteva così poco curare, procurò di far ordinare una visita apostolica dal Vescovo Girolamo Scarampi, stabilita con breve del 27 maggio 1582, e compiuta alla fine del 1582 e 1583.
Dopo la nomina a Cardinale, la sua più notevole dimora in Mondovì fu nel 1584 quando vi rimase per quasi tutta la primavera; vi ritornò anche per la visita ufficiale effettuata alla città dai duchi Carlo Emanuele e Caterina d’Austria, ma non consta che vi si trattenesse per molti giorni.
In quel tempo cominciò certamente a convincersi che gli incarichi e l’età non gli consentivano di rimanere ancora a capo di quel vescovato senza detrimento per le condizioni religiose dei suoi diocesani. Prese la decisione, con molto dolore, verso la fine del 1587. In data 29 novembre di quell’anno, inviò una commovente lettera all’amministrazione di Mondovì per comunicare le sue dimissioni ed il nome del nuovo pastore, da lui designato nella persona di Felice Bertodano. Se rinunciò alla carica non trascurò di favorire, per quanto era possibile i monregalesi e non rinunciò ad interessarsi ancora di quella sua diocesi.
Lo vediamo infatti perorare presso la corte ducale, anche negli anni seguenti, pratiche e favori per gente di Mondovì.
Il data 12 settembre 1587, di certo a preghiera della città, indirizza a Carlo Emanuele la seguente raccomandazione:
«Serenissimo Signore.
Piacque a V. Alt,za ne la promotion mia al cardinalato farmi accennare d’haver caro, che io ritenessi il nome del Mondovì; il che havendo fatto per ubbidirla, mi sento et come Vescovo et come Cardinale tanto più obbligato d’haver in particolar raccomandazione la medesima città.
Hora nel caso de la rottura de l’alveo di Beinetta persuadendomi che quelli cittadini per la loro natia divotione, fede et osservanza verso di V. Alt.za non habbino mai avuta intentione di cometter cosa, che le fosse dispiaciuta, ho preso ardire con questa mia di supplicar l’Altezza Vostra a riguardarli con l’occhio della solita clemenza…
Di Roma a lì 12 settembre 1587» (33).
L’anno dopo s’interessa col Duca, di far ottenere una pensione al canonico d. Giovan Battista Ferreri, che, fra le altre cose, lo aveva seguito in Polonia (34); altra intercessione a favore di monrealesi constatiamo: da una sua lettera diretta al Duca in data 13 luglio 1951, nella quale promette il suo aiuto al dottor Francesco Vivaldo; e da altra lettera del 12 giugno 1592, colla quale compie un intervento tardivo, ma affettuoso, inteso a favorire nella nomina a vescovo di Fossano un suo vecchio collaboratore di Mondovì, il canonico Bartolomeo Ferrero (35). Ma oltre a questi interessamenti a favore di privati, la repentina morte di mons. Felice Bertodano, avvenuta prima ancora che prendesse possesso della diocesi, mette in chiara luce come il Lauro, con la rinuncia, non avesse deposto ogni idea di mantenersi quale guida spirituale del vescovato monregalese. Infatti nel 1587 egli continua a reggere la diocesi «per modo di provisione», è lui a far nominar vescovo il suo collaboratore Giovanni Antonio Castrucci, come risulta da un ordinato Capitolare del 28 novembre 1589 e da alcune lettere (36); ed è ancora lui, già vescovo il Castrucci, a disporre di prebende e d’incarichi nella diocesi, come si può rilevare dalla lettera che scrive al duca sabaudo il 3 luglio 1591 (37).
Ciò però lo fa sempre meno intensamente, sia per la ormai tardissima età, sia per le numerose e gravose incombenze, che gli vengono affidate dalla Santa Sede.
Egli rimane però tenacemente attaccato a quella graziosa città di cui continua a portare il nome e che, con uguale affetto lo ama. Alla notizia della sua morte quel Consiglio maggiore, per ordinato dell’11 gennaio 1593, prescrisse il lutto cittadino e solenni onoranze.
Francesco Vivalda, nobile ed illustre monregalese, da lui beneficiato anni prima, pronunciò una commossa orazione funebre (38).
NOTE
1) Mich. FRANCOIS – Le cardinal Francois de Tournon, homme d’état, diplomate Mécène et humaniste, Paris, 1951, pgg. 362, 420, 467.
2) Arch. Min. Affaires Etrang. – Corrisp. Polit. : Venise, Vol. II, fol. 184 e 231.
3) FRANCOIS, o. cit., pg. 420.
4) CATHERINE de MEDICIS – Lettres, publiées par H. De La Ferrière. Tomo I (1533-1563), Paris, 1880 (Coll. Doc. Inéd. Hist. France), pg 512: Lettera di Caterina al cardinal di Guise del 19 febbraio 1563, e lettera di Robertet al duca di Nemours del 20 febbraio seguente.
5) Vincenzo PACIFICI – Ippolito II d’Este cardinale di Ferrara. Tivoli, 1923, pgg 319, 321 e 584.
6) Gianni Giacomo BONINO – Biografia medica piemontese. Vol. I, Torino 1824, pgg 268-270; Giorgio PALEARIO – Osservazioni sui primi libri di Cornelio Tacito. Milano, 1612: Osservazione 563, pg. 374.
7) Idem.
8) Ferdinando GAROTTO – La giovinezza di Carlo Emanuele I di Savoia nella poesia e negli altri documenti letterati del tempo (Estratto dal «Giornale Linguistico» anno VI fascicolo I-IV) Genova 1889.
9) In Arch. Stato Torino non vi sono documenti al riguardo: ma vedi: P. EGIDI, Emanuele Filiberto, Torino, 1928, pg. 275. L’Egidi si servì di documenti dell’Arch. Gen. di Simancas.
10) Arch. Vat.: Bollario Pio V ad annum.
11) Arch. Stato Torino: Vesc. Mondovì, M. I, f. 2.
12) Tra i remunerati del Papa da ricordare Giovanni Vasco, che Pio V condusse a Roma, conferendogli il titolo di cappellano privato e concedendogli una pensione di 50 scudi su quella dovutagli dal Lauro per la concessione del Vescovato. Cfr. Bolla 30 gennaio 1566. Circa tale data il Grassi suppone un errore dello scrivano nel senso che devesi anticipare al 20 gennaio: Gioacchino GRASSI – Memorie istoriche della chiesa vescovile di Monteregale in Piemonte… Torino, 1789, pgg. 96-125 del tomo I.
13) Lettera del Lauro al card. Alessandrino del 21 agosto 1566: in J.H. POLLEN – Papal negotiations with Mary… Edimbourgh, 1901, pg. 266.
14) Ord. Del Cons. Di Mondovì del 5 luglio 1566, in Arch. Civico; Tommaso CANAVESE – Memoriale istorico della città di Mondovì. Ivi, 1851, pg. 125.
15) Ord. Del Cons. di Mondovì: 5 agosto 1566.
16) Il Lauro scrisse una lettera al card. Borromeo, da Mondovì il 24 luglio 1567, comunicandogli d’essere tornato, Bibl. Ambrosiana, cod. F. 84, inf. 346.
17) Gir. SCARAMPI – Visita apostolica del 1582, in Grassi, op. cit., I, pgg. 97; CANAVESE, op. cit., pg. 126; TRITONIO, op. cit., pg. 31.
18) Luigi BERRA – Emanuele Filiberto e la città di Mondovì. In: Lo stato Sabaudo al tempo di Emanuele Filiberto, studi raccolte da C. PATRUCCO vol. III, Torino, 1922, Bibl. Soc. Stor. Subalp. CIX.
19) Ne accennano un po’ tutti gli storici, sebbene con la preoccupazione di sminuire la gravità.
20) Maria F. MELLANO – La controriforma nella Diocesi di Mondovì (1560-1602). Torino, 1955, pgg. 60-71.
21) Idem, pgg- 73-106.
22) Cronaca, ad ann. 1568. In: Miscellanea di Storia italiana, 12, pg. 392.
23) GRASSI, op. cit., Vol. II, documento CXLVI.
24) Ord. Consil. del 26 luglio e del 4 settembre 1750.
25) Le Regole sono state ripubblicate dal Grassi nel II vol. della opera citata; al n. 1573.
26) A. ROVEA – Gli incunaboli della biblioteca del Seminario di Mondovì. In: Bollettino della Società per gli Studi Storici, Archeologici… Cuneo, 1953, n. 32.
27) Rosa Maria BORSARELLI – Il cardinale del Mondovì e i Monti di Pietà della sua diocesi. In: Bollettino della Società per gli Studi Storici Archeologici… Cuneo, 1957 (febbraio) pgg. 54-68
28) Lapide d’inaugurazione in: GRASSI, op. cit., pg. 98.
29) Arch. Vat. «Savoia» armadio I n. 4 c. 136: Lettera del Lauro al Cardinal Gallio, da Torino il 3 giugno 1573: et perciò che nel fare la detta cittadella s’occuperanno due chiese principalissime et delle più grandi at più belle di questo paese, cioè il Duomo con la canonica et la chiesa con il convento di S. Domenico, io mi sono sforzato di fare ogni caldo officio per divertir lo animo di S.A. da tale fabrica…; s’è ben lasciata parsuader di non occupare a ruinare chiesa et luogo sacro veruno senza licenza di N. S., et mi ha detto volerne scrivere al suo ambasciatore per ottenere la gratia di Sua Beatitudine.
30) BERRA – op. cit., pg. 147.
31) SCARAMPI – op. cit.; F.A. DELLA CHIESA – S.R.E. Cardinalium, archiepiscoporum, episcoporum, et abbatum Pedemontanae regionis chronologica historia. Torino, 1645, pg. 99.
32) MELLANO – op. cit. e Tritonio, op. cit.
33) Arch. Stato Torino (= AST) «Cardinali».
34) Lettera al Duca, da Roma, il 18 ott. 1588. In AST «Cardinali».
35) AST. Id.
36) GRASSI – op. cit., pg. 130; AST. «Cardinali» Lauro al Duca, da Roma il 7 aprile 1590: Dovendo io haver la mira principale e la gloria di Dio e al servizio di V.A., l’ho veramente avuta ne l’impetrare la chiesa di Mondovì ne la persona di Mons. Castrucci…; e Lauro alla Duchessa, da Roma, 1. giugno 1590.
37) AST. «Cardinali».
38) «Ordinati» ad annum et diem; GRASSI, op. cit., pg. 107. L’orazione funebre del Vivaldo, a quanto si legge negli autori monregalesi, venne stampata a spese del comune in Mondovì nel 1592; qualcuno scrive, però, 1595. L’una o l’altra edizione sono ugualmente introvabili.
VINCENZO
LAURO di Antonio Francesco Parisi |
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