Emanuele Filiberto di Savoia
La prima nunziatura in Piemonte
di Antonio Francesco Parisi
Arturo Pascal in suo denso e ben documentato opuscoletto fa una analisi molto profonda e particolareggiata della società e della Chiesa piemontese nel XVI secolo. (1) Egli mette in rilievo che le guerre continue, cui il Piemonte andò soggetto fino alla metà del secolo, distrussero il commercio e l’industria ed impoverirono le campagne, mentre la dominazione straniera fiaccò gli animi nell’ozio e nella crapula. Le guerre, le dominazioni straniere, le pesti e le devastazioni non valsero a commuovere profondamente gli animi degli abitanti e perciò la società piemontese del tempo ci appare spensierata e mondana, dedita ai bagordi ed alle passioni più ignominiose. La principale occupazione della gente è il ballo e, per organizzarne il più possibile, tutte le occasioni e circostanze son buone, son buoni tutti i locali; perfino le chiese, i conventi femminili ed i cimiteri. L’ideale di questa società è il lusso sfrenato, lo sfarzo. Per vestire bene, le famiglie vanno in rovina; per una veste di velluto o di broccato, per una cintura d’oro o d’argento le donne si gettano in braccio al primo che gliela offre, mentre nei conviti i piatti più raffinati si susseguono con incredibile abbondanza e pazzesco dispendio. Tutti poi sono dediti al gioco: alle carte, ai dadi, ai tarocchi, ai birilli, al pallone, ecc Giochi leciti ed illeciti avevano luogo dappertutto ed in ogni ora: persino nelle chiese durante le sacre funzioni, nei cimieri e nei conventi. Ed anche al gioco i piemontesi si vendevano le anime e i corpi. Quelli che non avevano i mezzi per sfogare la loro mal trattenuta passione per il lusso, per la crapula ed il gioco, covavano il desiderio fino a tanto che non si presentasse anche a loro un’occasione propizia durante le feste popolari o in banchetti familiari, oppure cercava di procurarsi denaro avviandosi o avviando alla prostituzione la moglie e le figlie. Per organizzare passatempi, burle, conviti e danze si costituivano delle vere e proprie corporazioni, dette abazie degli stolti o dei folli, che eleggevano un proprio abbà o Re delle feste e dei conviti, e queste singolari abazie, tipico prodotto dei costumi del tempo, ebbero una larga diffusione e contribuirono non poco ad aggravare la situazione morale, a paganizzare le feste religiose, a contaminare il sacro, facendosi promotori di feste e spettacoli d’ogni genere, ma, abbastanza sovente, audaci ed immorali. Il clero non è da meno. Il quadro delle parrocchie e dei parroci nel 1565, quale appare dalle pazienti ricerche di mons. M. Grosso e di F.M. Mellano è desolante. (2) Vi appaiono parroci che ricusano di risiedere nelle parrocchie, permutano chiese e benefici a loro piacimento, rinunziano agli stessi quando non tornano loro comodi. Parecchi sono litigiosi, offensivi, libidinosi dediti al gioco e del tutto immemori del loro dovere e della loro dignità. Non sono rari i casi di sacerdoti che trattano alla stessa stregua e colla stessa leggerezza affari mondani e religiosi, come non manca quello che, tutto preso dai piaceri carnali non arrossisce di convivere pubblicamente con donne da tutti riconosciuti disoneste, ed allevare i figli che ne nascono. (2) Anche per questo motivo innumerevoli bastardi, popolavano ogni città e ogni borgo. Il loro numero crebbe a tal punto che le amministrazioni comunali, impotenti a provvedere alla loro sorte, mossero lagnanze al clero ottenendo la scomunica contro coloro che li abbandonavano. Capitava non di rado di vedere qualche ecclesiastico entrar di notte nelle bettole, sovente in allegre compagnie di donnine, unirsi alle brigate per cantare serenate e canzoni, più o meno scurrili, e con quelle allegre donnine darsi a pazze danze. Né mancò un sacerdote, e propriamente quello di Barge che, nel 1570, giunse perfino a battere moneta falsa. Se la gran massa del clero non era di questa pasta, vi erano però moltissimi sacerdoti che per pigrizia o ignoranza tralasciavano i doveri del loro ufficio.
I due autori summenzionati narrano che si verificavano molti casi di parroci che non si recavano neanche una volta all’anno in borgate affidate alla loro cura, e che numerosi infermi morivano senza sacramenti. Gli edifici ecclesiastici abbandonati a sé stessi, senza sorveglianza e senza quelle minime opere indispensabili a contenere i danni più gravi delle intemperie e del tempo, e quelli degli uomini e degli animali, si presentavano sovente con le porte sgangherate, con le finestre rotte e senza vetri, con il pavimento sconquassato e con l’incredibile sporcizia giacente perfino sopra l’altare principale.
Poco solerti verso la loro chiesa, la maggior parte degli ecclesiastici era ancor meno interessata all’istruzione religiosa dei propri parrocchiani. Questo era su per giù il desolante quadro morale degli stati sabaudi quando al Lauro venne affidata la nunziatura. Ma quando nel 1584 giungerà il Visitatore apostolico, mons. Angelo Peruzzi, anche se molti abusi dureranno, lo stato morale del clero, ed in parte quello della popolazione, sarà molto mutato. Questo accadde soprattutto grazie all’opera del Nostro. Indubbiamente non erano mancati provvedimenti sia da parte del potere civile che di quello religioso, intesi a combattere la rilassatezza della vita morale e spirituale del popolo e del clero, ma o difettavano di quel carattere radicale indispensabile per poter agire in profondità ed in estensione o non si aveva sufficiente cura di applicarli integralmente. Certo anche mons. Bachod, che fu il predecessore del Lauro ed il primo Nunzio alla corte Sabaudia, ed anche il Card. Della Rovere, che era a capo dell’arcidiocesi e che da vari storici piemontesi viene esaltato oltre misura senza però provare il fondamento delle loro asserzioni, operarono per la moralizzazione. Ma da come M. Grosso e M.F. Mellano descrivono lo stato dell’arcidiocesi nel 1565, i risultati, almeno dei primi anni, furono molto scarsi. Il Bachod era troppo succube delle rigide idee sulla riforma disciplinare propugnate da Carlo Borromeo; ma siccome non possedeva tutte quelle positive qualità che adornavano la potente personalità dell’arcivescovo milanese, e poiché lo Stato in cui svolgeva la propria missione presentava aspetti ben differenti da quello di Milano, i suoi sforzi non poterono fruttare convenientemente.
Talvolta anche il Lauro e la sua opera sono stati presentati come sotto la diretta influenza del card. Borromeo. Pur senza soffermarci a sottolineare l’importanza di Milano quale centro propulsore della vita cattolica del periodo post-tridentino e l’efficacia esemplificativa ed orientativa per tutta la Chiesa Cattolica, e quindi anche per il Lauro, dell’attività e della figura del Card. Borromeo, ci sembra che quella asserzione debba essere convenientemente provata. (3) Certo che indirettamente le idee e gli esempi del Borromeo erano tenuti presenti anche dal Lauro, e ci sarebbe da stupire se non lo avesse fatto, dal momento che, come scrive il Pastor, la cosa più gradita al Pontefice del tempo sarebbe stata se i principi della Chiesa avessero preso a loro modello il cardinale ambrosiano. (4) Ma vanamente noi ci affaticheremmo a rintracciare nel Lauro qualche riflesso di quella estrema rigidezza ed intransigenza borromeiana. Lauro aveva ben chiari nella mente le possibilità ed i limiti del suo potere. Conosceva in profondità le caratteristiche, le condizioni civili, morali e religiose dei sudditi sabaudi; conosceva bene il principe e la Corte con cui aveva da fare; un principe davvero autoritario ed interessato al suo potere molto di più, ed in maniera differente da come poteva esserlo un funzionario spagnolo più o meno scrupoloso.
Perciò si comportava ed adattava i pressanti ordini della Curia papale secondo il suo senso diplomatico gli consigliava; agiva sempre con tatto, mai si impuntava per qualche cosa. (5) Del resto quasi a dare testimonianza della indipendenza di azione del Lauro di fronte al grande Borromeo, non mancò fra di loro una controversia. Era accaduto che sotto la spinta accentratrice del Duca Sabaudo i vescovi di Vercelli e di Asti, suffraganei di Milano, per le cause di appellazione non si rivolgevano più al Presule milanese, bensì al Nunzio di Torino. Il cardinale Borromeo, leso nei suoi diritti, il 27 giugno 1571 protestò con il cardinale Alciati lamentando l’abuso ed il gran pericolo della giuridittione di questa chiesa Metropolitana che verrebbe a restare spogliata della sua superiorità sopra queste città tanto principali.
Da parte sua il Lauro più realisticamente trovava ingiustificato che diocesi appartenenti allo stato Sabaudo dovessero sottostare ad una esterna giurisdizione, e faceva presente a Roma che era lo stesso Emanuele Filiberto a volere che i propri sudditi non fossero sottoposti a giurisdizione extra-piemontese: «… nelle sentenze dei Vescovi, che hanno i loro Metropolitani sotto questo Dominio, io non soglio ammettere niuna appellatione eccetto dopo la cognizione de i sodetti Metropolitani, ma nelle cause de gli altri Prelati, che sono soggetti a gli Arcivescovi fuori dello stato di Sua Altezza io non ho potuto rifiutarle, ogni volta che dalli sudditi di Sua Altezza s’è avuto ricorso a me; imperò che l’Altezza Sua insin dal principio, che venni qua, mi fece instanza, che per commodità de’ suoi sudditi et per altri degni rispetti, non permettessi, che ricorrendo essi al Nuntio, fossero mandati a i Metropolitani fuori di queste Provincie. Hora al avvenire non mancherò d’eseguire l’ordine di V. S. Ill.ma et massimamente che in simile cause». (6)
Vincenzo Lauro ebbe notizia della nomina a Nunzio nel dicembre del 1567. Il Tritonio scrive che da qualche tempo Pio V aveva in animo di designarlo qual Nunzio in Francia, ma che essendo venuta a vacare la Nunziatura di Torino per la morte di mons. Francesco Bachod, stimò più conveniente di mandarlo al posto del defunto, in modo che potesse servire gli interessi universali della Chiesa e, nello stesso tempo, potesse servire gli interessi universali della Chiesa e, nello stesso tempo, potesse curare quelli della propria diocesi. (7) Sono stati vani i miei sforzi per tentar di documentarmi circa l’intenzione del Papa di far concedere al vescovo di Mondovì la Nunziatura in Francia, ma credo che l’asserzione del Tritonio non risponda completamente al vero. Troppo importante era quella carica per la S. Sede. Certo è che il 16 gennaio 1565 Vincenzo Lauro giungeva a Torino in qualità di Nunzio. Egli conosceva bene le difficoltà che lo aspettavano e appena ricevuta la nomina, le aveva enunciate alla S. Sede. (8) Il suo programma era: il miglioramento dei rapporti fra il Duca e il Pontefice, la difesa ad oltranza del cattolicesimo e la lotta a fondo contro l’eresia. Non correvano ottimi rapporti fra Emanuele Filiberto e Papa Ghisleri. Durante il tempo che questi era stato a capo della diocesi di Mondovì, per la sua intransigente attività antiriformista modellata sullo zelo del Borromeo, aveva suscitato prima le larvate opposizioni e poi la rottura dei rapporti con il principe sabaudo. (9) Colla sua elevazione al soglio pontificio tanto lui quanto il Duca furono solerti nel mostrare di voler superare lo stato di tensione che vi era fra loro. Ed il Lauro, che era stimato da entrambi, non solo riuscì magnificamente nel consolidare la distensione, ma creò fra di essi i migliori rapporti. Non era facile ubbidire in pieno ai comandi del Papa senza suscitare, talvolta, allarme e reazione nella Corte locale. Ma il Lauro seppe convenientemente comportarsi, giostrare fra gli interessi sovente opposti, servire la causa della Chiesa e nello stesso tempo persuadere il principe piemontese che agendo in quella determinata maniera avrebbe potuto perseguire anche i suoi scopi, smussare gli angoli e presentare sempre sotto una luce favorevole ogni proposta, con soddisfazione dell’uno e dell’altro. Non ostante che calunniose voci di una certa sua debolezza di fronte ad Emanuele Filiberto fossero state sussurrate al Papa da autorevoli personaggi, Pio V, finché fu in vita, non lesinò la sua fiducia al vescovo di Mondovì. Ed in quanto al Duca sabaudo tutti gli storici parlano della reciproca simpatia, quand’anche non mettano in risalto l’enorme ascendente che il Nunzio aveva su di Lui. Possiamo ben credere alla testimonianza del Tritonio, secondo cui Emanuele Filiberto non nascondeva al Lauro nulla di quanto avesse in mente. Egli pure racconta che un giorno il Nunzio, giacente a letto ammalato di malaria, lo mandò dal Duca per sbrigare alcune pratiche. E mentre si discuteva Emanuele Filiberto più di una volta confessò che si sarebbe ritenuto il più fortunato dei principi se avesse potuto usufruire di un ministro tanto operoso ed utile quanto il vescovo di Mondovì in servizio per la Sede Apostolica. (10) Anche il Lauro ricambiava tanta stima e simpatia. Non poche volte nelle sue relazioni a Roma giustificò l’operato poco conformista del Duca, correndo anche il rischio di passare per debole, più volte ne difese gli interessi, dipingendolo come un campione del cattolicesimo ed appoggiando le sue non rade richieste di aiuti monetari. Allorché il Sabaudo decise – e non sappiamo quanto su questa decisione pesò il parere del Nostro – di partecipare alla guerra contro i Turchi, il Lauro scrisse a Roma che nessuno più di quel principe era adatto all’altissimo ufficio del comando supremo di mare e di terra, sia per i legami di sangue con le maggiori famiglie reali sia per «essere stato allevato et nodrito a la guera sotto il grande imperatore che habbia avuto la cristianità, dopo Carlo Magno. » (11)
Nella difesa del cristianesimo e lotta contro l’eresia, il Vescovo di Mondovì non seppe rinunciare del tutto alle contemporanee forme di violenza, che caratterizzano quei tempi; tuttavia cercò di ridurne le applicazioni al minor numero di casi, e spesso, anche in episodi in cui altri gli consigliava intransigenza, egli si mostrò guidato da sentimenti di tolleranza ed umanità. Senza dubbio ci appare fornito di una visione più ampia delle cose nel comprendere che non la violenza, ma la forza della persuasione e l’esempio di una vita morale rappresentavano i migliori mezzi di lotta.
Questo, secondo lui, era il «Modo di prohibbire che le heresie non multiplichino in Piemonte»:
«Il Modo d’impedire che non multiplichi la setta de gli Ugonotti in queste bande, ma che ella vadi con l’aiuto divino estirpandosi, si riduce in tre capi.
L’uno saria di mettere in Turino un fedele et sofficiente Inquisitore, che fosse uomo grave, destro et prudente, il quale non havendo altra cura potria senza dubbio veruno obviare a molti disordini.
Il secondo havere qualche numero determinato di Predicatori dotti et di buona vita, che fossero mandati hor in uno et hor in un altro luogo a predicare la parola di Dio.
Et il terzo il fare insegnare per tutte le parochie la dottrina christiana, la quale essendo grandemente necessaria per la instruttione de la fanciullezza, doveria essere una sola in tutte queste provincie, et approvata con l’autorità di N. S.re affine che ella fosse senza contentione o emulatione alcuna parimenti accettata da tutte queste chiese: altrimenti potendosi, come s’è fatto per l’addietro, hora aumentare, hora diminuire, et hora mutare l’ordine, oltre che viene a generare qualche confusione, dà anco occasione a qualche persona infetta di potervi spargere del veleno: ma venendo da Roma con l’auttorità de la S.ta Sede non sarà lecito né di rifiutarla, né di tentarvi mutatione alcuna: et senza dubio apporteria confusione agli heretici il vedere ne la dottrina la unione delle cose et delle parole et perciò che l’opera è picciola, si potria fare in pochi giorni in latino et italiano et in francese.
Et perciocché hoggi non vi è infettione di setta alcuna, che, in queste bande et forse nel rimanente d’Italia vada più serpendo de la calviniana overo Ugonotta, è di mestieri che la dottrina contempli le cose principali contro la prefata heresia; come sarebbe la dichiarazione de la chiesa cattolica con li suoi segni; dell’eucharistia che sia sacrifitio incruento et propitiatorio; del Purgatorio; de la intercessione et adoratione delli Santi; de la veneratione delle immagini; de la forza delli precetti ecclesiastici, de l’auttorità delli misteri de la chiesa; et in somma che fosse un brevissimo epitome del Catechismo Romano, il quale sotto quattro capi, cioè delli XII articoli, delli VII sacramenti, delli X precetti et delli VII petitioni dell’Oratione Domenicale, con molta brevità, abbracciasse le sodettte cose, le quali tutte sono necessarie con ciò sia che li ministri ugonotti habbiano la mira principalmente ne li loro catechismi di corrompere gli animi de’ putti et delli idioti con la dottrina al tutto contraria a queste verità; sopra di che non s’ha da dubitare che in breve tempo non si facesse, con l’aiuto divino in queste bande et nelle provincie vicine, gran progresso ne la S.ta Religione, a gloria di Dio et con sommo contento di S. B.ne sotto il cui Sant.mo et prudentiss.mo governo si può qui sperare prospero successo et massime che il Principe essendo di buona et cattolica intentione desidera grandemente la sicurezza et la salute dei suoi popoli…». (12)
Anche il suo segretario Tritonio attesta che egli non dubitava menomamente di poter, con discorsi persuasivi, indurre quelle popolazioni [di Val d’Angrogna] a mutare le loro credenze. (13)
Perciò egli considerò di fondamentale importanza la conquista del ceto culturale. Sono parecchie le sue lettere nelle quali, ricordando i decreti del Concilio Tridentino o la bolla di Pio IV, ribadisce l’obbligo di far «fare la professione di fede alli maestri di scuola». E per essere ben sicuro che i prelati piemontesi non lo ingannino in merito richiede da loro «un’attestazione pubblica per mano di notaro». Ed insieme coi maestri, egli cerca di conquistare i dotti e tutti quelli che hanno o potranno avere un ascendente culturale; come quel tal «Pellegrino» di Boves che poi si fece prete, come pure alcuni giovani «bene introdotti nelle lettere»: quel Giovan Battista di Ceva, quel Mario Francese ed infine lo stesso nipote di un martire valdese, il giovane Carlo Pasquale, i quali furono da lui ricercati, convertiti, assistiti e riavviati agli studi.
Con ugual cura egli vigila sui commercianti di libri e perseguita quelli che importano e rivendono pubblicazioni protestanti. E’ lui che fa ricercare ed incarcerare un libraio torinese, la cui attività anticattolica, esagerata oltremisura dal card. Crivelli per mantenere in cattiva luce davanti al Papa tanto il Lauro quanto Emanuele Filiberto, gli aveva procurato aspri rimbrotti. Si trattava del libraio Farina nella cui bottega venne trovata «una grammatica et dialettica di Melantone», e che, a quanto scrive il Nunzio, importava libri eretici ed era in trattative per «mettere in questa stampa gli stampatori di Geneva>>. E’ ancora il Lauro che fa incarcerare il capitano Mogliacca di Cuneo, colpevole di aver diffuso libri di Ochino e di altri riformati, ed Andrea Leber, trovato in possesso di vari libri protestanti; di questi il primo sappiamo che abiurò, mentre il secondo, almeno in un primo tempo, all’abiura preferì il carcere. (14) Tutto questo zelo verso le persone colte ed i librai si spiega col concetto che il Nunzio aveva di molti protestanti: li quali, quantunque bene spesso siano ignorantissimi, nondimeno, come leggono una volta il catechismo di Calvino, diventano incontinente predicatori et basta loro biasimare et calunniare li cattolici et la verità. (15)
Egli, inoltre, non si stanca di premere su Emanuele Filiberto, sia direttamente sia tramite l’arcivescovo di Torino, affinché prenda posizione risoluta di fronte all’invadenza protestante in Torino ed in particolare affinché si decida ad agire contro le tre esponenti della nobiltà riformata: la contessa Giacomina d’Entremont, la signora di Montafià e la contessa di Tenda. A noi interessa poco la domanda che si pongono M. Grosso e F.M. Mellano se fosse possibile al Duca esiliare donne appartenenti a famiglie tanto potenti; ci preme di più mettere in evidenza il fatto che il Nunzio indirizzava la sua campagna non contro individui insignificanti, che potevano essere, e molto facilmente erano in errore per ignoranza o per altre circostanze che toccavano la loro buona fede, ma rivolgeva di preferenza i suoi strali contro persone ben qualificate, certamente conscie di quello che facevano e le cui idee ed il cui esempio potevano avere largo seguito in molti ambienti locali. Se le tre menzionate nobildonne non ripagarono il Lauro dei suoi sforzi, non così accadde con Giulia Piccameglia, contessa di Boglio, la cui conversione fu opera sua personale. (16)
Per lo stesso motivo egli si mostrò inflessibile e severo con tutti i religiosi passati alla Riforma. Usò i maggiori rigori nei riguardi di Dalmazzo, un monaco dell’abbazia di Borgo S. Dalmazzo, il quale citato a comparire preferì darsi alla fuga: così pure fece con il prete Baldassarre Piccardo, che dopo di essere passato all’eresia aveva pure sposato una monaca, e con lo «sfratato» Giovan Tommaso Sirletto, forse calabrese, sul quale a quanto pare pendevano altre più gravi accuse e che perciò fu rilasciato al S. Uffizio di Roma. (17)
Per la predicazione e l’evangelizzazione, confermando ancora una volta la sua piena fiducia nei seguaci di S. Ignazio di Loyola, di nuovo rivolge a Roma la sua richiesta di padri Gesuiti e nello stesso tempo fa presente il pericolo che minaccia il Piemonte per la vicinanza della Francia. (18) Riguardo l’Inquisizione egli richiede che fra Dionigi Cislago, inquisitore generale del Piemonte, fissi in Torino la propria residenza per potervi svolgere una proficua attività.
«Il piano proposto dal Lauro per svellere l’eresia era impeccabile nei suoi tre punti, ciò non ostante non funzionò simultaneamente come sillogismo. Risultati soddisfacenti e palesi si avranno soltanto parecchi anni dopo». Così commentano M. Grosso e F.M. Mellano questa prima nunziatura del Lauro, e mi pare che pretendano troppo per un’opera condotta in profondità ed anche in vastità. Senza poi tener conto che non tutti i mezzi richiesti gli vennero forniti e che neppure poté applicare in pieno i suoi metodi. Loro stessi poco prima avevano notato che da un certo punto di vista la situazione piemontese era nel 1569 divenuta più preoccupante di quanto non fosse stata negli anni precendenti, perché allora nessuno si curava di combattere questo stato di cose mentre dopo la ripresa del Concilio Tridentino la Chiesa aveva ripreso l’iniziativa contro le sette protestanti suscitando da parte di queste una reazione violenta ed anche vigorosa. (19)
Il 1570 fu per il Nunzio un anno molto laborioso: negoziati contro la contessa di Tenda, le altre nobildonne e loro familiari, negoziati contro il Sirletto; pratiche per far catturare dal Duca un giovane soldato milanese, Geronimo Donati, accusato di aver tirato un’archibugiata contro il Borromeo, sfruttamento di un complotto ordito da Provenzali nel Nizzardo per spingere il Duca su posizioni ancor più favorevoli alla S. Sede; procedimento contro quattro Ugonotti principali di Cuneo; scagionare sé stesso e il Duca circa il trattato riguardante la libertà di traffico concluso dal Sabaudo coi Barnesi e Ginevrini (trattato che suscitò un grande scandalo nella Corte pontificia) e calmare il Papa; accompagnare a Nizza il Duca e nello stesso tempo trarne vantaggio convertendo la Contessa di Boglio, conversione definita «buona e santa opera, perché con l’esempio… de la prefata signora abiurarono di poi in quella provincia spontaneamente ben 325 persone in diverse terre, oltrache il conte poi dette il braccio favorevolissimo a questo Re.mo P.re Inquisitore che era con meco sopra tutto lo stato suo di Tenda, dove abiurarono molti…». (20) Nell’ottobre, poi, egli poteva notare con soddisfazione il successo che aveva avuto la celebrazione del Giubileo svoltosi a Torino «con molta frequenza et divotione». Ma nel frattempo la situazione si aggravava nelle Valli Valdesi, a causa dell’eccessivo e maldestro zelo del governatore d’Angrogna. Questi era stato incaricato di arrestare un frate agostiniano apostata, che il Lauro chiama «mastro Agostino di Turino», agendo però con tatto e prudenza. Invece mostrò tanta precipitazione ed arroganza da offendere profondamente la suscettibilità dei locali. La loro viva reazione indusse a sospendere l’ordine di arresto. Il 1571 è l’anno del grande trionfo del cattolicesimo sui Turchi nella battaglia di Lepanto; ma nulla di particolare contrassegna l’attività del Lauro. Il 1572 si apre col suo proposito di accompagnare nuovamente il Duca nel Nizzardo «per continuare la conversione di quella provincia», mentre continuano le repressioni contro numerosi eretici nel pinerolese.
Al primo di maggio intanto moriva Pio V ed Emanuele Filiberto pensò di approfittare della sede vacante per emettere un bando contro il foro ecclesiastico.
Il Lauro era evidentemente distratto dalla lotta contro i Valdesi e forse anche stornato, nella sua attenzione, dalle promesse di Emanuele Filiberto di ostacolare ed impedire l’ingresso in Piemonte agli «eretici fuggitivi di Francia». Egli appare tutto preso nell’organizzare un’impresa contro Ginevra «seminario non pure de l’heresie ma etiandio de le seditioni di Francia». Egli pensa che si dovrebbe spingere in quest’opera il re di Francia, oltre che il Duca di Savoia. (21) E perciò non cura di protestare presso la Corte torinese contro quel provvedimento giudiziario che tanto scalpore stava cagionando a Roma. Il nuovo Papa se n’era terribilmente risentito ed il card. Borromeo si fece premura di avvertire il Nunzio. La lettera di risposta, che questi scrive, è un documento che val la pena di conoscere per il tono sereno e nobile che la pervade. «… Io ho inteso dal R.mo Padre Achille, già Rettore di questo Collegio, quanto piacque a V.S. Ill.ma avisarlo circa la poca satisfatione che N. S.re mostra haver de la persona mia in queste bande; ciò è che havendo io il mio Vescovato sotto il Dominio di S. Alt.a, non usi la diligenza che si conviene, si nelle cose del S.to Officio et si ne la defentione, de la giurisditione ecclesiastica per non alterar l’animo del Prencipe, et de suoi Ministri, et il suddetto Padre mi soggionse che la S.V. Ill.ma per l’affettione che si degnava portarmi, desiderava che io ne fossi avvertito per potervi rimediar all’avvenire.
Hor io confesso ingenuamente a V.S. Ill.ma che Pio V di santa memoria, per non haver con questo Prencipe la intelligenza che bisognava, voleva nelle esecuzioni del S.to Offitio et massime nelle catture che si procedesse senza saputa et voler di S. A.; et io nel principio che venni qua, non sapendo questa intentione de la Santità Sua et giudicando che era impossibile nonché difficile far cosa di buono senza la buona gratia del Principe, ne ragionai con alcuno dei Padri Inquisitori dolendomi che procedesse per quella via; il che non essendosi trovato a proposito da quella S.ta Memoria, per qualche diffidenza che mostrava haver con S.a Alt.a, me ne riprese et se ne dolse anche con alcuni signori. Con tutto ciò, vedendo io che non si poteva eseguir cosa di rilievo, mi sforzai con ogni estrema diligenza et desterità levar prima qualche ruggine che era negli animi del Pontefice et del Prencipe, et poi procurar l’esecutione del S.to Offitio di consentimento et satisfattione di S. Alt.a.
Et in questo (dicolo coram Domino) che fuori de la opinione di ciascuno, anzi con meraviglia dei principali, l’Altlt.a S.a procedette con tanto zelo et fede, che con la abjuratione d’alcuni delle prime case et di un grandissimo numero degli altri, tutte quelle Provincie sono per gratia di Dio ridotte a buon termine; né vi manca altro d’importanza eccetto la Valle di Angrogna et li Baliaggi infetti intorno a Geneva, li quali insieme con la detta Valle in breve si ridurriano a la osservanza de la vera religione, ogni volta che si potesse ricoperar Geneva, asilo di tutti i tristi; dopo la qual ricoperatione Sua Alt.a havendo a temere poco de li Cantoni Svizzeri heretici et massime di quello di Berna, che ha la detta Città in protezione, potrà, anzi si mostra prontissimo di voler accettar l’esercito del S.to Officio con tutta la auttorità et osservanza che si conviene, né in questo c’è mancamento di buona voluntà ma è sola necessità del sito; la quale è di così grande importanza che costringe eziandio il Re Cattolico, Prencipe potentissimo, a comportar molte cose in Fiandra et ne la Contea di Borgogna, che non fa negli stati di Spagna, Milano et di Napoli.
Quanto alla giurisdizione ecclesiastica si sa quello che si fa nelli stati degli altri Prencipi cattolici et se bene in queste bande non si possa per ancora ottener tutto quello, che si doveria, si va tuttavia guadagnando di bene in meglio con il renderne capace l’Alt.a Sua; ancorché i ministri, mostrandosi amorevoli de lor Principe, procureno con ogni sforzo mantener et accrescer la giurisdittione temporale. Et in questi dui capi V.S. Ill.ma resti servita d’informarsi da li S.ri Cardinali che possono saperlo, che Pio V di santa memoria, il cui santo zelo non era però mediocre, due anni avanti ala sua morte non pur restava sodisfatto che le cose di qua, ma ancor come pratico del Paese si meravigliava, che le cose procedessero così bene, et di già era entrato in tanta confidenza con l’Alt.a Sua che non credo io che la Santità Sua tenesse maggior conto di niun altro Principe de la Christanità…». (22)
La lettera segue affermando di aver sempre fatto il possibile per ottenere la benevolenza del Duca, dal quale è stato sempre difeso da ogni calunnia e che sempre si è mostrato pronto alla devozione ed all’ubbidienza della Chiesa, a tal punto da aver fatto arrestare, fuori dai suoi stati, l’attentatore del Borromeo.
Quando seppe della collera vaticana, il Duca annullò l’editto; ma il Lauro, sul cui conto qualcuno s’era fatto premura di riferire al Papa la solita calunnia della sua eccessiva devozione al Savoia, ne subì le conseguenze e fu trasferito in Polonia.
Il Pascal, pur sotto forma di un esame generale dell’opera dei Nunzi alla corte di Torino, esprime dei particolari giudizi piuttosto negativi che interessano l’attività del Nostro. Lo accusa, ad esempio, di raccogliere da ogni parte voci allarmanti per trasmetterle a Roma, assai spesso esagerandole o interpretandole malevolmente; forse per gettare un po’ d’ombra sulla figura morale, insinua che allorquando cercava di scagionare il Duca dalle accuse di tiepidezza nell’estirpare le sette eretiche, la sua difesa era «quasi sempre interessata». (23
Ora mi sembra che il fatto di raccogliere tutte le voci che potevano interessare il Vaticano, fosse un compito inerente al suo ufficio e che qualsiasi altro scrupoloso diplomatico non si sarebbe comportato diversamente per agire in favore della potenza che rappresentava. Il Lauro – bisogna tenerlo presente – non è uno storico che deve raccogliere e vagliare i fatti e scartare tutte le dicerie; è un diplomatico che ha il dovere di riferire tutto quanto succede e si dice, relativamente a ciò che può interessare il proprio Stato. Che poi qualche notizia (perché si tratta di pochi casi) fosse esagerata non mi pare che ci sia molto da stupirsi: per poterne dare tempestiva comunicazione a Roma non poteva aspettare dei giorni per controllarne l’autenticità; se mai nella lettera successiva rettificava l’informazione, operazione da lui sempre fatta coscienziosamente. E’ quindi fuor di luogo lasciar supporre che il Lauro interpretasse malevolmente le voci che correvano. Infine, in relazione all’ultima asserzione del Pascal, c’è da notare che se anche, nello scagionare il Duca, il Lauro qualche volta pensò ai suoi interessi, ciò non diminuisce il suo merito – implicitamente affermato dallo stesso Pascal – che altre e non poche volte egli lo difese disinteressatamente.
Altre accuse dello stesso valente autore sono: E’ lui che sprona il Duca a profittare del passaggio di truppe pontificie per sterminare i valdesi; è lui che reclama quotidianamente dal Duca o dai suoi ministri provvedimenti severi contro gli eretici che si annidano alla Corte; che intreccia tresche col re di Francia per lo sterminio degli Ugonotti del Delfinato; che insomma si mostra sempre vigile e pronto a patrocinare con ogni mezzo le giuste o ingiuste pretese di Roma. (24)
Senza considerare che quest’ultima affermazione suona più a lode che non a biasimo per un ministro cattolico mandato a Torino proprio col compito di patrocinare gli interessi della S. Sede, vediamo come queste accuse, che sottintendono un Lauro molto più deciso e spietato di quello che in realtà non fosse, vadano rivedute. Il documento citato dal Pascal per accollare al Nostro l’offerta di truppe destinate allo sterminio dei Valdesi, è la lettera del 27 aprile 1569 diretta al Cardinale Alessandrino. Ma in questa lettera il Lauro parla di un avviso del Castrocaro, secondo cui i Valdesi di val d’Angrogna stavano per mettersi in campo contro le truppe Piemontesi assedianti Exilles, e delle intenzioni di Emanuele Filiberto di punire l’eventuale ribellione: «l’Altezza sua si risolveria con lecita cagione moverli guerra con animo di castigarli et sterminarli a fatto et in questo desiderio desidereria sommamente che N. S.re si degnasse… aiutarlo con le sue genti. » (25) E neanche vedo perché debba stupire il fatto che chiedesse provvedimenti contro i protestanti: era suo dovere. Che li chiedesse contro quelli che si annidano alla Corte, cioè contro l’élite, mi sembra che – sempre in rapporto ai tempi – sia un segno di progresso e di maggiore umanità. Significa che egli sapeva vedere, molto di più dei contemporanei, i quali agivano e lo spingevano ad agire indiscriminatamente in una bestiale caccia all’uomo. Le stesse due lettere menzionate da Pascal mostrano a sufficienza l’umanità del Nunzio: mentre da Roma si ritiene troppo debole il suo contegno e lo si incita a maggiore rigidezza, egli risponde sembrargli sufficiente «il castigo di pochi» e mostra ogni riguardo per un giovane francese, già incarcerato per eresia, giustificando il buon trattamento «che sin dalla fanciullezza fu allevato nella setta». (26)
In quanto, poi, ai suoi maneggi colla Corte francese sarebbe stato doveroso ed imparziale ricordare, come fanno fede le lettere dirette al Card. Gallio del 5 e 21 novembre e 3 dicembre 1572, che essi erano stati originati proprio da un’azione violenta dei Riformati, i quali avevano assalito la chiesa di Cahors per effettuare un furto sacrilego. Nella prima lettera il Nunzio appare molto sdegnato contro «li delinquenti, per farli castigar severamente»; ma già nella seconda, scritta dopo essere venuto in possesso di più precisi ragguagli, vediamo che egli stesso esorta all’indulgenza, facendo presente che il danno è piccolo ed aggiungendo «non par conveniente mostrarsi difficile in ammettere simile scuse». (27)
E con quest’esortazione sua all’indulgenza, chiudiamo questo capitolo che tratta di un uomo moderato e prudente nel pieno di un doloroso conflitto, caratterizzato sovente, e da entrambe le parti, da mancanze di moderazione, da eccesso di zelo e da incontrollata passionalità.
NOTE
1) Arturo PASCAL – La società e la Chiesa in Piemonte nel sec. XVI considerate in se stesse e nei rapporti colla Riforma. Pinerolo, 1912: in particolare interessano le prime 18 pagine. Per le situazioni particolari dei diversi luoghi vedi gli studi raccolti da Carlo PATRUCCO: LO STATO SABAUDO AL TEMPO DI EMANUELE FILIBERTO. Torino, 1928 (BSSS. NICVII-CVIII-CIX).
2) M. GROSSO – M. F. FELLANO – La controriforma nella arcidiocesi di Torino (1558-1610). C. Vaticano, 1957. La parte che interessa questo capitolo è contenuta nel vol. I da pag. 131.
3) Sull’importanza di Milano e del Borromeo vedi la rassegna delle corrrenti in F. CHABOD – Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V. In. Annuario del R. Ist. Stor. Età Mod. e Contemp., Voll. II e III 1936-1937.
4) Ludovico von PASTOR – Storia dei papi dalla fine del Medio Evo. Ed. Ital., Vol. 8° pg. 99.
5) Sull’intransigenza, anche in un campo non pertinente la morale, vedi: Paolo PRODI – S. Carlo Borromeo e le trattative tra Gregorio XIII e Filippo II sulla giurisdizione ecclesiastica. In «Rivista di Storia della Chiesa in Italia». XI (1957) pgg. 195 sgg.
6) Arch. Segr. Vat., Nunz. Sav., vol I, f. 88 r; GROSSO-MELLANI, op. cit., pg.124.
7) TRITONIO, op. cit., pgg. 31-32.
8) CRAMER, op. cit., Vol. II, pg. 220.
9) Il Tritonio da la colpa ai Ministri sabaudi (Op. cit., pg. 32); ma la moderna storiografia ha ristabilito la verità dei fatti. Vedi ad es. quanto scrive il RUFFINI nel vol. EMANUELE FILIBERTO edito nel IV centenario. Torino S. Lattes, 1928, pgg 395 e segg.
10) TRITONIO, Op. cit., pg 34.
11) Lettera del 31 agosto 1570 in P. EGIDI – Emanuele Filiberto. Torino, 1928, vol. II, pgg. 236.
12) Arch. Segr. Vat., Nunz. Sav., vol. I, f. 26: Lettera al card. Alessandrino; cfr. Arturo PASCAL – La lotta contro la Riforma in Piemonte al tempo di Emanuele Filiberto, studiata nelle relazioni diplomatiche tra la Corte Sabauda e la Santa Sede (1959-1580) in BULLETIN DE LA SOCIETE D’HISTOIRE VAUDOISE N. 53 (1929) sgg., doc. 56.
13) TRITONIO, Op. cit., pgg 35-36.
14) G. JALLA – Storia della Riforma in Piemonte fino alla morte di Emanuele Filiberto (1517-1580). Firenze 1914, pgg. 282; GROSSO-MELLANO, Op. cit., pgg. 118-120.
15) PASCAL – La lotta… cit., Doc. 47.
16) GROSSO-MELLANO, op. cit., pgg. 109-111; il JALLA (op. cit., pg 220) ingiustificatamente non crede sincera la conversione.
17) Esempi in JALLA (op. cit., pgg 282-291), in PASCAL, La lotta… Docc. LXVIII-LXIX ecc.
18) Arch. Segr. Vat., Nunz. Sav., vol. I, f. 33; PASCAL, Op. Cit., Doc. LVII.
19) GROSSO-MELLANO, Op. cit., pgg. 116 e 113.
20) PASCAL, Op. cit., Docc. LXV-XC.
21) Lettere al card. Di Como del 26 sett., 8 ott. E 23 dic. 1572. Arch. Segr. Vat., Nunz. Sav., voll. III, f. 12-18, vol. IV, f. 35-70; PASCAL, Op. Cit., Docc. XCVII, XCIX, CVI.
22) Lettera del 9 ott. 1572. Arch. Segr. Vat., Nunz. Sav. vol. III, f. 13v; PASCAL, Op. Cit., Doc. C; GROSSO-MELLANO, Op. Cit., pgg. 127-128.
VINCENZO
LAURO di Antonio Francesco Parisi |
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