Carlo Emanuele di Savoia
Il "tutore di Carlo Emanuele" (1580 - 1585)
La nomina a Cardinale
di Antonio Francesco Parisi
Dopo breve malattia, il 30 Agosto 1580 Emanuele Filiberto lasciò questo mondo. Delle prime lettere che il figlio Carlo Emanuele scrisse a vari personaggi per annunciare la morte del padre e nello stesso tempo la propria successione sul trono, ma venne indirizzata al vescovo di Mondovì.
In questi giorni Vincenzo lauro si trovava a Roma occupato colle sedute della Congregazione per la Correzione del Calendario. Probabilmente era stato già informato che Emanuele Filiberto era ammalato e che il Nunzio Santa Croce aveva pure suggerito alla Segreteria Apostolica di inviarlo urgentemente a Torino per assistere e curare il malato come confidente et che ha qualche pratica della natura et complession del Duca; et ciò non senza qualche motteggiamento fattomene dal s. Prencipe [C. Emanuele] (1).
A volta di corriere egli si affrettò ad esprimere le proprie sincere condoglianze, a ringraziare il Principe di essersi co’ la sua lettera degnata condolersi con lui e assicurare al giovane i suoi servigi e le sue preghiere per una maggiore felicità (2).
Entrambe le lettere sono un indizio dell’amorevole considerazione che il giovane Carlo Emanuele nutriva verso l’anziano prelato; una considerazione che s’era costantemente alimentata dell’alta stima che il padre e che la maggior parte dei cortigiani per molti anni avevano sempre manifestato al Lauro, e dell’autorità che il Lauro stesso ormai godeva in quella corte. Egli non era solo un vescovo del Ducato, ma era anche uno dei prelati «nostri amorevoli» - per ripetere una frase del principe – ed era stato consigliere autorevolissimo ed ascoltatissimo di Emanuele Filiberto.
Le missioni diplomatiche all’estero e l’incarico a Roma lo avevano ancor più innalzato agli occhi del giovane e della corte di Torino.
La morte di Emanuele Filiberto aveva profondamente addolorato anche la Corte romana. E non solo per la perdita in sé, ma per le pericolose conseguenze che si temevano a causa della giovinezza ed inesperienza del figlio, per qualche pretesa alla successione del cugino Giacomo di Savoia, duca di Nemours, e per il disaccordo dei ministri tendenti ognuno a prendere la mano al nuovo duca ed a sopravanzare ciascuno gli altri. Il Nunzio a Torino rincarava la dose e dipingeva a tinte fosche l’avvenire: Hora a considerar lo stato di questo figliolo [Carlo Emanuele] et le consequenze che tien dietro si mi ariccian li capelli; et s’il Signor Iddio non provede con la bontà sua temo di qualche gran rovina, prima egli per sicurezza della persona sua non vede de che si possa fidare. Il Duca di Nemours che pretende la successione è un cervello gagliardo. Questi ministri sono tra di loro come cani e gatti e tutti interessati et di poca bona intentione verso il servitio dil lor Prencipe. La casa di Raconis pretende di governare essendo Monsignor di Cavour il primogenito della Casa, il qual col padre et altri de’ suoi non so come ben sentiant de fide… Monsignor de Leynì che è la miglior testa che sia in questa Corte et quello ch’ha sempre havuto la somma dei negotii et sa le cose passate et parte di pensieri del Duca, non par confidente del Principe per opera di Cavour. Il Principe non è in stato di sapersi risolvere da sé e questi le faranno persona addosso (3).
Un eventuale periodo di disordine nel Piemonte non era affatto gradito alla diplomazia pontificia. Quel piccolo stato, sotto Emanuele Filiberto divenuto un elemento d’ordine, continuava ad essere la «porta d’Italia>> che era conveniente stesse chiusa agli eserciti stranieri e soprattutto agli sforzi che le idee riformiste di Calvino e di Valdo facevano per guadagnar terreno in Italia.
Se il Duca era inesperto ed indeciso bisognava mettergli al fianco un uomo di grande esperienza e di savie decisioni; se il governo non funzionava per mancanza di autorità ed ispirava poca fiducia, bisognava inviare una persona di sicura autorità e di piena fiducia della S. Sede. Non c’era da scervellarsi per trovare un uomo con quei requisiti. Il Papa l’aveva a portata di mano, a Roma. E non ci pensò due volte. L’11 settembre, il card. Gallio comunicava al Nunzio Santa Croce, che Gregorio XIII aveva stabilito d’inviare subito a Torino il vescovo Lauro col compito esplicito di salvaguardare gli interessi della Chiesa e con quello non dichiarato (salvo che nelle istruzioni) di guidare per quanto possibile Carlo Emanuele: Per questo rispetto non volendo N. S.re mancare di tutti gli ufficij, che convengono a la persona sua come a Padre universale, et tanto amorevole del Duca morto, ha risoluto di mandar costà Mons.re del Mondevì, che sapemo essere di molta confidenza et authorità in quella Corte acciò, dopo gli ufficij di condoglianze, et consolazione, tenga la mano per quanto potrà in nome di S. B.ne che le cose in questo principio si incamminino a la strada di un buon et prudente governo, così per quanto tocca a la Religione come quanto al resto… So che V. S. fra tanto starà con gli occhi aperti, per far anch’essa bisognando tutti gli officii opportuni secondo le occasioni che vedrà, et Mons.re Mondevì non mancherà di consultare, et aiutare quanto potrà per quel tempo che starà costì, quale non so dir per hora sa habbia a essere o lungo o curto… (4).
Ma il Lauro non partì entro i sei giorni previsti dal cardinal Gallio, e nel frattempo Gregorio XIII tornò a prendere in esame le cose del Piemonte e giudicò poco opportuno mantenere due suoi rappresentanti a Torino; perciò, accedendo alla proposta del Santa Croce, decise che quest’ultimo dovesse lasciare l’incarico di Nunzio al vescovo del Mondovì. Ne diede comunicazione lo stesso Pontefice a Carlo Emanuele con un breve del 15 settembre, nel quale dopo aver espresso il proprio cordoglio per la morte di Emanuele Filiberto esprimeva la speranza che l’erede succedesse non solo nel potere ma anche nelle virtù paterne e nelle sollecitudini verso la fede cattolica. «Quo autem – continuava il Papa – facilius possis in iis, quae recta esse intelliges, uti nostra auctoritate atque opera, mittemus ad nobilitatem tuam Venerabilem fr. Em Vincentium ecclesiae Montis Regalis Episcopum nostrum et Sedis Apostolicae Nuncium ordinarium, virum prestanti doctrina prudentia, integritate, pietate praeditum, nobisque his nominibus carissimus te omnibus in rebus iam illi fidem tributurum quam Nuncio nostro tribui convenit, quamque nobis ipsis tribueres» (5).
Alquanto più esplicito sul compito del nuovo Nunzio si mostra in una lettera dello stesso giorno il Segretario di Stato dando le opportune disposizioni al Santa Croce: «Nostro Signore havendo considerato quanto servitio et beneficio possi esser a le cose pubbliche costì la persona del vescovo del Mondevì per la confidenza che tiene di lunga mano con Sua Altezza et con li Ministri et Consiglieri sui per la prattica che ha havuto di codesta Corte et per esser Prelato dello Stato, ha risoluto che resti costì Nuntio Ordinario. Perciò dice che presentato che V. S. l’habbi a S. Altezza e datoli le informationi che le bisogneranno…, debba ella ritirarsi a la sua Badia» (6).
Il 19 settembre il vescovo monregalese era ancora a Roma in attesa di completare i preparativi per il viaggio ormai imminente (7).
Intanto i malevoli, coloro che colla sua venuta temevano di perdere i favori del Principe, i Cortigiani che conoscevano l’ascendente suo sul Duca e sulla famiglia Ducale e consideravano con rincrescimento che d’ora in avanti i suoi consigli sarebbero valsi molto: più dei loro, non si fecero scrupolo di sussurrare in giro ed in modo da sollecitare la giovanile esuberanza di Carlo Emanuele, che il Papa havesse voluto mandare un tuttore.
E’ sintomatico, a tal riguardo, il fatto che nella «Istruttione» dell’ottobre all’inviato Sabaudo in Roma, Carlo Emanuele non abbia neanche accennato al Lauro e neanche espresso alcun particolare gradimento per il mutamento del Nunzio (8). Ci volle tutta la diplomazia del Santa Croce per rassicurare il giovane sovrano e persuaderlo che dalla venuta di un uomo di tanta esperienza e capacità, quale era il nuovo rappresentante pontificio, egli non poteva che trarre immensi vantaggi per se e per i popoli (9).
Vincenzo Lauro giunse a Torino il 17 ottobre e fu bene accolto. Il Santa Croce con la umiltà che caratterizza tutti questi grandi personaggi della contro riforma cattolica una volta cessato l’alto compito del quale erano stati investiti, passa le consegne al successore e si ritira disciplinatamente nella sua abbadia di S. Nazario presso Vercelli. Il nuovo Nunzio inizia la sua ardua missione coll’esprimere all’Apostolica Segreteria il suo vivo compiacimento per il lavoro sapiente e fruttuoso compiuto da codesto predecessore. Era una lode meritata che non soltanto esprime un giudizio particolare bensì anche la grande stima che nutrivano l’un l’altro codesti uomini.
Questa seconda nunziatura piemontese si differenzia notevolmente dalla prima: allora i compiti del Lauro erano più strettamente delimitati ed, in generale circoscritti al campo religioso e morale ed agli interessi della Sede Apostolica; ora invece la direttiva essenzialmente politica di «tener la mano» al Governo ducale appare preminente sulle altre ed informa gli stessi compiti ecclesiastici e tutto quanto pertinente alla difesa degli interessi della Chiesa. D’altronde il Lauro è ormai un altro uomo, reso ancor più autorevole ed esperto dalla movimentatissima Nunziatura polacca. Per di più ha da fare con un personaggio che se diventerà un grande principe, per il momento è solamente un giovane: leale sì e pure alquanto energico, ma non ancora maturo e, non privo di alcuni difetti propri dell’età e soggetto ad influenze esterne. A complicar le cose, due fazioni turbano la vita del ducato e proprio i due consiglieri raccomandati a Carlo Emanuele dal padre: il conte Bernardino di Savoia di Racconigi e Andrea Provana signore di Leynì, rappresentano essi stessi le fazioni rispettivamente favorevoli alla Francia e alla Spagna. Di entrambi però lo stesso duca seppe più tardi farne a meno. Si notano, infatti, in lui scatti d’insofferenza ed una larga dose di sfiducia verso chi pretende di consigliarlo; nondimeno il Lauro, da vecchia volpe, mai esponendosi troppo e sovente agendo tramite terze persone, seppe vincere ogni diffidenza e rendere più grande la propria autorità. Fra le influenze esterne quelle francesi, a giudizio del Nunzio, sono davvero pericolose per il Ducato e per la Chiesa sia per la vicinanza della Francia sia per le correnti protestanti che avrebbero possibilità di approfittare della nuova situazione, sia, infine, per il nuovo equilibrio politico che si verrebbe a creare nel nord Italia. Il ducato deve rimanere indipendente e neutrale, deve continuare a mantenere buone relazioni coi vicini ed essere un elemento d’ordine; queste sono le direttive che il Nunzio tiene presenti e che il Papa non tralascia mai di ricordargli. Perciò, ad evitare che altri potesse approfittare della sua eventuale lontananza dalla corte per influenzare il Duca ed indurlo a prendere decisioni discordanti col proprio pacifico programma egli che, anni prima, aveva scritto non essere confacente ad un Nunzio di seguire i passi del Principe per non diventare un qualsiasi ornamento della corte, adesso non abbandona un momento Carlo Emanuele, e, con quanto suo poco piacere è lecito pensare, si vede attribuire le qualifiche di «tutore» e quella di «pedagogo».
Tuttavia l’irrequietezza del Principe turba il Lauro. Già nell’ottobre del 1580, nella sua prima «istruzione», quello aveva dato disposizioni al suo inviato a Roma di saggiare le intenzioni del Papa su un argomento che solleticava le sue giovanili velleità: la riconquista del marchesato di Saluzzo (10). Si trattava di una vecchia grana.
Questo importante territorio nel 1548, in piena pace, era stato invaso ed occupato dalla Francia, e l’anno dopo era stato aggregato a quella corona. I Savoia non avevano mai deposto le loro fondate pretese e con tutti i messi avevano sempre cercato si entrarne in possesso. Vi fu un momento che Emanuele Filiberto parve esser prossimo a raggiunger l’obbiettivo: quando il maresciallo Bellegarde, governatore di Revello e Carmagnola, esortato dal Duca di Savoia, colla tacita intesa da parte spagnola ed approfittando delle simpatie che godeva in quelle città per aver sposato Margherita di Saluzzo, si ribellò al proprio re Enrico III e s’impadronì di Saluzzo (1579). Di lì a poco, però, morì, forse di veleno. Ma gli successero due suoi luogotenenti, il capitano Domenico Volvera ed il provenzale Anselme; entrambi devoti alla corte di Torino. In questo muore Emanuele Filiberto ed il figlio sembra avviato a seguire la strada degli intrighi paterni. Egli fa dichiarare al Pontefice di non voler «haver alcuna famigliarità con li preditti [Anselme e Bollagr, ribelli saluzzesi] », tuttavia di nascosto, tenta di mantener vive le relazioni con gli insorti e di evitare che venisse in Italia il maresciallo di Retz, da Enrico III mandato per assistere ai funerali di Emanuele Filiberto e, soprattutto, per regolarizzare le cose nel marchesato (11). Per il Nunzio è semplice scoprire il gioco; meno facile persuadere il Duca a star quieto, tanto più che egli stesso era convinto che quelle terre, sia perché diventate ricetto di protestanti sia perché politicamente rappresentavano una porta aperta agli esercenti ed alle idee rinnovatrici della Francia, sarebbe stato opportuno fossero unite al ducato Sabaudo. In tal modo – egli scrive nel novembre al card. Gallio – si potrebbero evitare «li disegni de’ francesi et li periculi che soprastano contra la quiete de Ytalia» (12). Ma d’altra parte lo stato di disordine del marchesato e la venuta del maresciallo Retz avevano grandemente allarmato, per diversi motivi, Venezia e la Spagna. Specie quest’ultima, che temeva conseguenze nel Milanese e negli altri domini di Italia. Corse anche voce che il ministro spagnolo cardinale di Granvela si fosse lasciato andare a gravi dichiarazioni, non escluso il ricorso alla guerra, se la Francia non avesse desistito una buona volta dall’agire slealmente contro Filippo II (13). Le nere nubi che si addensavano sulla pace generale, le chiare disposizioni del Pontefice fan sì che il Lauro moltiplichi i suoi sforzi per indurre Carlo Emanuele a rinunziare ai suoi pericolosi maneggi. Ad appena un mese dal suo arrivo, può finalmente, con soddisfazione, assicurare Roma: «Non mancai di far con Sua Altezza l’ufficio conforme alla Santa intenzione di Nostro Signore in esortarla a la neutralità et a la pace, et lo continuerò in tutte le circostanze, a che la Altezza Sua si mostra inclinata per conoscere chiaramente che in questa consiste la conservazione Sua et dei Suoi Stati» (14). E’ da osservare, nondimeno, che già qualche giorno prima il duca sabaudo, disperando ormai di poter giungere ad un risultato soddisfacente, aveva dichiarato all’ambasciatore veneto di non poter impedire che il marescialle / di Retz / non cerchi di ricuperare il marchesato al Re, essendo che questo sarebbe scoprirsi di fatto inimico di S. M. Cristianissima (14). Infatti, nel frattempo, il maresciallo di Retz aveva occupato Carmagnola e, pur in mezzo a mille esitazioni e temporeggiamenti al fine di prolungare i suoi maneggi politici in Piemonte, si apprestava a spegnere i residui focolai di resistenza. Al Duca conveniva quindi rinfoderare ogni proposito ed attendere più propizia occasione.
Per quasi tre anni il problema del Marchesato non turbò i sonni del Nunzio Lauro. Ma verso la fine della nunziatura le preoccupazioni rinacquero e Lauro ebbe chiaro il presentimento che il bubbone saluzzese avrebbe arrecato disturbi non lievi ai fautori della quiete d’Italia. Il 21 gennaio 1584 faceva sapere al card. Gallio: «E’ tempo assai che il Duca mostrando gran pentimento di haver seguito il consiglio di quelli che gli fecero restituir Carmagnola, si scoperse con meco di voler attendere a la recuperazione di essa per via di trattato et in questo mi parve allora di metterli in considerazione che non era punto il tempo di trattare simile prattica, perché Egli si saria posto in manifesto pericolo di tirarsi la guerra in casa et non poter far di manco di mettere tutte le fortezze dello Stato Suo in custodia di Spagna, et di Principe libero diventar quasi soggetto» (15). Aggiungeva di aver sconsigliato ogni speranza sulle divisioni della Francia e ogni fiducia sulla fazione del maresciallo Montmorency, perché nessuno in Francia avrebbe accettato una diminuzione della propria nazione e facilmente poteva accadere che, per la morte del maresciallo o per quella di Filippo II, egli si sarebbe trovato in un grave rischio: si conservasse quindi neutrale e si sarebbe fatto stimare sia dalla Francia che dalla Spagna. Al Duca non dispiacque allora il discorso, tuttavia in un secondo tempo tornò a far maneggi col governatore spagnolo di Milano per agire di sorpresa: quanto all’impresa della terra di Carmagnola s’haveva da eseguire per via di sorpresa con molta facilità, per la intelligenza che detto Duca ha di dentro la detta Terra da la cui banda il Castello è tenuto sì debole che con tre cannoni si spianerà in due giorni, et simile disegno s’haveva da eseguire in caso di rottura dal canto di Francia, ma ora che il re Cristianissimo ci è dichiarato restar soddisfatto del Duca, et ha fatto rinnovar la pratica del matrimonio di Lorena, benché con grandissimo dispiacere del Duca di Pernon che ci ha la mira, il Duca è risoluto conservarsi ne la neutralità (16). Ed ancora il 17 febbraio successivo tornava sull’argomento onde avvisare la Corte Romana che Carlo Emanuele non aveva deposto i propositi riguardo il Marchesato e che i suoi consigli di neutralità e di pace trovavano in quello scarsa rispondenza. Durante i tre anni che questo problema lasciò tranquillo il nostro Nunzio, un altro, e non meno scabroso, ne prese il posto: la riconquista sabauda di Ginevra, per la cui risoluzione il vescovo monregalese non lesinò fatiche, né consigli.
Ginevra era passata ai Savoia mediante la cessione volontaria fatta dal vescovo Giovanni nel 1515. Pochi anni dopo, la città, dilaniata dai partiti e scossa da fremiti di libertà s’era tolta dalla soggezione sabauda ed a nulla erano valsi i negoziati di Carlo III ed i maneggi di Emanuele Filiberto per riportarla sotto il loro dominio. L’orgoglio della libertà cittadina rafforzato dalla fede calvinista profondamente radicata nell’animo della maggior parte della popolazione, l’assistenza della Francia contraria all’estensione del ducato sabaudo fin sulle rive del Lemano, gli aiuti dei cantoni svizzeri e quelli dei principi protestanti di Germania si erano dimostrati ostacoli insuperabili per i due principi sabaudi.
Carlo Emanuele prese le cose quasi alla leggera. Credette di avere dalla sua diverse circostanze. Per prima, la sempre viva diffidenza fra Spagna e Francia ed il fatto che verso l’una e l’altra potenza egli non aveva ancora legami politici e morali. In secondo luogo la rivalità fra i cantoni, che sopravvalutò e che credette potesse riuscirgli di grande giovamento. Infine il fatto che gli ugonotti del Delfinato erano troppo impegnati contro il Duca di Mayenne per accorrere in soccorso dei Ginevrini, il patrocinio francese gli appariva di poca entità. In compenso fidava troppo sulle sue forze e sull’elemento sorpresa. Pertanto si lanciò a testa bassa nell’impresa, tentando, di nascosto, di radunar le truppe ed i mezzi necessari, di cogliere la città alla sprovvista e di prenderla a tradimento. I Ginevrini invece avevano avuto sentore dell’impresa e si erano preparati a dovere. Così fecero fallire clamorosamente il piano di Carlo Emanuele (primi di maggio 1582).
L’atteggiamento del Lauro verso codesta impresa fu tutt’altro che ossequiente alle direttive papali di vigilare per la conservazione della pace e della concordia; nondimeno sarebbe ugualmente azzardato dire che agì contro le intenzioni della Sede Apostolica. Egli si comportò nel modo che vedremo sia in base a convinzione propria sia in base ad idee ispirategli da altri. Cerchiamo di riandare un poco indietro negli anni. Non era la prima volta ch’egli si occupava delle pretese sabaude su quella città. Già durante la sua precedente nunziatura a Torino aveva dovuto prenderle in esame e ne aveva sostenuto le ragioni presso Pio V e Gregorio XIII. Ginevra è per lui, l’asilo di tutti i tristi, il centro ed il sostegno della propaganda calvinista in Piemonte; una volta ritornata in potere dei Savoia, cesserebbe da questa dannosa funzione e non soltanto consentirebbe il ritorno alla fede cattolica dei suoi abitanti, ma faciliterebbe altresì quello dei Valdesi delle Valli di Pinerolo e dei Protestanti dei Baliaggi (18).
Tanta importanza, egli annette, per la totale restaurazione della fede romana in Piemonte e negli stati vicini, alla riconquista di Ginevra da parte del Duca di Savoia, che anche fra le preoccupazioni ed i disagi della Nunziatura polacca non cessa di pensarvi, e, da Varsavia, il 22 dicembre 1575 scrive ad Emanuele Filiberto di pregare di continuo il Signor Iddio che a l’intera ricoperatione de la piazza del Piemonte s’aggionga quella di Geneva per lo bene universale de la Christianità et della Santa Religione Cattolica con somma gloria et felicità di Vostra Altezza Serenissima (19).
Perciò invece di dissuadere il giovane Duca dall’impresa e fargli presente tutte le ardue difficoltà ch’essa presenta, egli stesso l’incita ad agire promettendo tutto il suo interessamento per ottenere l’adesione della Santa Sede. Non conosciamo quanto l’incoraggiamento di Lauro pesò sulla decisione di Carlo Emanuele; forse ebbe importanza capitale perché oltre a far supporre che il Papa cooperasse, almeno moralmente, sembrò confermare le speranze che il concorso della Sede Apostolica consigliasse la Francia a desistere dalla consueta opposizione (20).
In ogni modo un uomo dell’esperienza, dell’età e dell’intelligenza del vescovo monregalese non avrebbe dovuto commettere un errore così grave. Forse lo illuse la facilità con cui Carlo Emanuele, aderendo alle sue preghiere in nome di Gregorio XIII, era poco prima riuscito con poche truppe a ridurre all’obbedienza il Castello della Cisterna, che s’era ribellato al Papa (21).
Forse per un certo tempo si lasciò trascinare dallo stesso fervore e dalle stesse intransigenti idee del card. Borromeo, che non desistette mai di incitare all’azione contro Ginevra e che, anche quando la partita appariva definitivamente compromessa, continuò ad esortare alla guerra Carlo Emanuele. Fu proprio l’ardente cardinale ambrosiano che alle obbiezioni di un diplomatico rispose che sarebbe stata una gran ventura ed una cosa invidiabile per il Duca anche se, in un’impresa santa come quella di Ginevra, avesse perduto la vita e lo stato (22).
Ma a Cisterna si trattava di un’operazione di polizia senza alcun riflesso esterno, mentre per Ginevra, a prescindere dal fatto che la città era forte e popolata, e quindi una qualsiasi seria operazione avrebbe necessariamente assunto il carattere di una vera e propria spedizione bellica, v’era da andare incontro a rilevanti conseguenze diplomatiche. Ed in quanto alle idee del Borromeo esse non possono costituire una giustificazione all’atteggiamento del Lauro, dal momento che il cardinale milanese non aveva alcuna responsabilità e non impegnava che se stesso, di fronte al giovane principe. Il nostro Nunzio approva incondizionatamente il piano del Duca e nutre fiducia nella riuscita del colpo di sorpresa. Tuttavia nella malaugurata ipotesi del fallimento della stessa giudica che i segreti «apparecchi» per assediarla e costringerla a capitolare non falliranno. A suo giudizio gli ingenti preparativi, l’arruolamento di soldati italiani. Francesi, Spagnoli, Svizzeri dei cantoni Cattolici garantiscono il successo (23).
Come abbiamo già accennato agli occhi suoi l’impresa riveste un carattere essenzialmente religioso, quasi di una piccola crociata contro il maggior centro calvinista; perciò in cuor suo è stupito dall’ostinata freddezza del papa Gregorio XIII. Tuttavia appare così convinto che alla lunga, anche la Santa Sede finirà col dare il proprio appoggio che, nonostante l’ostentata indifferenza di Roma, non manca di sollecitarlo e perfino di precisare che saria forse, più securo et honorevole in dar fanti pagati, che denari (24).
E’ chiaro ch’egli non interpreta bene le parole di prudenza della Segreteria Apostolica; quelle parole che erano state inserite fra lodi troppo generali e parche per fargli capire che non si doveva lasciar trasportare dall’entusiasmo. E nemmeno riesce a comprendere e condividere i timori del Papa ed i suoi dubbi espressi chiaramente a più riprese ancora nel mese di marzo ed in quello di aprile, proprio in risposta a sue entusiastiche lettere manifestanti la certezza che la città sarebbe caduta. Non lo sfiora il dubbio che la Santa Sede, molto di più di lui addentro ai tortuosi meandri della politica europea, possa essere in migliori condizioni per calcolare la riuscita o meno dell’ambizioso progetto Ginevrino. Egli resta ancorato alle parole del Duca che gli aveva fatto credere d’aver consenzienti sia la Francia sia i Cantoni Bernesi. Ed allorché la sorpresa non ha luogo, pur diventando alquanto più guardingo, ancora ai primi del luglio 1584 non cessa di manifestare a Roma la propria speranza che i preparativi ducali avrebbero avuto ragione dei Ginevrini. Alla fine l’evidenza delle cose gli fa aprire gli occhi e, a dire il vero, appare poco generoso con Carlo Emanuele, che si lo aveva ingannato – e forse in buona fede – riguardo l’atteggiamento di Francia e di Berna, ma aveva pur agito in perfetto accordo con lui ed aveva sempre risposto con entusiasmo e baldanza ai suoi incoraggiamenti. Invece ora che per Carlo Emanuele si delinea un tragico isolamento, Vincenzo Lauro, se ne lava le mani e scarica su di lui tutta la responsabilità dell’insuccesso: M’accorse allora di mettergli in consederatione che avanti che si risolvesse di fare la detta impresa doveva assicurarsi de li suoi cantoni cattolici, con cui haveva lega, acciocché in simil caso da loro non si permettesse che gli fusse dato disturbo da’ Bernesi, la qual cosa ella haveria potuto agevolmente conseguire da li suddetti cantoni con qualche poca somma di danaro che havesse presentato ad alcuni loro capi principali, et con tale via senza molta spesa era per fare l’impresa con sua maggiore riputazione senza dar gravezza ad alcuno Principe et senza havere a temere da’ Bernesi, li quali dopo che Ginevra fusse sorpresa si guarderebbero bene di muoverle guerra contro la volontà de li suddetti cantoni cattolici (25).
Erano stati nel frattempo intrapresi dei negoziati, ed adesso il Nunzio si faceva portavoce del Pontefice che considerava saggio partito desistere dalla lotta tanto più che, date le circostanze, nessuna onta poteva ricadere sul principe sabaudo. Ma questi, irriducibile ed esacerbato, non gli nascose la sua profonda delusione ed irritazione nel sentir proprio dal rappresentante del Papa consigliare la rinuncia ad una impresa che era persuaso di aver iniziato col suo favore e che si sarebbe risolta tutta a vantaggio del cattolicesimo. Non gli importava questo voltafaccia: egli avrebbe continuato da solo e contro tutti sino alla vittoria finale (26).
Si trattava solo di un proposito dettato dalla momentanea irritazione e dalla testardaggine; ben presto anche lui non potrà fare a meno di aderire alla proposta del Cristianissimo re Enrico III e dei cantoni svizzeri, di un ampio esame delle sue ragioni si Ginevra. Presso la Dieta svizzera la disputa durerà a lungo fra cavilli, opposizioni, deduzioni e controdeduzioni; e, per non raggiungere una soluzione spiacevole per una delle parti, verrà rinviata a tempi migliori.
Un terzo obbiettivo di carattere tutto particolare e ricco di riflessi politici, la cui soluzione a volte appare intimamente connessa con le due imprese precedenti e con il corso della politica sabauda, era per il Nunzio il matrimonio del giovane Carlo Emanuele. Fin dai primi tempi del suo arrivo a Torino, egli si pone il problema della scelta della sposa e già nel novembre 1580 suggerisce al card. Gallio che il miglior rimedio per tenere a bada la Francia in Italia e legare il Ducato Sabaudo alla politica spagnola, sarebbe che Filippo II si disponesse quanto più presto tirar a la devozione sua al Duca di Saboia con matrimonio de la figlia secondogenita e operasse in modo da farlo entrare in possesso del Marchesato di Saluzzo ed altre terre francesi di quà delle Alpi (27).
Senza discostarsi dalle consuetudini matrimoniali del tempo, Lauro non badava che agli interessi politici ed appunto per questo era nettamente orientato verso una sposa spagnola. I partiti matrimoniali di Carlo Emanuele erano: Cristina di Lorena, nipote di Enrico III di Francia; Caterina figlia secondogenita di Filippo II, la figlia del Granduca di Toscana, con una ricchissima dote; la figlia del Duca di Mantova che poteva rappresentare per Carlo Emanuele una risoluzione delle sue aspirazioni sul Monferrato, e la Principessa di Bearne sorella del re di Navarra, che si diceva gli avrebbe procurato un titolo regio, ma era in posizione scabrosa per la sua fede protestante. Spingevano Carlo Emanuele al matrimonio con Cristina il partito filofrancese della sua corte e la speranza che con quel matrimonio avrebbe potuto finalmente recuperare Saluzzo e le terre del Marchesato o almeno avere mano libera su Ginevra.
Enrico III era invece mosso ad imparentarsi con il Duca dal fine di legarlo alla propria politica ed avere una più salda piattaforma alle sue speranze di riscossa in Italia. Per questo, subito dopo la morte di Emanuele Filiberto, si era affrettato ad inviare il maresciallo di Retz con concrete offerte di matrimonio della nipote Cristina. Lauro invece vede in codesto progettato matrimonio una grave iattura per le sorti del cattolicesimo subalpino. Egli pensa: la prossimità dei domini francesi è la causa principale che impedisce ai nostri sforzi controriformisti di cogliere un pieno successo in Piemonte: perciò legare il ducato alla Francia significa rafforzare codesto impedimento e tenere aperta una porta al diffondersi del protestantesimo in Italia. Per questo egli fa di tutto per dissuadere Carlo Emanuele da codesto matrimonio e cerca in un primo tempo di spingerlo verso Caterina d’Austria. Specialmente nei primi tre mesi della Nunziatura i suoi tentativi diretti ed indiretti d’influire a favore di questa candidata sono innumerevoli (28).
Ma la Santa Sede non ha convenienza che il suo rappresentante prenda una posizione troppo netta in un negozio che può finire altrimenti e quindi compromettere i comuni rapporti d’amicizia. Così dopo alcune lettere di esortazione a non scaldarsi, il cardinal di Como prescrive al Nunzio di non prendere alcuna iniziativa in merito, bensì restare in attesa almeno fino a quando il Duca non richieda la sua assistenza: solo in seguito ci si potrà interessare e sentire il parere di Filippo II (29).
Chi pure era contrario per gli stessi motivi del Lauro ad entrambi i matrimoni francesi tanto di Cristina di Lorena quanto della principessa di Bearn, è il card. Borromeo. A lui nondimeno si rivolge l’interessato perché cerchi di portare a termine le trattative di nozze con una figlia del duca di Mantova (30).
Anche il Lauro dovette occuparsi di un’altra candidatura, quella della primogenita del Granduca di Toscana, propugnata dal cardinal Ferdinando de’ Medici, sostenuta dal card. Paleotto e non invisa allo stesso pontefice. Per quanto senza molto entusiasmo, propugna a Torino questa nuova soluzione ma presto si accorge che Carlo Emanuele era meno attirato dall’oro di una doviziosissima dote che non dall’ambizione di riuscire ad ingrandire territorialmente il suo stato e che soprattutto, in quel momento, il suo principal desiderio era il veder bene avviata l’impresa di Ginevra (31).
Mentre il Nunzio diminuisce il suo interessamento, nel giugno 1582, anche il cardinal Borromeo aderisce a questo partito; troppo tardi. Già il duca cominciava ad entrare nell’ordine d’idee del Lauro e persuadersi che il suo miglior partito era la Spagna.
Carlo Emanuele sperava ed anche il Lauro sembra fosse dello stesso avviso, che il matrimonio con Caterina d’Austria gli avrebbe recato quei poderosi aiuti militari e politici indispensabili per la realizzazione del suo sogno d’ingrandimento del ducato. Ma quando nel maggio 1584 Filippo II, dopo un lunghissimo temporeggiamento, manifesta la sua approvazione alle nozze, tutte le esorbitanti pretese del futuro genero si infrangono di fronte alla sua calcolatrice freddezza e Carlo Emanuele, che dal proprio matrimonio aveva cercato di trarre il massimo vantaggio possibile, si dovè contentare della promessa di una piccola dote che poi non fu neanche pagata.
Tuttavia di fronte alle corti di Europa la posizione del Duca di Savoia apparve molto migliorata. Di queste nozze che si pubblicarono il 26 agosto 1584, Lauro fu uno di quelli che maggiormente esultarono; la sua antica idea finalmente si realizzava. Il Piemonte era finalmente unito alla Spagna. Come scrivono Mons. Grosso e la Mellano, non è senza significato che appunto durante le nozze del Duca, egli abbia lasciato la Nunziatura (32).
Se in questa sua Nunziatura l’attività politica fu di gran lunga preponderante, un posto ragguardevole occupa non di meno anche la sua opera riformatrice. Questa si può dire abbia proseguito sui binari per i quali l’aveva avviata prima della sua partenza per la Polonia. Anche questa volta i suoi primi dardi sono destinati a persone che, per il loro magistero e per l’esempio che avrebbero dovuto fornire alla popolazione, agli occhi del Nunzio appaiono particolarmente colpevoli: i maestri e gli ecclesiastici. Fa infatti catturare un certo Ferrari, maestro di scuola e persona di dottrina molto dubbia ed il 30 dicembre 1580 denunzia a Roma l’immoralità di alcuni monaci del Pinerolese (33).
Saranno ancora i monaci, ma non soltanto quelli di Pinerolo, a suscitare il suo disgusto per la loro condotta reprensibile; specie quelli dei conventi isolati, in campagna. Anche in ossequio ad una direttiva tridentina. Il 23 marzo 1582 egli propone che gli istituti monastici extracittadini vengono soppressi o ricostituiti nelle città dove appare più facile sottoporli a sorveglianza (34).
Contro i riformati egli mantiene sempre attive due missioni: una nelle valli pinerolesi ed un’altra nel Marchesato di Saluzzo. La prima, composta di due sacerdoti, uno dei quali quel Giovan Battista Vanino al quale dagli storici valdesi si attribuisce un grave smacco, avere dapprima sede a Perosa; poi il rettore dei Gesuiti coll’approvazione del Lauro la spostò a Bricherasio all’imbocco di Val Pellice (35).
La Missione nel Marchesato di Saluzzo si articolava su tre nuclei: il primo in Saluzzo, ove, a quanto i gesuiti stessi affermano, erano stati ottenuti risultati soddisfacenti; il secondo a Dronero, ove le idee della Riforma avevano trovato terreno particolarmente fertile; l’ultimo a Carmagnola, nella qual cittadina i frutti raccolti pare fossero stati copiosi. L’opera di questi missionari consisteva nell’istruire il popolo, insegnargli i primi rudimenti della fede ed avviarli a pensare ed operare cattolicamente; nell’avvicinare i protestanti a cercar di intrattener con essi buone relazioni, persuaderli a partecipare alle prediche in modo da illuminarli riguardo alcuni errori di fede e prepararli a rientrare nel grembo della Chiesa Romana. La relazione di P. Croce, del 12 maggio 1581, contiene pure alcune importanti osservazioni: gli «eretici» di Bricherasio e Val Luserna erano meno diffidenti e chiusi in sé di quelli di Val Perosa; a S. Germano a pochi passi dall’abbazia di Pinerolo, essi erano invece così permalosi ed intransigenti da impedire l’accesso ad un qualsiasi predicatore cattolico; i padri gesuiti non stavano fermi nella loro residenza ma si spostavano a predicare nei paesi vicini (36).
Le spese per mantenere codesti padri assommavano a 400 scudi l’anno. Il Lauro che qualche volta ci rimise di tasca, si adoperò perché queste missioni venissero incrementate ed ottenne dal Pontefice una provvigione di 650 scudi annui (giugno 1581). Era anche del parere che sarebbe stato più opportuno spostare la Direzione di queste Missioni a Torino, in modo da potersi tenere in stretto contatto con essa. In quello stesso giugno 1581, egli cerca di sfruttare l’occasione della venuta a Torino del card. Borromeo per ottenere l’allontanamento dalla corte di Ferrante Vitelli, quale persona troppo sospetta di eresia. Come è una sua consuetudine prega altresì il cardinale ambrosiano di non rilevare che la richiesta parte da lui, anche perché in precedenza aveva tentato di agire tramite il confessore ducale (37).
NOTE
(1) Arch. S. Vat., Nunz. Sav., IX, 207 ss. (30 agosto).
(2) A. S. T. (Arch. Stato di Torino), Lett. Vesc.: Mondovì. Lettera da Roma del 5 settembre 1580. Non si trovava quindi a Mondovì come lasciano supporre GROSSO e MELLANO, Op. cit., Vol. I (è sempre questo che verrà menzionato), pg. 197.
(3) Arch. S. Vat., Nunz. Sav., IX, 207 ss., GROSSO-MELLANO, cit., 193-194.
(4) Arch. S. Vat., Nunz. Sav., VIII, 172; J. A. De THOU, Op. Cit., II vol., lib. XXIV e TRITONIO, Op. cit., pgg. 64-65.
(5) A. S. T., Mater. Eccl., Cat. I, Mazzo III d’Add., 1; E. PASSAMONTI. – Le «Instruttioni» di Carlo Emanuele I agli inviati sabaudi in Roma. In CARLO EMANUELE I (B.s.s.s. vol. CXX) p. I, Torino 1930, pgg. 333. Erra pertanto il JALLA (Giovanni. – Storia della riforma religiosa in Piemonte durante i regni di Carlo Emanuele I e Vittorio Amedeo. I (Vol. II) Torre Pellice, Claudiana, 1936) scrivendo che il Lauro andò a Torino in qualità di pronunzio.
(6) Arch. S. Vat., Nunz. Sav., VIII, 174: Gallio al Santa Croce il 17 sett. 1580; GROSSO-MELLANO, 197.
(7) A. S. T., Lett. Card., Mazzo 5: Guastavillani al Duca, da Frascati il 19 sett. 1580.
(8) A. S. T., Mater. Eccl., Cat. I, Maz. III d’Add.: PASSAMONTI, cit., pgg. 213-215.
(9) Arch. S. Vat., N. Sav., IX, 247: Santa Croce al Gallio, il 18 sett. 1580.
(10) A. S. T., Mater. Eccl., Cat. I, Maz. III d’Add. (1580 ott.)
(11) Istruzione citata.
(12) Archives du Ministère des Affaires Etrangères Paris (Memoires et documents, Espagne, vol. 297 (1577-1589). Copia di lettera in cifra dall’Arch. General de Simancas. Estado, Roma. Legajo 938-c 100: Cfr Lino MARINI – René de Lucinge… in «Bollettino della S.S.S. » 1957.
(13) Arch. Stato di Venezia, Disp. Spagna (disp. Del 5 dic. 1580).
(14) Arch. S. Vat. Nunz. Sav. IX (disp. 16 nov. 1580).
(14 bis) Id., Disp. Savoia (Disp. Del 5 nov. 1580); Italo RAULICH. – Storia di Carlo Emanuele I. Milano, Hoepli, 1896. Vol. I, pg. 19.
(15) Arch. S. Vat., N. Sav., XIII. Felice CHIAPUSSO. – Carlo Emanuele I e la sua impresa sul Marchesato di Saluzzo. Torino, 1891.
(16) Ibidem.
(17) Ibidem.
(18) Arch. S. Vat., N. Sav., III, 13 v (Lettera del 9 ott. 1572); Id. Id., I, 3 (Dic. 1568); A. S. T., Lett. di Vesc. Mondovì (da Roma il 9 febbr. 1573).
(19) A.S.T., Lett. Vesc. Mondovì.
(20) RAULICH, Op. cit., I, 53.
(21) Arch. S. Vat., N. Sav., XII, 266 (28 lugl. 1581).
(22) Arch. Simancas, Estado, Legajo 1255 (disp. barone Sfrondato); RAULICH, I, 84-85.
(23) Arch. S. Vat., N. Sav., XII, 266-267 (28 lugl. 1581) ed anche vol. XII, f. 475).
(24) Id. Id., XII, 305 (3 maggio 1582); RAULICH, I, 75.
(25) Arch. S. Vat., N. Sav., XII, 483.
(26) RAULICH, I, 85.
(27) Lauro al Gallio nel nov. 1580; cit. nota 12.
(28) Arch. S. vat., N. Sav., IX, 369 lettera cifr. unita ad altra del 28 dic. 1580, GROSSO-MELLANO, Op. cit., 205.
(29) Arch. S. Vat., N. Sav., X, 23: lettera a cifra unita ad altra del 13 dic. 1580; GROSSO-MELLANO, cit. 205.
(30) RAULICH, Op. Cit. I, 147-149.
(31) Arch. S. Vat., N. Sav., XII, 4836; RAULICH, Op. Cit., I 143-144.
(32) Op. Cit., pg. 204, riguardo le nozze vedi anche quanto scrive il TRITONIO (pgg. 67-68) che ne attribuisce tutto il merito al Lauro.
(33) GROSSO-MELLANO, Op. Cit., 208; Giov. JALLA, Op. cit.
(34) JALLA, Cit.
(35) GROSSO-MELLANO, 210; Giov. JALLA. – La riforma in Piemonte durante il regno di Carlo Emanuele I fino all’occupazione del Marchesato di Saluzzo, in BULLETIN HIST. VAUD. (Torre Pellice) N. 42, dic. 1920.
(36) GROSSO-MELLANO, 210-211.
(37) Arch. S. Vat., N. Sav., vol. XII, 168.
VINCENZO
LAURO di Antonio Francesco Parisi |
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