Sertorio Quattromani
Patrizio, filologo e filosofo, espertissimo in poesia provenzale, notò i debiti del Petracca verso di essa. Nacque nel 1541 a Cosenza. Critico fine e moderno, fu anche poeta verso la fine dei suoi anni avvenuta nella città natale nel 1607. Seguace di Bernardino Telesio, ne diffuse le dottrine (La philosophia di B. Telesio ristretta, 1589, sotto lo pseudonimo di Montano accademico cosentino). Uomo di grande erudizione, scrisse anche una traduzione dell'opera del Cantalicio su Gonzalo Fernàndez de Còrdoba (1607), un'esposizione delle rime di G. Della Casa (post., 1616). Interessanti per il contenuto culturale e biografico sono gli Scritti varii, raccolti e pubblicati nel 1714 da Matteo Egizio e poi nel 1883 da Luigi Stocchi a Castrovillari. Da quest'ultimo lavoro è tratta la lettera a Don Vincenzo Toraldo scritta dal Quattromani il 9 ottobre del 1581.
Da "SERTORIO QUATTROMANI Gentiluomo ed Accademico Cosentino Scritti varii editi per la prima volta a Napoli nel MDCCXIV da Matteo Egizio, ed ora da Luigi Stocchi", Castrovillari, Tipografia del Calabrese, 1883, pagg. 86 - 89.
LETTERA A DON VINCENZO TORALDO
A D. Vincenzo Toraldi
A Napoli.
Non ho fatto prima di questo di risposta alla dolcissima lettera di V. S., perchè sono stato impedito in mille maniere di affanni. Hora che ho un poco di quiete, rispondo, et le rendo mille gratie dei sonetti, et degli epigrammi, che mi ha inviato: i quali tutti sono bellissimi, et non hanno mestiero dell'opera di niuno, non che della mia. Pure vi ho segnato qualche cosetta, più tosto per soddisfattion sua, che per altro. L'epigramma, che incomincia. Est avis in terris, è tutto vago, et leggiadro. Sic viget, io direi, sic nitet. Candide Caselli: Caselli mi par che habbia la prima brieve, et così è posta, se non m'inganno, da Horatio. Et se bene alcuni Grammatici sono di parere, che tutte le prime sillabe de' nomi proprii possano essere comuni: pure io mi atterrei più all'uso de' poeti eccellenti, che alle ciarle di costoro. La parola perfidia, per quel che noi diciamo ostinatione, non penso che sia ben detta: perchè perfidia, appo i Latini non dinota altro, che tradimento, et enfedeltà. Quel che comincia: Haec inter natos, mi pare il Re di tutti gli Epigrammi; ma ha un solo difetto, che agguaglia la Duchessa a tre personaggi, et poi risponde solamente a due. Nel sonetto, che comincia: Solea negli horti, etc. - Disacerbar cantando Amore ancora: io muterei questo verso, perchè quella rima ancora, pare alquanto sforzata. Et la mia fera avvinse ec. I nostri poeti, quando dànno il nome di fera alle lor Donne, sempre l'addolciscono con qualche aggiunto piacevole et soave: come appunto il Petracca: Di vaga fera le vestigia sparse. Et appo il Casa: Bella fera, et gentil mi punse il seno. La voce circonscrivere è di altro significato di quello di V. S. ha quì posto: perchè il suo proprio è restringere in poco spatio. Il Bembo: Poichè ogni ardir mi circonscrisse Amore cioè mi tolse, mi scemò, et mi restrinse in poco spatio. Nel sonetto, che comincia: Lasso me, etc. già che V. S. mi stringe che io le ne debba scrivere il parer mio, le dico che egli sarebbe ottimo, et perfettissimo, se non che nel primo et secondo quaternario ella prende assai bene la metafora della nave, et poi nei ternarii le dà cosa, che non conviene a nave. Et chi prende una metafora, non può in conto alcuno partirsene; salvo se egli non muta sostanza, o non dà alla sostanza mutata quegli accidenti, che sono comuni così al proprio, cioè alla sostanza prima, come alla sostanza mutata. Il Petracca prende la metafora della colonna, cioè muta la persona del Cardinal Colonna, et dàlle quel che è proprio della colonna: Gloriosa colonna, in cui s'appoggia, etc. Prende la metafora dell'Orsa, et non si parte mai da quel che conviene all'Orsa: Orsa rabbiosa con gli orsacchi tuoi. Ma non havrebbe potuto dare all'orsa quel che è proprio della colonna, nè dare alla colonna quel che è proprio dell'orsa, nè trapassare dalla metafora al proprio, cioè dare alla sostanza mutata gli accidenti della sostanza prima. Laonde non è da lodarsi il Bembo, che dà alla colonna quel che non le conviene, et che è proprio della Donna = Alla colonna, et ferma a le tempeste etc.: et altrove prende la metafora della rete, et poi le dà cosa, che non conviene a rete: Havea per sua vaghezza teso Amore, etc. et soggiunge nel fine: Et quetava ogni nembo, ogni tempesta. Perchè la rete non può quetare così fatte cose. Il medesimo nel sonetto = Donna che foste oriental Fenice, chiama la sua Donna Fenice, et poi si dimentica di attribuirle qualche qualità di questo uccello. Non fe così il Petracca in quel sonetto: Questa Fenice che l'aurate piume: et in quell'altro: E' questo il nido, in che la mia Fenice. Nè il Casa, che dà alla colonna i begli occhi, può fuggire di non esser ripreso in quei versi: O verdi poggi, o selve ombrose, et folte - Le vaghe luci de' begli occhi rei, etc. Perchè le colonne non hanno occhi, i quali sono della Donna, et non della colonna. L'istesso ancora, nella risposta che fa al Bembo, havendo trasformato Vinegia in nido, cade nell'istesso fossato, et dà cosa impropria al nido: L'altero nido, ove io sì allero albergo: et, poi: Meco di voi si gloria, etc. perchè il nido non può parlare, nè può vantarsi di haver prodotto il Bembo. Erra il Petracca, quando dice: Fece di dolce sè spietato legno: et altrove: Onde io chieggio perdono a queste fronde: perchè l'essere spietato non è dei legni, ma degli huomini, dei quali si è proprio il chieder perdono; ne è proprio delle frondi il perdonare. Et l'istesso Petracca nel sonetto, che scrive a Pandolfo Malatesta, trabocca in una metafora molta strana, nè può credersi che sia uscita dalla penna di un tanto huomo:
Però mi dice il cor che in carte scriva Cosa, onde il nome vostro in pregio saglia, Che in nulla parte sì saldo s'intaglia, per far di marmo una persona viva.
Dura cosa per certo, che non s'intagli in carta, per far una persona viva di marmo. Et quel che dicono alcuni valenti huomini, che ogni cosa si salva col senso allegorico, è cosa da ridere: perchè la falsità della lettera, non può salvarsi col senso allegorico. Et quando altri sputò così fatta sentenza, parlò delle favole, et disse che le favole incredibili si possono salvare con l'allegorie, et non intese delle traslationi. Non voglio trapassar più oltre intorno a ciò: et per avventura sarò stato soverchio; essendo questa materia non di lettera, ma di lungo trattato; et mi basta di haver fatto il suo comandamento. Et è di tanto momento, che oso dire, che chi sa usare ben le metafore, sa anco esser buon poeta, et buon' oratore. Intanto a V. S. bacio la mano, et così anco al S. D. Gaspare suo padre, mio antico Signore. Di Cosenza, a'9 di Ottobre, 1581.