Albert Anastasia e la sua famiglia
Così hanno ammazzato mio fratello Alberto
di Salvatore Anastasio (1967)
Alle dieci e un quarto del 25 ottobre 1957 mio fratello Alberto fu ucciso. Aveva i capelli lunghi ed era andato nella "barberia" dello Sheraton Hotel, sulla Cinquantacinquesima Strada di New York. <<Pierino, fammi una cosa svelta. Lo vedi? La coda ho, la coda. Presto.. capelli.>> Pierino era l'addetto alla poltrona numero quattro della "barberia" dello Sheraton. Alberto depose soprabito e cappello, prese posto nella poltrona e si allentò la cravatta. Il ragazzo di bottega gli accomodò l'asciugamani attorno al collo. Tra i capelli folti e neri di Alberto spuntavano i primi fili bianchi. Pierino si mise al lavoro. D'un tratto, nella "barberia" dello Sheraton Hotel entrarono due uomini tarchiati, di media statura. Portavano sciarpe scure girate più volte intorno al collo; e occhiali impenetrabili. Nel traffico convulso della Cinquantesima Strada, sulla quale il grattacielo dello Sheraton incombe, nessuno li aveva notati. Di là dalle vetrine della "barberia", la gente continuava a passare indifferente. I due diedero uno spintone a Pierino, che cadde a terra. Spararono. Mio fratello alzò un braccio, come per ripararsi; poi cadde in avanti, e nella caduta trascinò una mensola carica di spazzole, pettini, flaconi, rasoi, scatolette. Gli uomini dalle sciarpe uscirono nella Cinquantesima Strada. Un fioraio chiamò la polizia. Arrivò un medico dal vicino ospedale. Allargò le braccia. Mio fratello era morto. Io, quella mattina, avevo appuntamento con Alberto. Stavo percorrendo la Hudson Avenue con la mia Buick, quando notai con sorpresa che il programma di musica leggera (avevo acceso la radio) si interrompeva. <<Pochi minuti fa,>> disse lo speaker <<nella "barberia" dello Sheraton Hotel di New York, è stato ucciso a revolverate da ignoti Albert Anastasia, il famigerato capo della Anomina Assassini>>. Giunsi in tempo per benedire il corpo senza vita di mio fratello. Attorno a me c'era gente che urlava, che scattava fotografie, che rideva. Rimasi a lungo inginocchiato accanto al cadavere di quell'uomo che avevo molto amato, e che ancora oggi ho nel cuore. Anche la televisione diede subito la "grande notizia". Un giornalista telefonò ad Antonio, al porto. Gli disse: <<Hanno ammazzato tuo fratello e interruppe la comunicazione. Antonio arrivò di lì a pochi minuti. Era pallidissimo; piangeva. Toccò a lui riconoscere Alberto. E lo accarezzava, ricordo, lo accarezzò lungamente chiamandolo a gran voce. Furono gli amici (gli uomini del porto, accorsi allo Sheraton Hotel con "Tony il duro") ad allontanarlo da quel luogo di tragedia. La morte di Alberto fiaccò Antonio. Più che nel corpo, nello spirito. Lo rivedo tra i nipoti, la sera, quando tornava a casa. Premuroso, un pò curvo, precocemente incanutito. Sprangava la porta a doppia mandata, si assicurava che il contatore del gas fosse chiuso, faceva il giro delle stanze... Voleva essere sicuro che la tragedia, o l'America, non potessero raggiumgere ancora una volta i suoi cari. Toccò a Rosanna, la nipote prediletta, accorgersi che "Tony il duro" respirava con difficoltà. Era la sera del 2 gennaio 1963. Venne chiamata un'ambulanza. Nonno Antonio fu ricoverato in ospedale; e piano piano cominciò a morire. Per tre ore, gli uomini del porto accompagnarono la bara di Antonio che risaliva dal primo fino al sessantanovesimo molo. Nella chiesa di Santo Stefano, dove ebbe luogo la cerimonia funebre, trovarono posto solo gli stivatori che si erano messi in testa al corteo. Tra i loro abiti modesti, spiccavano le uniformi di un generale e di un colonnello. L'episodio dello sciopero interrotto alla base militare di Brooklyn non era stato dimenticato. La testimonianza d'affetto e di stima fu imponente. Durante una trasmissione televisiva dedicata ad Antonio, l'arcivescovo episcopaliano di Brooklyn disse testualmente: <<Tony fu un battegliero, e nessuno può comandare un gruppo di uomini come i lavoratori del porto se non comportandosi come lui fece. Non sono ragazzi, gli stivatori, nè timide fanciulle attaccate alla gonna della mamma>>. <<Quando si trattava di aiutare un uomo o una famiglia bisognosa,>> aggiunse un famoso giornalista <<Tony aveva una particolarità: non si tirava mai indietro. Finchè egli è stato vivo non c'è stata famiglia, a Brooklyn, che avendo chiesto il suo aiuto abbia sofferto la fame. Auguriamoci che possa essere così anche in avvenire.>> Di colpo, alla morte di Antonio, mi sentii un estraneo in quell'America che pure - nonostante tutto il dolore che mi aveva dato - avevo amato. Il desiderio di far luce sulla personalità di Alberto non mi aveva abbandonato, ma come mi apparivano cambiate le cose! Le strade, le case, le città hanno una fisionomia diversa a seconda dello stato d'animo di chi le osserva. New York, per la prima volta dal giorno ormai lontano del mio sbarco sui moli di Brooklyn, mi appariva arcigna ed ostile. Certe sirene delle sue autombulanze mi laceravano l'anima, certe folle grige in mezzo alle quali mi capitava di camminare mi riempivano di sgomento. La vita continuava, maestosa e brulicante come la corrente di un fiume, anche senza i miei fratelli. Il mio dolore diventava un fatto privato, da custodire in silenzio e meglio ancora da portare lontano. Di Alberto e di Tony, di tutta la mia sventurata famiglia non mi era rimasto che quel groppo di disperazione. <<Turuzzo,>> mi sembrava che una voce mi raccomandasse <<vattene di qui prima che ti prendano anche quello.>> Decisi quindi di partire; ma prima di mettere la parola "fine" a queste mie memorie voglio aggiungere qualche parola sull'assassinio di Alberto. Non molto tempo fa, in America, un "medio calibro" mafioso di nome Joseph Valachi indicò in Vito Genovese il "capo dei capi" della malavita che ha tuttora solide radici in tutti gli stati dell'Unione. Tra le altre accuse mosse da Valachi a Genovese, c'era quella di avere ordinato l'uccisione di mio fratello. Ebbene, io posso dire che l'accusa è falsa. Alberto non fu ucciso dai sicari di Vito Genovese, ma da persone che ancora oggi vivono, libere e indisturbate, a New York. Lo affermo in piena coscienza, e sono anche in grado di spiegare i motivi di questa mia certezza. Antonio, poco prima di morire, mi rivelò i nomi degli assassini di Alberto. Li aveva appresi da un intervento al convegno di Appalachin, tenutosi come tutti sanno nel novembre del 1957. In quella occasione, non solo Genovese si mostrò addolorato per la scomparsa di Alberto, ma disse testualmente: <<Voi avete ucciso un uomo generoso, che aveva aiutato molti. Credete di meritare una medaglia per quello che avete fatto?>> Valachi stesso, del resto, nella prima versione delle sue accuse, aveva accennato ai veri uccisori di mio fratello Alberto senza chiamare in causa Genovese. Poi cambiò idea e gli assassini divennero "sicari di Vito Genovese". Capisco di dover rispondere, a questo punto, a una domanda: perchè, se conosco i nomi degli uccisori di mio fratello, non li ho denunciati? La risposta sta nell'abito che porto, e direi anche nel luogo che ho scelto per continuare la mia missione di sacerdote. I nomi, quei nomi che grondano sangue, io li ho appresi in confessione. Il prete, che è passato da New York a un paesino sperduto tra le montagne calabresi, non desidera vendetta nè soddisfazione. Prega soltanto Dio affinchè gli uomini che lo hanno privato del fratello adorato possano ravvedersi e ricevere il perdono prima di presentarsi davanti al tribunale celeste. Ecco perchè non ho parlato. Qualche volta ho dei dubbi, delle crisi di coscienza? Ne ho, è naturale, come ne ha ogni uomo ed ogni sacerdote, ma non perchè ho taciuto la rivelazione fattami da Antonio. Chiunque sfogli i giornali che si occuparono delle indagini sull'uccisione di Alberto, è infatti portato a porsi una domanda inquietante: potrà mai, la giustizia, mettere le mani su uomini come i due tipi mascherati dello Sheraton Hotel? Leggeteli, quei giornali. Troverete un uomo coraggioso che dichiara: <<Non tollererò che un mio simile possa essere ucciso in pieno giorno, davanti a decine di testimoni, e che i suoi assassini sfuggano alla giustizia>>. Troverete lo stesso uomo, due mesi dopo la sua coraggiosa dichiarazione, con la famiglia sorvegliata giorno e notte da una pattuglia di agenti. Lo vedrete, infine, ritirarsi nell'ombra per "motivi di salute". A che pro, dunque? Nemmeno davanti all'impegno di giustizia degli uomini, che troppe volte ho visto fallire, mi bruciano i nomi che ho seppellito in fondo al cuore.
Immagini inedite del matrimonio di Albert Anastasia celebrato dal fratello Salvatore (collezione privata)
Papà Bartolomeo, mamma Mariannina, Giuseppe, Alberto. E Antonio, il 1° marzo del 1963. Crudele America; povera famiglia Anastasio. Quanto meglio sarebbe stato che Alberto non si fosse mai mosso da Tropea. Che avesse raccolto sale per tutta la vita nelle cave di Parghelia. Forse nulla di quello che ho raccontato sarebbe accaduto. Forse non dovrei dire, come faccio ora a conclusione delle mie memorie: non pretendo di avere dimostrato l'innocenza di mio fratello, spero soltanto di avervi invitato a meditare su quel che avete letto prima di incontrare me. Forse... Chissà. Il dolore è stato, e rimane, grande. A volte ho il timore, che provai acutissimo il giorno dell'uccisione di Alberto, che non bastino le mie spalle - pur rese forti dalla veste che porto - a reggerlo tutto. Ma altre volte scendo in riva al mare che tanto affascinava Alberto fanciullo. Guardo oltre la distesa scintillante che ho varcato per raggiungere i miei fratelli e che sono tornato a varcare per ricominciare a vivere qui, in Calabria. Penso, forse sogno; e mi dico che, in fondo, non tutta l'odissea dei miei fratelli è stata inutile. Ricordo le parole che, all'indomani della scomparsa di Antonio, pronunciò Jo Nack del Boston Traveler: <<I lavoratori dei moli di Brooklyn onorano Antonio Anastasia, il loro capo, con un funerale da presidente... Un immigrato è asceso al comando dei suoi stessi compagni di lavoro. Li ha guidati con fermezza e ha ottenuto per loro paghe più alte, pensioni, privilegi che nessuno avrebbe mai sognato... Un albero è cresciuto a Brooklyn, ed è morto. Quel lembo di terra non sarà mai più così verde>>. Rivedo Alberto, qual era pochi giorni prima di morire. Torno a sentire la sua voce fonda, che immancabilmente si faceva cordiale quando il discorso era rivolto a me. <<Turuzzo, quante ne ho passate... Sapessi come sono stanco. Se ho una consolazione, è questa: al porto ora le cose vanno bene, e a farle andare per il verso giusto è uno della nostra famiglia. Il destino, o chi per lui, ha voluto così. Antonio è riuscito nell'opera che io sognavo, e che a un certo punto ho dovuto interrompere,>> Addio, fratelli miei. Riposate in pace.
Tomba di Albert Anastasia