TROPEA 1662, oltre la grata: gli affetti terreni di una novizia in crisi
di Franco Aquilino
I documenti inediti che presentiamo sono stati trascelti da un poderoso incartamento del Seicento, proveniente dall'archivio disperso del soppresso monastero di Clarisse di Santa Maria della Pietà in Tropea, centro religioso un tempo di una certa importanza. L'incartamento contiene ordinate progressivamente 279 carte, numerate sul retro, più la carta n. 289, più 2 carte non numerate. La storia di suor Diana Caputo è racchiusa in un gruppo di carte che vanno dalla c.108 alla c.109. Leggiamole.
C. 108 Dal Monastero. Supplica di Diana Caputo. <<Diana Caputo novitia nel Monastero sotto titolo di Santa Maria della Pietà humilmente espone a Vostra Signoria Illustrissima come per soccorrere alle necessità di Sua Madre, e sorella continuamente indisposte, desidera uscire dal detto Monastero col levarsi il velo, e ritirarsi in sua casa, dove intende vivere da vecchia. Pertanto supplica Vostra Signoria Illustrissima resti servita concedendo licenza....>>.
Tropea, 3 marzo 1662 dal palazzo vescovile, stessa carta. Primo provvedimento del vescovo. Si intima alla badessa e alle monache di quel monastero di esporre il loro parere e se hanno qualcosa da dire sulla richiesta della detta Diana Caputo. Segue la sottoscrizione del vescovo (il tutto è scritto di sua mano): Carolus episcopus Tropeanus.
Stessa carta, stesso luogo e data del monastero. Risposta della badessa e delle monache. <<La Madre Badessa, e Reverende monache, dicono come sibene la detta Diana Caputo non haver fatto professione, non dimeno era tenuta per Professa tacita per aver già finito l'anni sedici di lui anni incirca, onde quando paresse a Vostra Signoria Illustrissima nonostante questo ordinare che se ne uscisse, in tal caso fanno istanza, ad esserli pagati l'alimenti a ragione di docati trenta l'anno dal giorno di ingresso insino al uscita, non essendo bene che detto Monastero venga defraudato di quello, che per ragion del vitto li ha sumministrato, rimettendosi al di più parerà con Vostra Signoria illustrissima, di questo e d'altro miglior modo>>.
C. 108 retro (ultime due righe) e verso. Stesso luogo e data dalla curia vescovile. Attestazione del notaio della curia. Il notaio della curia D'Amico attesta che gli è stata riferita la notificazione e intimazione alla badessa e alle monache del retroscritto memoriale, da parte dell'ordinario ed esecutore delle decisioni della curia, Carulus de Laurentio.
C. 108 verso Tropea, 4 marzo 1662: dal palazzo vescovile. Il vescovo chiede informazioni al <<fiscus>>, ufficio di amministrazione della curia.
Stessa carta (in calce), stesso luogo, 4 o 5 marzo 1662. Risposta sulla questione. Diana Caputo, entrata come novizia tra le dodici monache dotate dalla fondatrice, non solo ha completato l'anno di noviziato, ma sono trascorsi da allora due anni, in cui ha osservato la regola come tacita professione e cioè come vera professione. Non può dunque abbandonare il monastero.
C. 109-111 Tropea, 6 marzo 1662: dal monastero. Deposizione della badessa suor Chiara Gioele, resa al vescovo, presente il vicario generale. Dopo aver giurato sulle Scritture di dire la verità, alla domanda se conosca il motivo della sua chiamata, risponde di saperlo: c'è una novizia nel momastero, nominata a suo tempo dalla fondatrice, che fino al momento è stata monaca, ma <<adesso si dice che costei voglia andar via, et accasarsi, o maritarsi, con un gentiluomo di questa città>>. Alla richiesta di spiegare i fatti, risponde che da quando lei è stata nominata badessa, [la novizia] <<da pochi giorni in qua s'è dichiarata volersene andare via per accasarsi, et ancorchè si fusse murmurato per prima che lei si voleva maritare et andare via, niente di manco non ha avuto ardimento di dirlo...>>. dopo che ha dichiarato di volersene andare, suor Diana, che aveva rivestito già gli abiti secolari, ha dovuto rimettere per ordine del vescovo l'abito da monaca...con grandissima difficoltà <<e se lo pose ma no colli capelli calati>>. Alla domanda, importantissima, se le risultasse che suor Diana si sentisse realmente laica per non aver professato i voti solenni e per questo volesse uscire, suor Chiara risponde: <<stimo et ho stimato che lei non avesse questo pensiero di professa tacita, così come noi non havevamo questo pensiero; è vero sì che poi che si sono manifestate queste cose lei s'è cacciato fuora li capelli e dice di non volerci stare, altrimenti si butterà dalla finestra>>. Segue il segno di croce della badessa, che dichiara di non saper scrivere (<<scribere nescientis ut dixit>>).
C. 112-113 Stesso luogo e data. Deposizione di suor Vittoria Scattaretica, vicaria. Suor Diana, <<che have anni diecisette finiti entrata alli diciotto>>, <<...m'imaginavo io che fusse figliola giocolona, che volentieri giocava, ma non sapeva l'intenzione sua, perchè in effetto ella non si dichiarava, se non da poco tempo in qua>> quando invece ha detto che <<lei se ne vuole uscire dal monastero per maritarsi, si come hanno detto alcune giovane monache doppo che essa s'era dichiarata con loro>>. Domanda: Da quando ha detto questo? Risposta: <<...dal tempo che morì suo fratello...e detto suo fratello saranno due anni finita a febraro che è morto...che poi veramente essa nell'interno non habbia avuto intentione di professare tacitamente, questo non lo so, che depende dalla sua volontà...perchè come ho detto, con me non si dichiarò mai e mostrava tener timore di me, già che come Badessa la riprendeva, e l'esortava che imparasse a dire l'officio, e non fusse giocolona, cioè che non giocasse e burlasse mentre si diceva l'officio divino>>. Visto comunque che si è confidata con altre consorelle, che Suor Vittoria però non sa che siamo, si provi a interrogare quelle. Domanda (aggirante l'ostacolo dell'omertà): Quali monache sono tra le confidenti di suor Diana in modo che si possa sapere se abbia emesso o no professione tacita? Risposta: Suor Elena Fazzari, e suor Porzia Romano, e suor Teresa Addisi. Segue la dichiarazione autografa: <<Io sora Vittoria Scattaretica ho deposto ut supra>>. Il notaio di curia sottoscrive.
C. 113 v.-115 v. Tropea, 8 marzo 1662: dal monastero. Deposizione di suor Elena Fazzari. Alla ricerca dell'aggancio giuridico che possa dargli ragione e quietare gli scrupoli di coscienza, don Carlo Maranta cerca ancora altre testimonianze: tutto è stabilire se Diana Caputo fosse a conoscenza che il perdurare nello status di monaca comportasse una forma di professione dei voti solenni. La questione era stata regolata alla fine del XIII, quando la professione religiosa era stata compresa nell'ambito dei voti solenni: bastava cioè che un novizio indossasse l'abito dei professi, anzichè il suo, per essere considerato professo a sua volta. Da Bonifacio VIII tale norma era stata estesa a tutti gli ordini eccettuati quelli mendicanti: era richiesto tuttavia che la persona candidata fosse anziana, e di sua volontà e consapevolmente avesse mantenuta la sua decisione per tre giorni. Non è affatto facile dimostrare questo nel caso di Diana Caputo, considerate le testimonianze raccolte, ma il vescovo ci prova lo stesso ed eccolo riproporre sempre lo stesso formulario ad altre monache. Suor Elena Fazzari, monaca professa, in seguito protagonista di terribili scene madri, nello scontro, anche fisico, tra fazioni avverse, aggiunge qualche particolare a quanto sappiamo già. E' stata lei a ricevere per prima le confidenze di Diana <<la quale da due anni sono disse che ora essa stava trattando di maritarsi e mi diceva con chi trattava et io lo dissi poi alla Madre Badessa et a tutte le monache>> E' probabile che fosse d'accordo con l'amica, per rendere la cosa di comune conoscenza e far scoppiare il caso, prima che fosse troppo tardi. Non sono poche le tracce di solidarietà femminile in questa vicenda e avremo modo di farne rilevare qualcuna anche più palese. Del resto, le testimonianze si commentano da sole. La teste continua riepilogando, come le altre, le vicende del monastero fino alla morte del fratello della Caputo: da allora questa le confidò che stava trattando per andarsene <<...et un'altra volta mi disse che suo padre Francesco Caputo l'havea domandato di che colore voleva la gonnella, lei disse che la voleva rossa guarnita d'argento>>. Il particolare aggiunge un tocco di femminile civetteria che avrà fatto sobbalzare il vescovo, vicario e notaio, ma suor Elena, imperterrita, continua dicendoi che ormai la Caputo aveva messo tutti al corrente della sua volontà di non fare la monaca e di andarsene << perchè si voleva maritare>>. Aggiunge ancora (e può darsi lo faccia apposta) un altro particolare di femminile vanità di Diana: <<e saranno da quattro o cinque giorni che si fece venire li vestiti da secolare et in effetto si pose le scarpe e si cacciò fuoti li capelli cresciuti>>. L'abito poi l'aveva dovuto togliere per ordine della Signoria Illustrissima <<che ha preteso che lei fusse professa tacita, et essa sempre ha detto che mai ha tenuto intentione di professare>>. Alla solita domanda se la Caputo sapesse della professione tacita, suor Elena ribadisce che <<lei non ha avuto mai scrupolo d'essere professa, perchè forsi non lo sapeva...veramente l'intentione sua...doppo che morì il fratello era di andarsene via, e maritarsi>>. suggerisce, alla domanda successiva, di rivolgersi per maggiori particolari a suor Patrizia Romano. Segue il solito segno di croce di suor Elena e la sottoscrizione del notarius curiae.
C. 116-117 v. Stesso luogo e giorno dal monastero. Deposizione di suor Patrizia Romano. Conferma quanto detto da chi l'ha preceduta. E' una novizia molto giovane <<perchè mi mancano, così dice, quattro mesi per finire gli anni sedici>>. Conferma che suor Diana, pur avendo finito i diciassette anni, <<non ha già mai fatto quest'istanza di professare espressamente, perchè pretende uscire dal Monastero e maritarsi>>. Suor Diana le ha confidato questo dopo la morte del fratello <<e così lei non voleva essere più novizia nè farsi monaca ma voleva uscire, non ostante che ella havesse accettata la nomina fatta in persona sua dalla già Porzia Carbonara...>>. In ultimo, la giovane aggiunge candidamente: <<...doppo morto il fratello li venne il pensiero di uscirsene, e maritarsi, e confidò questo suo pensiero con me, et io li risposi buono fate, se vi maritate con un vostro pari>>. C'è in questa ingenua affermazione, col candore dell'età (e i pregiudizi non solo di quel tempo), una precisa presa di posizione giusta e naturale. e' un'affermazione che risponde ad una sotterranea solidarieta' verso la consorella da parte di tutte le suore interpellate, anche se non necessariamente vi si debba vedere un processo di identificazione con suor Diana da parte delle testi. Infatti, fin dall'inizio (C. 116) suor Patrizia Romano ha precisato: <<mi mancano quattro mesi per finire gli anni sedici, questi finiti, colla gratia del Signore Dio, pretendo di professare espressamente>>. E questo fatto aggiunge maggiore credibilità alla testimonianza. Interpellata ancora se conosce altre amiche della Caputo, suor Porzia. Il solito notarius curiae sottodcrive (2).
Il vescovo, prima di interrogare la Caputo, lascia passare un giorno: si può anche pensare che il giorno fosse sul finire e sia il vicario che il notaio fossero stanchi quanto lui. Tuttavia, egli deve raccogliere le idee, collegare i dati delle deposizioni ascoltate, sottolineare (come fa) le convergenze, ponderare i pro e i contro di una questione che si va allargando a macchia d'olio con pericolo di "rumori" in città (Dio guardi !). bisogna dunque che cerchi uno spiraglio per poter arrivare a quella che egli pensa essere la verità. Lo dimostra l'accanimento (degno di miglior causa) con cui torna a proporre le sue domande capziose a suor Diana. Stridente il contrasto tra il latino farraginoso, inerte e ripetitivo che sintetizza le domande, secondo la consuetudine curialesca, e il <<volgare>> delle risposte, ricco di risorse, vitale e chiaro per quanto l'altra lingua appare ambigua e fuori del tempo. Alla prima domanda se sappia il motivo della sua chiamata, l'interpellata risponde: <<Io sono stata chiamata per esplorare la volontà mia>>. Monsignor vescovo chiede se sa a quale proposito debba essere esplorata la sua volontà. Risposta: Se io voglio stare qua dentro. Domanda: Come vi e' entrata e per quale motivo? Risposta: <<o fui portata qui a tempo viveva Portia Carbonara e che introdusse le novitie in questo Monasterio...et fui una delle nominate da lei, e perchè ero figliola (3), che (4) sono tre anni e quattro mesi che fu questo ingresso, et io non sapevo che cosa veramente significasse questo ingresso, si bene mi vestirno l'habito di novitia, et io che non sapevo la significatione, che in effecto importasse l'essere monica, condiscesi in tutto quello che ferno...>>. La domanda era stata abilmente congegnata, parafrasando il modulo della stessa che si pone alle novitie che chiedono di essere ammesse al monastero, in genere dopo un periodo di preparazione. La risposta e' molto circostanziata e istintivamente si adegua a far fronte alla richiesta, soffermandosi sull'incapacità di intendere di una bambina "portata" (questo è il termine usato) a partecipare a funzioni il cui significato sfugge. La risposta appare dunque credibile e sincera e dovrebbe anche far riflettere sulla questione della effettiva responsabilità degli atti che si compiono e della necessaria maturità di chi li compie. La novizia continua senza intoppi: <<quando poi sono venuta in senso (5) di conoscere che importa l'essere monica, ho mutato il pensiero>>, specie da quando è morto il fratello Tomaso. E quando poi la sorella <<che si chiama Cassandra cecò d'occhi, incomiciai a dire in me stessa, che ci fo qui dentro? Me ne voglio andare a casa mia per accasarmi>>. Non ne ha parlato alla badessa per un senso di vergogna, ma l'ha detto a suo Elena Fazzari e a suor Porzia romano. A questo punto come non pensare ad una concerto fra le tre amiche, magari d’accordo con la vicaria suor Vittoria Scattaretica senior, che per prima ha suggerito di interrogare suor Elena e suor Porzia? Il meccanismo psicologico della solidarietà fra donne è scattato istintivamente, ma l'inquisitore sembra non accorgersene. Subito dopo ecco affiorare nella narrazione dei particolari di rilievo: i familiari sono d'accordo con suor Diana (e questo ovviamente è di estrema importanza). Infatti, continua la dichiarazione: <<...me ne parlò anco la Signora Isabella Criscenti, mia zia, che mi voleva accasare e darmi parte della sua dote, e poi anco mio Padre me ne parlò, sì che mi rivolsi volere uscire, e con questo pensiero sono stata doppo sempre, come sto adesso>>. La risposta, così particolareggiata, dovrebbe bastare, ma il vescovo non si mostra persuaso, anche se i suoi meccanismi di inquisizione mostrano tutta la loro lentezza ad adeguarsi alla prorompente spontaneità e alla fermezza della giovane. Domanda: Perchè dunque suor Diana non ha rivelato le sue vere intenzioni a tutte le monache subito dopo la morte del fratello, senza apsettare tanto oltre? Risposta: Aveva paura della badessa, che era suor Vittoria Scattaretica, e non conosceva ancora l'adesione del padre. Tuttavia <<sono stata sempre col pensiero di non essere monica, e quando entrai, come ho detto prima, io ero figliola, nè sapeva discernere che cosa volesse dire esser monica, sì che non mai ho fatto di atto positivo di professa, non espressamente perchè professione espressa non l'ho fatta, nè sono per farla, nè professa tacita, perchè non sapevo che volesse dire, e come ho detto non ho fatto atto positivo di professa, prego dunque Vostra Signoria Illustissima a farmi gratia che me ne possa andare, perchè come ho detto non voglio farmi monica>>. La risposta mostra delle iterazioni, che tuttavia non tradiscono incertezze, ma intendono ribadire sempre quell'idea fissa: <<non voglio farmi monica>>. Ma il vescovo non si arrende. Si direbbe ci sia una forma di ripicco in questa insistenza, un disappunto neanche dissimulato per il fatto di vedere stravolto tutto quanto un sistema collaudato, dai meccanismi perfetti: e tutto per colpa di una giovinetta. Egli è alla ricerca di una verità tutta sua e tenta un'ultima domanda: mai, prima dei sedici anni, e anche dopo, suor Diana ha avuto intenzione di essere monaca, ne' di emettere voto tacito, davanti a Dio che tutto conosce, anche i segreti del cuore? [Non e' forse questa, a ben vedere, una vera e propria forma di coazione nei confronti della novizia?] Risposta: <<Signor no. Si che non son professa nè tacita ne' espressa, nè ci voglio essere>>. Ci sono ben cinque negazioni in così breve dettato. Aggiungiamoci un punto esclamativo finale e un tono di voce di persona corrucciata, ma con i nervi ancora ben saldi. Diana Caputo non sa scrivere, ma sa parlare con istintiva eloquenza per difendere la sua causa, quella in cui crede con tutta l'esuberante energia della sua età>> . Il notaio della curia vescovile sottoscrive: c'è da credere che, vincendo la notarile impassibilità, l'abbia guardata con ammirazione mentre curva, nel suo abito di novizia, ha segnato con semplicità una croce. Il Vescovo Carlo Maranta C. 120 Tropea, 16 marzo 1662: dalla curia vescovile. Dal 9 marzo (data dell'interrogatorio di suor Diana) al 16 son passati sette giorni: la decisione di arrendersi all'evidenza tarda ed è a lungo ponderata dal vescovo. Ma i fatti parlano chiaro, bisogna solo trovare la formula adatta. Non è il caso di correre rischi, suscitando pettegolezzi e scandali, che' in quel nuovo monastero ogni giorno ce n'era una. D'altronde <<l'appartenere al sesso maschile - come ben a proposito sul monachesimo femminile scrive Ida Magli - costituisce una condizione ostacolante la piena comprensione degli istituti e dei dinamismi culturali in cui si proietta la femminilità>> (6). E la tenacia del prelato a mantenere così a lungo le sue convinzioni, malgrado l'evidenza dei fatti, è una dimostrazione di questa sua incapacità a cogliere il significato del problema che gli era toccato risolvere. L'atto che consente a Diana di uscire finalmente dal monastero verso un'esistenza liberamente scelta e di <<non essere più molestata per questioni inerenti alla sua professione, tacita o espressa>>, reca appunto la data sofferta del 16 marzo 1662. E' scritto nei caratteri corsivi eleganti vergati dalla stessa mano di quell'ignoto calligrafo che ha ricopiato tanti altri documenti del manoscritto, in un inchiostro con riflessi verdastri (almeno per quanto riguarda il testo) che denunciano la presenza di una mistura contenente vetriolo. Stupisce un pò trovare tra i primi motivi che han determinato la decisione un attestato di morte di Tommaso Caputo, fratello di Diana, ma il tocco macabro faceva parte del cerimoniale del secolo. Nessun cenno, sia pur vago, ai motivi affettivi che avevano pur turbato in di "così grande momento" non è stato affatto tralasciato e si è pattuito che i parenti della Caputo (e chi, se no?) pagheranno, sia pure solo per metà, il mantenimento alimentare della giovane negli anni in cui è vissuta in monastero. Questa vicenda, strano a dirsi, si conclude allo stesso modo in cui è iniziata: con la preoccupazione costante circa gli alimenti da pagare al monastero. Si direbbe costituissero il rovello della vecchia badessa all'inizio, e del caparbio prelato alla fine di tutta la vicenda.
MA LE CARTE NON LO DICONO
Nelle "carte" non c'è scritto: ma lo stesso giorno, c'è da giurarci, quel 16 marzo 1662, Diana Caputo avrà lasciato il monastero, con i capelli sciolti sulla nuca e magari indossando la sua gonnella rossa, guarnita d'argento e le eleganti scarpe nuove da "laica" che aveva avuto appena in tempo di provare. Le "carte" non lo dicono, ma sarà stata magari anche una radiosa giornata di sole, come ci sono soltanto da quelle parti. Diana avrà salutato e abbracciato le ex consorelle che l'avevano aiutata un po' tutte con le loro dichiarazioni, le sue amiche: suor Elena Fazzari, suor Porzia Romano, e suor Teresa Addisi. Anche le suore della fazione avversa, non ancora incattivite, e anche suor Vittoria Scattaretica che in fondo le aveva sempre voluto bene, e la vecchissima badessa suor Chiara Gioele che avrà pianto per la commozione. Sulla stradina a ciottoli soltanto una vecchia domestica ad attenderla, perchè l'ingresso in monastero (il cui significato Diana non aveva capito a suo tempo, perchè era una "figliola") e' una festa per tutti, mentre l'uscita deve essere per tutti un lutto. Ma l'ex novizia non se ne sarà preoccupata, anche se magari qualche vecchietta incontrandola le avrà mormorato dietro: "Scomunicata !", facendosi meccanicamente il segno della croce. Anche lei, passando davanti alla raccolta chiesetta della Pietà per svoltare verso il non lontano palazzo Caputo, si sarà segnata. Un gesto di riconoscenza per una grazia ricevuta, al termine di quegli ultimi terribili giorni, trascorsi come una lenta agonia, con gli occhi fissi su "quella" finestra e con intorno le amiche preoccupate, invocanti il soccorrevole sorriso della Madonna di Romania, che' le avrebbe fatto la grazia. La risposta del vescovo alla supplica di Diana Caputo Ora, con moto comprensibile nella rutilante successione dei tempi, Diana avrà sorriso anche lei un attimo, al ricordo delle burle combinate proprio in quella chiesa durante la lettura, interminabile, dell’uffizio, nonostante gli occhiacci della vicaria, che ne aveva riferito poi, ma con indulgenza, nella deposizione resa al vescovo. Quante volte aveva magari contraffatto, con beffa e irriverente aria di contrizione ma con effetti irresistibili, la cantilenante cadenza nasale, la "munghera" cosentina della anziana badessa che, come sappiamo, era dell'Amantea ! In prospettiva, gli affetti (e le infermità) dei familiari: dell'anziano padre Francesco, della madre inferma, Dianora Adilardi, della sorella Cassandra, cieca: una vita da infermiera, da donna. Ma ci sarebbe stato ad attendere Diana anche quel "gentiluomo della città " (7), che l'avrebbe condotta all'altare, contentandosi della dote dimezzata offerta alla giovinetta dalla generosa zia Isabella Criscenti. C'è da giurarci, anche se le "carte" non lo dicono, che, varcando alfine la soglia di casa "sua", l'ex novizia si sarà ripromessa che, di monache, non avrebbe voluto più sentir parlare in avvenire. A meno che non fossero quelle che, tra qualche giorno, sarebbero riapparse come ad ogni primavera, "giocolone" come lei, ad allietare il "bel" cielo della sua città: perchè nel suo dialetto imaginoso, che è anche il nostro, le rondine si chiamano "i monachei", le monachelle. Ma le "carte", questo, non possono dirlo.
NOTE
1) In questa e nelle successive carte la grafia e la punteggiatura sono quelle degli originali. 2) La Chiesa avvertì per tempo fin dall'epoca di Innocenzo III l'esigenza della verbalizzazione della procedura canonica, per cui tutti i preliminari, le affermazioni e prove dovevano essere scritte e passate agli atti da un apposito notaio della curia che li sottoscriveva, pena la nullita'. 3) Calco letterale del termine dialettale tropeano "figghjola", che vuol dire ragazzina, donna molto giovane. 4) Altro probabile calco letterale del dialetto "ca" per "perchè "; questo dà nella resa della deposizione l'aulico "che" (accentato in lingua: chè). Il periodare ha una patina dialettale: nell'apparente sconnessione sintattica quasi traduce il parlato. 5) Altro calco di espressione dialettale. 6) I. Magli, Alla scoperta del mondo selvaggio in cui viviamo, Milano, 1981, p. 173. 7) Nelle carte del monastero il suo nome non viene mai fatto, anche se certamente era conosciuto, almeno dalle confidenti della novizia. Era appunto il fratello di una di queste, quella suor Teresa Addisi (o Adesi, secondo la grafia più recente), il cui interrogatorio il vescovo aveva trascurato. Una coincidenza del tutto fortuita? Giuseppe Adesi apparteneva ad una delle famiglie di più antica e potente nobiltà tropeana, che contava una discendenza diretta da Alfonso, fratello di Carlo I d'Angiò. Il suo nome compare casualmente nel Ruolo generale della nobiltà tropeana, un registro stilato nel 1704 da un'apposita commissione per una nuova numerazione delle famiglie nobili di Tropea, citato nell'opera Il Sedile e la nobiltà di Tropea (1898) di Felice Toraldo, uno storico locale. Appunto in quell'elenco venne riconosciuto nel novero delle famiglie nobili di Tropea, un Tal Andrea Addisi, figlio del nobile Giuseppe e di Diana Caputo. Questa lo aveva potuto conoscere dunque nel parlatorio durante le visite che il gentiluomo faceva alla sorella, amica e confidente della novizia, Si devono ipotizzare fitti colloqui tra i due e frequenti incontri nell'arco dei due anni che trascorsero prima che Diana decidesse di uscire dal monastero e di sposarsi con il nobiluomo. Ci furono anche convegni amorosi ? Non si può escluderlo. D'altronde la ferma determinazione della novizia a sposarsi non sembra soltanto frutto di una giovanile infatuazione nutrita solo di sguardi e di sospiri. Il vescovo giunse probabilmente ad appurare infine quel nome e a trarre le dovute conclusioni, rafforzando ancor più i motivi della sua scelta.