Tropea. Convento dell' Annunciata (foto primi novecento)
 
 

ORME FRACESCANE
NELLA DIOCESI DI TROPEA
 
 

di Pasquale Toraldo
(1930)


Lo spirito di Francesco di Assisi che brilla di luce sì vivida nel duecento è quel tralcio di vite evangelica di cui una gloriosa propagine meravigliosamente si sviluppò nella terra di Calabria sempre ricca di fuoco non solamente nel suo sottosuolo, sempre scosso da terremoti, ma di anime e ingegni sempre pronti ad avanzare nella via della perfezione.
Cassiodoro, San Nilo, l'Abbate Gioacchino e San Francesco di Paola sono fari d'ingegni, di santità, fondatori di ordini che poche altre regioni d'Italia possono vantare sì numerosi e importanti.
Ma tutto ciò non ha esaurito lo spirito calabrese, che pure all'Ordine Serafico diede elementi che sono di gloria alla terra natia e all'ordine che li accolse. Basterebbe accennare ai gloriosi Protomartiri francescani, che sono appunto calabresi: Fra Daniele Fasanella nobile da Belvedere, Angelo, Samuele, Donnolo, Leone da Corigliano, Nicolò da Coriolano e Ugolino da Cerisano, martirizzati il 13271 cioè l'anno dopo la gloriosa morte di San Francesco e il cui martirio per primo vien raccontato dal grande Sant'Antonio da Padova nel convento di San Marco Argentano, che ne addita a documento un antico affresco nella chiesa.
Il primo convento francescano fondato in Calabria si ritiene quello di Reggio, per opera del Beato Pietro, compagno del Serafico Patriarca, al quale si attribuiscono numerose altre fondazioni, come quella del Convento di Crotone in cui egli morì, mentre il suo corpo veniva in seguito trasportato nel convento di Castrovillari nel 1264.
Nella fondazione dei conventi calabresi è interessante notare la parte preponderante che vi ebbe l'alta aristocrazia dei feudatari. Così troviamo ad esempio don Frabrizio Ruffo conte di Sinopoli fondatore di un convento in Scilla ed uno in Sinopoli2, Fabrizio Giffone fonda il convento di Cinquefrondi; dal duca Ettore Pignatelli fondato uno in Vibo Valentia; da Carlo Sanseverino, conte di Mileto, ebbe origine quello di Pizzo territorio a lui appartenente; da Simonetta Colonna quello di San Nocito; un altro della famiglia Sanseverino, duca di San Marco, fonda il convento di Morano; e dal Principe di Bisignano pure Sanseverino, fondato il convento di Cassano; il convento di Cerchiara fondato da Fabrizio Pignatelli marchese del luogo ecc..
Nobile e santa gara della cristiana signoria di quei tempi, che è vezzo di dipingere solo dedita a rapine, soprusi e vizi.
Nè il popolo, ad onor del vero, restò assente a questo nobile movimento. In alcune città libere fu appunto l'università del luogo a chiamare i figli di S. Francesco fra le sue mura ed anche dove asilo ai Poveri di elezione. Sorsero così i conventi di Stilo, Terranova, Drosi, Rogliano, Rossano, ecc..
Sarebbe troppo lungo enumerare solamente tutti i conventi francescani sorti in Calabria, dove si può quasi dire che ogni centro piccolo e grande ebbe un convento francescano e spesso più d'uno, come vedremo. Nè possiamo seguire le vicende di questi conventi attraverso le varie riforme che subì l'Ordine e quindi le varie appartenenze alle diverse famiglie e tanto meno possiamo seguirli attraverso i tempi.
Senza singolarmente accennare a queste numerose costruzioni francescane, non posso non additare la loro importanza nel campo artistico, oggi in tanto rifiorire di tali studi. Se in altre regioni d'Italia e d'Europa dobbiamo ad ordini religiosi alcune particolari evoluzioni e valorizzazioni dell'arte sacra, non possiamo appunto nella nostra Calabria negare questo merito all'Ordine Francescano, che non è secondo oggi nei monumenti sacri lasciatici nè all'Ordine Basiliano, tanto caratteristico e singolare della Calabria, nè a tutte le altre famiglie monastiche di Cistercensi e Benedettini, che ricordano appunto particolari influenze dell'arte.


Tropea. Chiesa del Convento di S. Chiara:
San Francesco di Assisi (foto primi novecento)

Possiamo quasi affermare che nel XIV e XV secolo i Francescani in Calabria ebbero il primato delle costruzioni sacre d'importanza artistica, che solamente e per breve tempo nei secoli successivi condivisero questo primato con i Gesuiti.
Dalle costruzioni duegentesche che sopravvivono in alcuni chiostri meravigliosi per la fattura e per lo spirito che vi aleggia, come quello di Cosenza, alle numerose chiese trecentesche dei conventi che ancora alcune immuni di rifacimenti, brillano nella loro semplicità veramente francescana, nei loro archi trionfali a sesto acuto, dalle crociere delle absidi quadrate e delle cappelle e navatelle laterali, nei ricchi portali gotici, che si protraggono a tutto il quattrocento; da queste costruzioni non spoglie in più di un posto di affreschi di cui solamente qualche raro frammento è a noi pervenuto, ma di cui non disperiamo ritrovar numerose traccie, alle miniature di alcuni libri corali, soli per ora noti quelli di San Francesco di Cosenza, che continuano la bella tradizione decorativa basiliana, alle marmoree e sublimi statue di Madonna del più delicato artefice meridionale del rinascimento, Antonello Gaggini, che numerose incontriamo ancora in queste chiese francescane, alle statue lignee di umili fratelli laici, ai cori del cinquecento e del seicento, agli armadi di sacrestia e agli altari lignei, tutti in rilievo, del sei e settecento dovuti quasi tutti alla riforma cappuccinesca, è tutto un meraviglioso rifiorire d'arte sacra dovuto allo spirito religioso-francescano che invase e pervase la Calabria dal secolo XIII al XVIII.
E senza minimamente accennare ai singoli artefici e senza neanche ricordare i serafici Padri che in Calabria svolsero tutto il loro apostolato, sia nell'umiltà francescana, sia emergendo nel sapere e nell'oratoria sacra, non posso fare a meno di solamente accennare ai frati che qui vivendo emersero per santità di vita.
Oltre dei Santi Sette Martiri si haa un altro un altro martire della fede nel Beato Giovanni francescano calabrese ucciso mentre tornava da ambascieria in Etiopia, dove era stato mandato da Papa Sisto IV3.
Abbiamo poi il Beato Umile da Bisignano confortato da carismi dalla Santissima Vergine che mentre si tentava di allontanarlo dal convento per la sua malferma salute, la Madre Celeste lo rassicurava che non sarebbe stato allontanato per come infatti non avvenne.
Ed accenno al Beato Angelo da Acri, cappuccino, che all'inizio del suo noviziato per ben due volte abbandona l'abito francescano per ritornare al secolo, ma per la terza volta poi lo riveste per non più abbandonarlo. Nella meditazione della Passione di Cristo volle soffrire tutti gli atroci dolori flagellando il suo corpo con la disciplina, amareggiandosi col fiele specie il venerdì, ecc. ed a imitazione del Serafico Padre soleva buttarsi ignudo sui roveti ed orticai. Quando terminati gli studi volle darsi alla predicazione, tre volte provatosi a recitar quelle prediche così studiate, pulite e secondo le regole dell'arte oratoria, tre volte si vide arrestato da forze occulte senza poter profferire parola per cui fu obbligato a scendere dal pulpito con sua grande confusione. Ma il Signore che lo confortava nelle frequenti visioni ed estasi gli addita la via da seguire cioè quella della semplicità evangelica. Ed infatti il beato Angelo poi intraprese a predicare nella lingua patria dialettale raccogliendo meravigliosi frutti.
Osservantissimo della regola professata ubbidiva ciecamente ai suoi superiori ed ai confratelli di missione anche se semplici fratelli laici.
Favorito da Dio del dono quasi continuo dell'estasi che lo rapiva sia durante la Santa Messa, o predicando, o mangiando, o camminando, solamente chi poteva comandarlo, come i suoi superiori, aveva la virtù di farlo rinvenire con prontezza.
Dotato da Dio del dono della profezia, della conoscenza delle cose occulte e lontabe, ebbe pur vivente la virtù di sanare infermi, illuminare i ciechi, mondare i lebbrosi, ecc e conobbe preventivamente la sua fine predicendola quattro giorni prima d'ammalarsi ai suoi confratelli. Morì l'alba di venerdi 30 ottobre 1739.
E tanti e tanti altri francescani illustrarono con la santità della loro vita e la nostra Calabria e l'Ordine Serafico che sarebbe troppo lungo enumerare.
Non si può però tacere il nome della gemma più fulgida: Francesco di Paola.
Venuto al mondo per intercessione del Serafico di Assisi a lui lo consacrarono fin da bambino i suoi genitori. Appena tredicenne in soddisfazione del voto fatto viene condotto a San Marco Argentano presso i Minori Conventuali, dove indossa l'abito votivo. Qui egli ricevette non solamente una certa istruzione, ma incominciò anche ad amare la perfezione religiosa.


Tropea. Chiesa della Sanità (foto primi novecento).

Insieme agli studi della vita monastica egli certamente qui imparò le regole per il buon governo delle comunità4.
Pur fondando un nuovo ordine egli non intese mai distaccarsi dalla famiglia francescana di cui conservò le regole, che restrinse in qualche punto, ed egli stesso sempre si è considerato come francescano, come lascia comprendere la sua firma di "Minimo delli Minimi", cioè l'ultimo dell'Ordine dei Minori Francescani.
Ed è appunto Francesco di Paola la gloria più bella dell'Ordine Serafico in Calabria: è un Francesca d'Assisi postumo rincarnato in Calabria: tanto sono affini i loro spiriti! Egli s'impersonò alla perfezione dello spirito del primo.
E più tardi nel Venerabile padre Gesualdo di Reggio Calabria, morto nel 1803, cappuccino, rivive lo spirito di Francesco d'Assisi, e di Francesco di Paola. Col consenso dei superiori del suo ordine durante il periodo in cui visse e riscoprì la carica di guardiano del convento di Terranova, trasformò questo convento in ricovero pei religiosi che volessero attendere soltanto allo spirito, alla propria santificazione, ed alla più rigida osservanza della regola e delle costituzioni cappuccine.
In quel silenzio perfetto, continuo, interrotto soltanto dal salmeggiare del coro, i frati vivevano di preghiera e di continua meditazione respirando un'aura celeste e paradisiaca tra gli immensi uliveti che circondavano il convento.
Traslocato in seguito egli dovette pure assolvare al suo dovere di apostolato esterno, e qual novello Paolano, per assolvere ad un invito ricevuto dagli Oratoriani di Messina, trovandosi privo di mezzi per pagare la barca che avrebbe dovuto trasportarlo sull'altra sponda dello stretto, avendo ricevuto un rifiuto dal barcaiolo di trasportarlo gratuitamente per amore di nostro Signore, unitamente al fratello laico che lo accompagnava stende il suo mantello sulle acque che quale prodigioso battello il trasporta a Messina!
E dopo aver così accennato di volo all'ordine Serafico in Calabria, che oggi, unitamente alla Basilicata, costituisce monasticamente la Provincia dei Santi Sette Martiri, appunto per i Protpmartiri prima accennati, dirò ora dettagliatamente per quanto è possibile dello sviluppo di quest'Ordine in Tropea, piccola cittadina, sull'estrema punta del Capo Vaticano, sede provincializia dell'Ordine dei Frati Minori e sede della Diocesi omonima.

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Dopo aver ammirato alcuni splendidi panorami umbri, visitando l'angusta terrazzina del convento di San Damiano in Assisi dove San Francesco elevò a Dio il famoso inno delle creature, coloro, che, non compenetrandone lo spirito, considerano San Francesco come il santo che solamente ha saputo parlare agli uccelli, che ha acquietato il lupo di Gubbio ecc. provano una certa disillusione.
Invece occorre ammirare e studiare in San Francesco non solamente il poeta, ma lo spirito che lo animava, e il bene operato in mezzo alla società dei suoi tempi. E non fermarci esclusivamente alla sua persona ed al suo secolo ma osservare anche quanto apostolato attraverso i secoli ha svolto e svolge il suo ordine.
Occorre perciò conoscere i tempi in cui visse, le misere condizioni morali della società a lui contemporanea, e così per i secoli seguenti, per poter comprendere e vagliare il bene apportato all'umanità dal risveglio cristiano suscitato dal Poverello di Assisi.
Occorre così per Tropea, che fin quasi dalla istituzione accolse fra le sue mura l'Ordine Serafico, rimontare brevemente ai tempi precedenti alla sua venuta per meglio poi apprezzare di quale benefico influsso fu esso cagione per il risanamento morale di questa cittadina, e come anche nei suoi modesti confronti si possa attribuire a San Francesco d'Assisi il titolo di restauratore di questa plaga della Chiesa.
Sebbene le notizie pervenuteci siano abbastanza scarse, pur non manca la materia attraverso i pochi e sicuri documenti per avere una idea alquanto precisasulle condizioni religiose di questa città.
Al tempo della conquista normanna troppo tristi n'erano le condizioni della Chiesa. Gli scismi d'Oriente, le ingerenze degli imperatori di Costantinopoli sull'ordinamento della Chiesa, le frequenti invasioni saracene che proibivano il libero culto (ricordo ad esempio il nascondimento e il trafugamento delle reliquie di Santa Domenica, martire locale grandemente venerata) rendevano oltremodo pietoso lo stato della Chiesa. A ciò è da aggiungere la condotta più o meno corrotta del clero barcamenantesi fra il rito greco e il latino, fra la vera autorità costituita del Romano Pontefice e i patriarchi autonomi di Costantinopoli.


Tropea. Chiesa della Sanità: Altare Maggiore (foto primi novecento).

I Normanni tentarono por termine a questi disordini e in parte vi riuscirono specie dopo la pace di Benevento. In molte diocesi avvenne allora il cambiamento del rito dal greco al latino, e si favorì una grande diffusione dell'ordine benedettino in sostituzione di quello basiliano, da noi già allontanato dalle scorrerie saracene, e furono ricostruite le chiese abbandonate e diroccate durante queste devastazioni.
Tropea attraverso tutte queste vicende di lotte, ma per lei si apprestavano, dopo tanti patimenti, giorni migliori.
Sarà anche bene ricordare, per avere un'idea del clero nostro di quel tempo, come delle supreme autorità ecclesiastiche fossero investiti di alcuni di dubbia origine e condotta venuti qui da noi fra gli avventurieri normanni. Non deve quindi far specie se poi li troviamo immischiati in tristi episodi, su cui sorvoliamo, come ad esempio, sulla partecipazione del vescovo Erveo alla congiura pro, non è ancor sicuro il giudizio della storia, o contro il primo Guglielmo da Sicilia organizzata dal suo primo ministro, Ammiraglio degli ammiragli, come appellavasi Maione da Bari, dopo la cui uccisione questo vescovo, che ne custodiva gli ingenti tesori, nonchè alcune corone reali, da servire o come offerte a Guglielmo o per la incoronazione di Maione, fu obbligato a consegnare tutto quanto custodiva5.
Troppo assorbiti dalla politica della corte normanna furono anche altri suoi predecessori, e qualche altro suo successore.
Chi prima partecipò alle lotte fra gli invasori normanni, parteggiando per l'uno o per l'altro fratello, come ad esempio si ha memoria dell'asilo prestato a Sichelgaita, moglie di Ruggero conte di Mileto, in una di queste lotte6, che poi fu assunto a Protosincello della corte normanna, chi adoperato per ambascerie presso altri principi. E se tutto ciò poteva ridondare ad onore in qualche caso, però troppo distraeva dal loro apostolato in mezzo al popolo che languiva religiosamente.
Se così trascurate erano le autorità, nel clero semplice ancor più miserande erano le condizioni, tanto che non poche sono le lettere dei Papi richiamanti i membri del clero alla perfetta osservanza del celibato e a un tenore di vita più ordinata7, e certamente non meno felici erano quelle della società tropeana nei secoli XII e XIII.
Come in Palermo, così pure a Tropea non dovette esser facile sradicare le tristi costumanze importatevi dagli arabi. Se in Palermo noi vedemmo i normanni assuefarsi a tali costumanze, tali che mentre edificavano da un lato le magnifiche chiese, come la Palatina, Monreale ecc, tristamente edificavano d'altro la Zisa e la Cuba.
E a Tropea non diverso dovette essere l'amniente: le abitudini sdolcinate degli emirati seppero adescare i prodi normanni che si elevano a protettori della Chiesa!


Tropea. Chiesa dell'Annunciata. Soffitto ligneo (foto primi novecento)

Con la calata normanna prima, angioina e sveva poi vennero in Tropea i primi capostipiti di alcune famiglie tropeane come i Giffoni, Adesi e Fazzari8. Venuti nella nostra terra fra gli avventurieri di quelle calate settentrionali, nel pieno vigor della vita, nei primi tempi del loro soggiorno è naturale che conservassero uno spirito sanguinario che facilmente li induceva alla lotta per desiderio di conquista, di dominio. Non torna a meraviglia se queste famiglie non vissero sempre in pace fra loro, ma si dilaniavano a vicenda, ribellandosi in qualche caso al sovrano ed alle sue leggi.
Uno dei capostipiti di queste famiglie, Norrandino Adesi, di origine angioina ed imperentato al sovrano, fu privato e spogliato di tutti i suoi beni per avere, si dice, sposato senza consenso del sovrano che occorreva chiedere preventivamente per la legge feudale che viggeva, ma che spesso si applicava arbitrariamente per ragioni estranee alla nobiltà, come ad esempio perchè troppe avversa alla corte la famiglia che richiedeva, o per punizione per aver partecipato a congiure.
Si ha per antica tradizione che verso la metà del duecento Tropea fu sede di una acerbissima strage di tre famiglie per discordie nate fra loro e che si tramutò in una guerra civile. Non occorre rammentare i particolari di questa lotta in cui rimasero uccise molte persone, ricorderò solamente come fu salvo un solo bambino della famiglia Roggeri, che scampò la vita perchè nascosto sotto le vestimenta della madre.
Terminate le lotte dopo un certo tempo un altro oscuro destino attendeva Bartoluccio Roggeri, che tale era il nome del bimbo scampato. Accadde un giorno che Bartoluccio trovandosi in campagna desse uno schiaffo ai figli d'un colono, il quale per vendicare l'offesa ricevuta, approfittando di una momentanea assenza del servo che lo accompagnava, lo uccise9. Così fu estinta la famiglia Roggeri il cui avremo ancora agio di occuparci in seguito.
Quindi disordini nel clero, nella nobiltà e nel laicato tutto, nel campo morale e di conseguenza osserviamo come pure nel campo materiale imperava il sopruso e disordini d'ogni genere, per cui sempre più ci sentiamo attirati a manifestare la nostra riconoscenza a Dio per aver suscitato in tempi di tanti disordini spirituali e materiali un restauratore magnifico nella serafica figura di San Francesco di Assisi.
E' bene che ricordi ancora come la Chiesa tropeana subisse in quei tempi altri soprusi, tanto che i vescovi furono costretti a rivolgersi e a valersi della forza della famiglia Ruffo che allora quasi dominava su tutta la Calabria.
Chiudiamo con questi brevi accenni il quadro delle condizioni di Tropea nei tempi che precedettero immediatamente la venuta dei buoni figli di San Francesco. Non quindi floride erano le condizioni della Chiesa Tropeana verso il tramonto del secolo XIII.
Sia i Papi che gli imperatori e re ebbero sempre una costante e generosa premura per Tropea. I primi per la gloriosa tradizione che legava Tropea alla Chiesa, essendo stata uno dei primi centri calabri ad abbracciae le fede di Cristo, a versare il suo sangue per Cristo, tanto che nelle lettere di San Gregorio Magno troviamo un solenne attestato di benevolenza pontificia per la nostra terra10.
I re condivisero questa premura per la costante fedeltà di Tropea alle sorti del reame, nè mai permisero che alcuno ne godesse la suprema signoria, ma sempre la lollero immediatamente soggetta alla corona e a seguito di quanto sopra ho accennato ricorderò come il re Carlo I d'Angiò si valse di un Ruffo per far cessare alcuni soprusi che pativa il patrimonio ecclesiastico per l'abusiva deviazione di alcuni corsi d'acqua.
Dopo la morte del vescovo Giovanni II, salito alla cattedra tropena nel 1217, sino al 1296 non abbiamo sicura notizia dei vescovi in quel tratto di tempo.
A diradare alquanto queste tenebre è una lettera di Papa Nicolò III che però balena di una luce alquanto sinistra. In questa lettera, ch'è diretta al vescovo di Nicastro e al Padre Guardiano dei Frati Minori di Monteleone, loro si ordina che vadano ad inquisire contro il vescovo di Tropea11. Chi era?
Che cosa aveva fatto?
Se tacciamo al riguardo le comuni istorie tropeane è bene ora tacere su questo doloroso argomento, senza palesare quel poco che a noi è giusto.
Se aggiungiamo ciò a quanto sopra ho detto troviamo il coronamento dei luttuosi avvenimenti che afflissero Tropea al tramonto del secolo XIII e avremo così completato la rassegna dei tempi che precedettero la provvidenziale venuta dei Frati Minori a Tropea.
Se il Papa scrisse al Padre Guardiano dei Minori di Monteleone è perchè vedeva, come i suoi predecessori, nell'Ordine Serafico un restauratore della religione. E Tropea appunto da quest'Ordine Serafico riebbe la fede, riebbe il buon costume, riebbe la scienza, riebbe la gloria di cui ancora oggi, come nei primi secoli, può andare orgogliosa.
Il vescovo che troviamo immediatamente dopo questo oscuro periodo è tal Giovanni, il quale conscio insieme al suo Capitolo della eredità assunta, e costatando l'opera magnifica e rigeneratrice che i primi figli di San Francesco svolgevano rivangelizzando con vero spirito apostolico la bella penisola italica, volle, per la riabilitazione del clero e del popolo, per la salute delle anime tutte aver qui nella cinta chiusa delle nostre mura un gruppo di questi novelli apostoli.
La Provvidenza Divina non dimentica della patria terrena dei martiri Domenica, Arsenio e Dorotea, concesse questa grande grazia.
Nei fasti della gloria tropeana è segnato a caratteri indelebili l'anno 1295 in cui i frati Minori vi ebbero per la prima volta fissa dimora.
I primi frati furono un fra Roberto e fra Tommaso da Morano.
Come prima residenza fu loro assegnata la chiesa di San Pietro alla riva del mare, San Pietro ad ripas, con l'orto annesso. Non consta da sicuri documenti la precisa identificazione di questa prima sede, però è tradizione costante accolta nella storia tropeana, c'essa sorregge dove oggi è la chiesa di San Francesco al Largo Galluppi. Non è poi neanche possibile identificarla con la chiesetta di San Demetrio, la quale di origine gentilizia, forse anche reale12, non ha caratteri tali da poterla considerare una costruzione a se, ma viceversa si deva considerare sempre come un corpo annesso ad altra grande costruzione sacra, sorgente sul medesimo luogo di quella attuale.
La tomba di Dante Alighieri in Ravenna presso la chiesa di San Francesco testimonia lo attaccamento del popolo, sia alto che basso, all'ordine serafici. Così la cappelletta di San Demetrio, un tempo di Santa Margerita, di carattere, come sopra ho fatto notare, gentilizio, sta a dimostrare in Tropea lo stesso attaccamento.
L'esterno di questa cappellina tutto in tuffetti squadrati a noi pervenuta quasi intatta, con bello e ricco portale a sesto acuto, con lievi contrafforti agli angoli ornati da colonnine agli spigoli, per equilibrare a spinta della crociera interna ancora esistente, è solamente deturpata dall'addossamento di fabbricati posteriori. L'estrno a levante è meno conservato per la manomissione della finestra archiacuta che si apriva nel centro fra i due contrafforti. Nell'interno alquanto manomesso sono apparsi dopo alcuni saggi da me praticativi nel 1920-21 parti di affresco che ricoprivano le pareti, la volta, ed i costoloni, divisi in piccoli riquadri con figure di Apostoli e scene della vita del martirio di Santa Margherita a cui la cappella era in antico dedicata, di pregevole fattura, con alcune aureole in rilievo in più d'un quadro, Dal loro superficiale esame balza evidente riannodarle a quel glorioso periodo dell'arte giottesca in Napoli. La loro somiglianza nei particolari cogli affreschi della cappella degli Scrovegni in Padova, e la presenza dello stemma angioino sulla cappella confortano questa ipotesi.
Il valore artistico di questa cappella per lo studio presente dona un forte indizio dal riacceso sentimento religioso operato dai frati di San Francesco.
Il culto di Santa Margerita, martire orientale, lo sta a testimoniare, essendo stati appunto i frati Minori a introdurlo qui con i loro continui contatti con la Terra Santa di cui avevano allora ottenuto la Custodia.
Ho sopra detto che del primo conventino di Tropea non resta nessuna traccia. Una spiegazione però si ha subito riportandosi in Assisi con i primi seguaci di San Francesco, come appunto possiamo considerare i nostri. I primi conventi francescani erano alcune povere capanne poste in giro ad una cappelletta, come erano i primi conventi della Porziuncola, di Rivotorto ecc.. Così forse era pure questo di Tropea, che solo col tempo, mutando alquanto il primo concepire, venne acquistando maggiore consistenza in una muratura più stabile, facendolo prima di piccole dimensioni che a mano a mano bisognò aumentare per le crescenti esigenze.
Per il loro tenore di vita piena di privazioni, per lo spirito di apostolato, che li animava, per il gran bene che facevano in mezzo al popolo, grande venerazione in poco tempo i primi frati si acquistarono in questa cittadina. In parecchi privilegi di sovrani vennero riconosciute queste benemerenze.
Primo fra tutti annoveriamo la lettera di Bonifacio VIII con la quale questo grande Pontefice approva e benedice la concessione della chiesa di San Pietro sulla ripa del mare di Tropea nel 1296, e lo stemma dei sovrani angioini veniva in questo tempo innalzato sulla chiesetta di Santa Margherita.
La cattedra vescovile tropeana restaurata per ordine del Papa, come sopra ho detto, dall'Ordine francescano, veniva in questo periodo assunta da prelati insigni, la cui opera fiancheggiata e sorretta dal serafico ordine resta ancora oggi a perenne gloria della nostra patria.
E' un periodo di fulgore per noi, di gloria religiosa e civile. Nel periodo di lotte successivamente fra le dinastie Sveva, Angioina e Aragonese, Tropea ossequiente alla volontaà del Pontefice, resta fedele a chi lei protegge: agli Angioini; e per la sua fedeltà più tardi si fregerà di un motto che ancora l'onora e la distinue:

SOLA TROPEA SUB FIDELITATE REMANSIT
Religiosamente rifatti i costumi di Tropea si appresta a rifare le sue chiese. E' un periodo di intensa attività edilizia religiosa e i più bei monumenti che ancora oggi l'adornano appartengono a questo periodo fra il tre e il quattrocento.
Esse sono la ricordata chiesa di Santa Margherita, la chiesa della Santissima Annunciata, parte della chiesetta della Madonna dell'Isola e parte della Cattedrale, e di queste due ultime rammentiamo pure come in questo periodo venissero solennemente consacrate.
Mentre dei secoli precedenti ben poco rimane, di questo periodo invece è ben ricca la nostra patria.
Ma questa rinascita, questa benefica influenza non è stata solamente in Tropea ma in tutta la sua Diocesi in cui si espande tutta la sua vita religiosa e giunge fin gli estremi confini del suo territorio.
Così ad Amantea vediamo sorgere il convento di San Francesco, mentre a Fiumefreddo Bruzio sorge contemporaneamente un altro conventino presso la chiesa del Carmine quasi a continuare in quella contrada la bella tradizione del grande Abbate Giocchino13.
Accresciuto grandemente di numero l'Ordine serafico non mantenne compatta la sua unione tanto che al volger del quattrocento lo troviamo scisso in più famiglie. A capo di una delle tendenze, e precisamente a quella che mirava alla perfetta osservanza della primiera regola era San Bernardino da Siena.
Questo gran figlio di San Francesco, che nei primi suoi anni di vita religiosa trovava grande difficoltà alla predicazione per la fiacchezza della sua voce, tosto che fu liberato da questo difetto per intercessione della Santissima Vergine, predicò in quasi tutte le città d'Italia. Ovunque si parlava di frutti meravigliosi delle sue prediche. E mentre la società nostra tendeva a una vita paganeggiante per l'umanesimo invadente, per virtù di questo gran Sommo Predicatore molte anime ritornarono a Cristo.
Dalle sue prediche i peccatori uscivano di chiesa pieni di compunzione, versando lagrime risoluti di abbandonare i loro disordini. La parola di Dio era nella sua bocca come una spada affilata, e come un fuoco che smaglia quanto vi ha di più duro e di più resistente14.
Tropea in quel periodo di relativa calma per reame di Napoli era in un rifiorire di studi umanistici, come in tante altre città d'Italia, e se da una parte ciò ridondava a suo onore d'altra parte andava a scapito della sua fede per le tendenze paganeggianti di tali studi, che avevano un grande riflesso sulla vita civile. In quel turno di tempo dovremmo appunto ritrovare forse le prime origini della nostra gloriosa Accademia degli Amorosi, che poi tramutò il nome in quello degli Affaticati15.
Se la sua fede traballò forse un pò, presto venne però rinsaldata per virtù di due Santi che ebbe l'onore di accogliere fra le sue mura.
Il primo era il suo Vescovo: il beato Giovanni de Dominici di Firenze e il secondo San Bernardino da Siena. Due toscani che seppero rigenerare la nostra cittadina e tutta la Diocesi nostra.
Bernardino da Siena nella sua peregrinazione apostolica in Calabria dimorò alquanto e ricoperse pure l'uffico di Padre Guardiano nel nostro convento di San sergio presso Drapia, che il nostro vescovo Monsignore Nicola Accapaccia, vedendolo vicino a ruina, aveva donato nell'anno 1421 ai Padri dell'Osservanza al tempo del Provincialato di Padre Agostino da Firenze, che lo restaurò con l'aiuto dello stesso Vescovo e del successore Monsignore Mornile.


Tropea. Biblioteca Comunale. Cassone Nuziale proveniente
dal Convento di Santa Chiara ( foto primi novecento).

Dovettero fremere allora le vecchie mura di quel vetusto convento, un tempo cenobio Basiliano, che già nelle incursioni saracene tenne celate gelosamente le reliquie di Santa Domenica, nell'albergare ora un altro grande confessore di Dio nella persona di San Bernardino da Siena.
Durante questo suo soggiorno, Tropea ebbe la gran ventura d'averlo predicatore nel suo Duomo normanno che alcuni secoli prima un altro grande oratore sacro, probabile gloria tropeana, aveva salito e intendo dire Teofane il Ceramita.
Di San Bernardino possiamo dire che aveva un metodo tutto speciale di predicazione che unito al grande ardore che lo animava gli dava grande consolazione di potere raccogliere abbondantissimo frutto.
Alla fine dei suoi discorsi egli mostrava al popolo una tavoletta su cui era scritto in lettere d'oro il nome di Gesù, e invitava i suoi uditori a mettersi in ginocchio per lodare e adorare il Redentore degli uomini.
Quando terminata la Quaresima San bernardino si partì da Tropea, i buoni tropeani ottennero ch'egli lasciasse a perpetuo ricordo della sua predicazione questa tavoletta che fu conservata per più secoli con grande venerazione16. Oggi però a noi non resta traccia, dubitiamo che nello abbandono completo del convento di San Sergio in seguito al terremoto del 1783 questa reliquia sia andata dispersa fra le macerie della chiesa e del convento.
Della predicazione di San Bernardino nel petto dei buoni tropeani è rimasto un solco profondo tanto che parecchi furono coloro che abbandonarono il mondo per darsi a Dio nella quiete dei chiostri, o all'ardore delle missioni.
Ricordiamo a tal proposito una gloria di casa Raponsoli nella persona di Padre Salvatore Raponsoli, figlio del primo venuto di tal famiglia in Tropea nel quattrocento, che vestito l'abito francescano andò missionario in Turchia, ove un giorno in odio alla fede cattolica venne carcerato per essere poi martirizzato. Iddio però permise che uno di quelli da lui convertito riuscisse a liberarlo. Rimpatriato poco dopo morì in concetto di santità.
Prima però di passare oltre rammentaiamo in breve accenno come l'opera di San Bernardino e il grande impulso da lui dato all'ordine francescano non si restrinse nella nostra Diocesi alla sola Tropea, ma che si estese anche agli altri paesi che accolsero l'ardente e mistico frate.
Ricorderò ancora una volta Fiumefreddo Bruzio in cui sorse un altro convento detto dell'Osservanza, che si ritiene fondato da San Bernardino e l'altro convento di Amantea allo stesso San Bernardino poi dedicato e che venne eretto dalla pubblica pietà e con breve di Papa Eugenio IV dell'anno 1436.
Come sempre al risveglio religioso segue un certo risveglio artistico che ferma in certo qual modo nella materia i sentimenti religiosi che tornano a fremere nei petti dei credenti.
A Tropea sedeva alla Cattedra Episcopale il vescovo Giovanni de Dominici, che ho già mentovato, proveniente dallo ordine dei Predicatori di San Domenico, oggi venerato col titolo di Beato.
Ho già pure detto come il risveglio religioso avvenuto in Tropea nel quattrocento non sia solamente frutto di San bernardino da Siena, ma di entrambe. In questi due santi incontratisi a Tropea troviamo quasi una tarda rimembranza del beato incontro di San Francesco di Assisi con San Domenico di Guzman allorquando a questi era balenata l'idea di entrare nell'ordine serafico.
Il beato vescovo e il Santo Predicatore appartenenti a due ordini diversi li troviamo umiti a Tropea a inalberare nella nostra terra lo stesso vessillo del regno di Dio e a incidere il suo santo nome nei petti dei fedeli tropeani.
Ottenuto questo intento, lo si volle tradurre in atto con il restauro e abbellimento del tempio del Signore. E questa volta si è valsi dell'opera di insigni che al fervente domenicano nostro vescovo fu facile trovare nello stesso suo ordine per di più resta accertato che il beato Giovanni Dominici fu l'ispiratore del beato Angelico e in altro mio lavoro, ho mostrato come appunto per mecenatismo di questo insigne presule venisse decorata da un seguace dell'Angelico la cappella normanna nel palazzo vescovile oggi appartenente al Monte di Pietà.
Altri tesori d'arte vennero così pure ad arricchire il convento di Amantea ove ammirasi nella chiesa, oltre gli affreschi del chiostro la bella statua della Madonna scolpita da Antonello Gaggini che ad un esimio cultore d'arte17 non sembra neppure sfiorata dagli scalpelli, bensì sbocciata intiera, come per incanto, da un blocco carrarese, tra un sogno di bellezza e una lagrima d'emozione dell'artista.
Il convento di San Sargio che al tempo di San Bernardino attraversò un periodo aureo della sua esistenza, circa un secolo dopo, l'anno 1587, passò in mano dell'altra famiglia francescana dei frati minori osservanti riformati che la tennero fino alla prima soppressione del 1650.
Questo convento di cui oggi non resta alcuno avanzo murario, a giudicare dai pochi frammenti artistici oggi conservati nella chiesa matrice di Drapia, ove furono trasportati dopo il terremoto del 1783, come ho prima ricordato, dovette racchiudere opere di un discreto pregio artistico.
Rammenterò fra gli altri stalli in legno del coro, una bella e grande tela della Madonna degli Angioli, e un busto ligneo di San Sergio.
I buoni tropeani memori del gran bene a loro portato dalle ardenti prediche di San Bernerdino desideravano fortemente che i buoni padri avessero stanza più vicina alla nostra città e finalmente nell'anno 1521 videro esauditi i loro voti.
I buoni figli di San Francesco di Assisi della famiglia dei minori Osservanti, che abitavano il convento di San Sergio, vedendo che questa loro sede minacciava continuamente rovina per la sua posizione a picco sul torrente Burmaria, che come sopra ho ricordato finì d'inghiottirlo, accolsero volentieri l'invito dei tropeani e si stabilirono nel convento dell'Annunciata a ponente di Tropea.
In questo luogo da tempo immemorabile esisteva, pare sin dal secolo XII, un antico romitorio, di cui resta oggi un solo avanzo della antica chiesa nella grandiosa abside quadrata di stile gotico trecentesco.
Ricorderò ora un avvenimento celebre per cui questo antico romitorio venne ampliato a trasformato in uno dei più grandiosi conventi posseduti dall'ordine francescano.
Si racconta che Carlo V di ritorno dalle guerre di Africa contro Haeredin Barbarossa mentre transitava di notte tempo nel nostro mare fosse sorpreso da una terribile tempesta che minacciava di inabisssare la nave su cui si trovava. Nell'imperversare dei marosi fra la nebbia i poveri naviganti sballottati da un punto all'altro persero l'orientamento e probabilmente avrebbero corso maggior pericolo se non avessero inteso uno scampanio che loro indicava di trovarsi in prossimità di terra.
Era appunto la campana del nostro romitorio dell'Annunciata che avvistata in mare minacciante di naufragare, suonava a distesa invocando preghiere e aiuto per i miseri naviganti, come ancora oggi si usa.
Per l'aiuto dato dalla gente venuta al soccorso della nave, potette questa guadagnare la riva. L'imperatore Carlo V volle che, in segno di riconoscenza per lo scmpato pericolo, si adornasse con regale munificenza la chiesa del romitorio. E così fu fatto.
A tanta regalità anche la nobiltà tropeana volle concorrere ad adornare il tempio vetusto.
Rammenterò il soffitto in legname di mirabile e paziente fattura, tutto diviso in cassettoni variamente disegnati e dipinti, eseguiti a cura dell'imperatore da un artista napoletano, forse da uno dei d'Amato.
A cura viceversa dell'arcidiacono Alfonso Tranfo di cui notasi le armi sul basamento delle statue, fu eseguito il bel gruppo marmoreo dell'Annunciata che si vede sull'altare maggiore opera di un certo pregio, forse di Giovan Battista Mazzolo.
La famiglia Tomacelli faceva eseguire quel bel coro in legname con intarsi che ammirasi nell'abside. Ed altri lavori ancora debbonsi alla munificenza d'altre famiglie. Nel corso della presente trattazione avremo ancora agio ad accennare ad altre benemerenze delle nobili famiglie tropeane a pro della chiesa di Dio e del Serafico Ordine Francescano nelle sue diverse famiglie.
Oltre questa benemerenza giova ricordare anche il contributo di elementi che Tropea diede alla famiglia francescana, di cui ho già dato un luminoso esempio. Ricorderò ora qui il Padre Pasquale della nobile famiglia Martirano, che accrebbe e abbellì il convento e fra Paolo di Alafito che ornò la chiesa di altre pitture, entrambe vissuti sullo scorcio del secolo XVI; e il padre Gregorio da Parghelia che fu prima superiore del convento di San Sergio, che egli restaurò, e indi promosso guardiano del Santo Sepolcro in Gerusalemme.
Non possiamo ora certamente non trovare un certo legame fra il risveglio in Tropea determinatosi con la venuta dei frati di San Francesco al convento dell'Annunciata e il largo contributo dato da Tropea e dalla Calabria intera alla lotta che allora si combatteva dalla Europa intera contro la barbarie turca che trionfante minacciava la cristianità presso le sedi sue più importanti. San Francesco, l'Araldo del gran Re, prima, e l'ordine suo serafico poi, ardenti propugnatori della liberazione della Terra Santa, mal certo vedevano le vittorie del turco.
All'appello del Papa Pio V, tortonese, seguì l'apostolica propaganda degli ordini religiosi e in particolare modo di quello serafico. In esso appunto dobbiamo ricercare coloro che spinsero Tropea a dare si largo contributo alle armate cristiane.
Un tropeano, Gaspare Toraldo, sacrificando alla causa santa tutto il suo avere per approntare a sue spese tre galere, ottenne da Dio la grazia d'essere il primo a mettere piede su una nave turca e piantarvi la bandiera della chiesa18.
Era vescovo di Tropea in quel tempo Monsignore Girolamo de Rusticis, romano, che governò la nostra diocesi per ben 23 anni. Verso la fine del suo pontificato nell'anno 1590 un'altra famiglia francescana, quella dei padri Cappuccini, fu chiamata in Tropea. Si era a lei data dapprima un piccolo fabbricato in contrada Vicci, dove secondo un'antica leggenda erano state nascoste un'altra volta ne l'evo di mezzo le venerande reliquie di Santa Domenica.
Ma la cattiva aria del luogo impediva alla sorgente comunità d'aver lunga vita, tanto che i buoni padri pensavano di abbandonare la nostra città per trasferirsi altrove.
Provvidenzialmente però nell'anno 1598 durante la quaresima predicava sulla nostra cattedrale il cappuccino padre Bonaventura da Catanzaro, di casato principesco essendo della famiglia Aierbi d'Aragona, che abbandonate le antiche grandezze, seppe con la sua eloquenza e santità tanto magnificamente attirare verso il suo ordine le simpatie dei tropeani, che terminata la Quaresima alcuni notabili gli offersero di somministrargli tutto ciò che gli sarebbe stato necessario per la erezione di un altro convento in luogo di quello malsano di Vicci.
Il buon padre Bonaventura accettò e il nostro vescovo Calvo piantò la croce sul luogo dove sarebbe sorto il nuovo convento, quello della Sanità.
Alla offerta verbale seguirono i fatti e la nobiltà tropeana, come sempre, seppe fare grande onore al suo casato servendo largamente la causa di Dio da cui si riprometteva larga messe di bene per la vita sua spirituale.
Giuseppe Calzerano, già benemerito per altre opere, donò il suolo occorrente che aveva espressamente acquistato da Mario Fazzari per ducati 360.
La baronessa Caterina Tomacelli, la cui famiglia abbiamo trovata già benemerita dell'altro convento dell'Annunciata, diede la pietra occorrente alla fabbrica del convento e della Chiesa.
Iacobello Carbonara donò le travi per i tetti; Leonardo Giffone dette cento ducati, e Antonello Galluppi ben mille ducati dichiarandosi inoltre pronto a corrispondere tutto ciò che sarebbe stato nevessario per compiere l'opera.
Di tale generosa offerta largamente si valsero i frati che in brevissimo tempo condussero a termine tutti i lavori e in segno di riconoscenza furono ben lieti di inalzare le armi dei Galluppi sulla facciata della loro  nuova Chiesa.
Altre famiglie ancora concorsero alla ornamentazione della chiesa, tra cui citeremo Alessandro Tranfo che donò lo artistico altare maggiore e la bella pala che vi troneggia.
L'altare maggiore, finemente lavorato in tutta la sua superficie in basso e in alto rilievo, si riannoda a tutta quella tradizione artistica francescana che ha dato alla nostra Calabria nei secoli XVI e XVII tanti magnifici tesori d'arte, lavori insigni di pazienza e buon gusto eseguiti nella quiete dei chiostri nella continua elevazione della mente a Dio.
Il magnifico quadro della Madonna, opera di Giovanni Angelo d'Amato, è di natura tutta francescana; San Francesco ch'è in basso, sembra l'anello di congiunzione, come lo fu in vita tra le miserie umane rappresentate dagli ammalati del fondo, e la misericordia divina rappresentata nella espressione più eletta e gentile attraverso la bella Madonna che tiene in braccio il Signore dell'universo.
Accanto alla figura di padre Bonaventura di Catanzaro, primo guardiano di questo convento, di cui ho già fatto cenno, mi piace ricordare uno dei suoi primi compagni in questo convento. E' fra Egidio Cordova, figlio dello illustre Cesare Cordova spagnolo, e della nostra concittadina Caterina Miglirese dei principi di Megara. Egli visse una vita esemplare dando prove di esimie virtù e poi morì in concetto di santità.
Durante l'episcopato di monsignore Calvo ancora un altro avvenimento sta a domostrarci come solamente attraverso l'ordine serafico i nostri antenati attendevano e speravano alla salvazione e salute delle anime.
Ho già diffusamente accennato in principio alla feroce strage della famiglia Roggeri, terminata con la uccisione del piccolo Bartoluccio, l'unico superstite della famiglia dopo le varie e sanguinose lotte della metà del duecento.
Orbene la madre di Bartoluccio di nome Marianna Mumoli, orbata di tutti i suoi cari, rimase afflittissima e inconsolabilissima dopo l'ultima scagura che la privava della unica speranza sua e dell'unico erede alla di lei successione nella persona del suo piccolo Bartoluccio, che amava teneramente come la pupilla dei suoi occhi. In tante sventure ella fu tocca da un lume superiore e divino per cui destinò il suo ricchissimo patrimonio alla fondazione di un monastero di Clarisse che fu uno dei primi di tal religione ad essere formato in Calabria. Volgendo l'anno 1261 essa stessa ne vestì l'abito entrando nella clausura, dove poi morì.
Ma questo convento delle Clarisse, dedicato a Santa Chiara, era riservato escusivamente per le vergini della nobiltà che intendevano abbracciare la regola del secondo ordine dato da Francesco a Chara degli Sciffi.
Questo monastero, che era fra i più antichi dello stesso ordine, accolse sempre un'eletta chiera di giovani e diciamo pure, il più bel fiore della nobiltà tropeana.
Quale amore, quale altro fine più nobile e santo che quello di servire Iddio?
Sebbene questo monastero fosse riservato alla nobiltà, pure nel 1547 si pensò d'ingrandirlo con lasciti di Giovanni e Carlo Romano, considerato che era insufficiente per il numero delle monache che accoglieva.
Il nostro vescovo Calvo, da vero pastore delle anime, vedendo priva la nostra diocesi di monasteri per donne di civile condizioni e del popolo fondò quattro altri conventi di clarisse.
Questi sono: quello di Santa Domenica in Tropea, di Santa Chiara in Amantea, di San Giacomo in Aiello e di Santa Chiara in Fiumefreddo Bruzio. Tutti e quattro questi conventi furono fondati alla fine del cinquecento e ai primi del seicento. A noi poche notizie sono giunte intorno alla loro vita, non solo, ma di alcuni quasi ogni traccia si è persa attraverso le distruzioni e le vicende dei tempi. La clausura a cui si votarono le nostre vergini è così completa, perenne. Solamente a varcare la soglia di una delle loro chiese ci può trapelare lontanamente quale poteva essere la vita di completo sacrificio che quelle angeliche creature menavano nel ristretto chiostro.
Questi monasteri non ebbero vita tanto lunga.
Per il solo convento di Santa Domenica in Tropea aggiungiamo che quando salì alla cattedra tropeana monsignore Felice Paù, questi pensò di chiudere il convento destinando le monache che vi erano ai Conventi di Santa Chiara e a quello della Pietà, di cui appresso discorreremo, mentre alla loro chiesa, che era l'antico tempio di Marte, poscia dedicato a San Giorgio fu trasferita la parrocchia di San Nicola: demolita nel 1784.
Verso la metà del secolo XVII un altro monastero di clarissa veniva fondato a Tropea a cura di Porzia Carbonara.
Anche qui ci troviamo di fronte ad un altro atto che riveste un certo carattere di espiazione, o forse per meglio dire, di propiziazione per come si è notato nella fondazione del primo nostro convento di Santa Chiara. Da Porzia Carbonara, sposata a Scipione Adesi, presto rimasta vedova, nacquero due figli: Girolamo e Francesco. Il primo come risulta dai fatti che prendo a narrare doveva avere un carattere abbastanza violento che fu la causa della sua rovina.
Dopo una predica di Quaresima Girolamo uccise un medico col quale aveva avuto precedentemente un alterco di cui si ignora la ragione. Arrestato e portato in prigione fu redaguito severamente dal regio Governatore. Ma Girolamo mal sopportava la lezione onde alzatosi dalla panca del carcere tirò uno schiaffo al governatore, il quale per difendersi dato doi mano alla spada gliela inferse nel petto iuccidendolo.
La madre desolata dalla fine tragica del figliolo decise di abbandonare il mondo. Con i suoi ricchi beni, col consenso di Monsignore Mandino, nostro vescovo di allora, decise di fondare un altro monastero di clausura sotto il titolo di Maria Santissima Addolorata, che comunemente poi fu indicato col nome di Pietà.
Terminata la costruzione nell'anno 1648 al tempo del vescovato di monsignor Maranta, Porzia Carbonara si chiuse insieme con altre docici vergini nel nuovo convento sotto la stessa regola delle clarisse.
Ma anche questa novella comunità francescana ebbe vita relativamente breve di appena un secolo, giacchè nell'anno 1784 dopo l'orribile terremoto che distrusse la vicina chiesa parrocchiale di San Giacomo, si pensò di trasferirvi la cura delle anime.
Alcuni anni dopo nel 1795 anche il convento fu trasformato in convitto di giovanette civili, a cui di assegnarono tra le altre anche le rendite dell'antico convento di San Sergio, prima ricordato. Ma questa non fu l'ultima trasformazione del monastero della Pietà chè nell'anno 1805 fu adibito prima ad ospedale militare e poi a quartiere militare francese, mentre le rendite passarono al convento di Santa Chiara, il più antico monastero di donne, che fu quello, dei quattro monasteri femminili, che ebbe vita più lunga.
Non possiamo lasciare questo vecchio convento senza dire una parola sul bello altare maggiore che adorna la chiesa.
E' un fine lavoro in marmo tutto intarsiato con arabeschi di fiori, animali ecc. in marmo di vari colori, eseguito a cura dei marchesi di Francia, di cui è lo stemma posto sul paliotto.
Fine meno immediata ebbero i conventi francescani maschili, che solamente per la legge dell'anno 1867 venivano chiusi con sommo dolore dei nostri avi mentre si proclamava la libertà di coscienza.
Attraverso le date e gli avvenimenti che ho cercato ricordare in questa mia breve trattazione, abbiamo visto come ormai la vita della nostra cittadina si era quasi innestata a quella dell'ordine francescano che fin dal suo nascere ebbe in questa terra ospitale magnifica espansione. Possiamo dire e affermare, dopo la esposizione fatta, che Tropea dal 1261 al 1867, cioè per sei secoli completi, fu una città eminentemente francescana sia per le numerose famiglie dei diversi ordini che ebbero stanza, sia per lo affiatamento che legava i cittadini all'ordine francescano in generale, sia per il largo contributo di bene che i buoni frati profigarono fra noi.
Solamente a larghi tratti ho accennato alle fiorenti comunità della Santissima Annunciata, di San Francesco al largo Galluppi, e a quello della Sanità.
Non posso terminare queste note senza accennare al contributo che i buoni frati diedero alla coltura tropeana.
Sebbene la scienza e gli studi profondi non siano una caratteristica degli ordini francescani, come lo sono le missioni, pur possiamo affermare che nella nostra cittadina anche nel campo degli studi l'ordine francescano si rese benemerito.
La ricca biblioteca che si conserva nel convento dell'Annunciata, ci testimonia quale cenacolo di studi dovette essere e fucina di insigni uomini dotti, tra cui primeggiavano i figli di San Francesco che qui venivano ad attingere sapere per le loro continue predicazioni missionarie nella Calabria.
Anche nell'altro convento di San Francesco i buoni frati conventuali si resero benemeriti della coltura tropeana per le scuole che vi tenevano. Non solo, ma la gloriosa Accadenia degli Affaticati, che ho già ricordato, qui spesso si riuniva per le sue tornate accademiche.
Nel secolo XVII mentre l'accademia attraversava un periodo aureo ne fu presidente il padre Michelangelo Panzani di questo convento, fiorentino di nascita e colto letterato.
Dobbiamo certamente allo influsso benefico di questo ambiente francescano se i nostro dotti seppero sempre mantenersi fedeli a Cristo, e più d'un ode sacra letta in una di queste tornate ci attesta questa influenza francescana.
Anche i commissari del Sovrano Militare Ordine di Malta qui si radunavano per la compilazione dei processi nobiliari dei cavalieri tropeani. Ospitalità questa che afferma non solamente la comunità di fede che univa i due ordini religioso e secolare per la rivendicazione della Terra Santa, ma anche lo affiatamento che esisteva tra la nobiltà tropeana e le diverse famiglie francescane di Tropea.
Ho già fatto notare come appunto i nostri nobili avi seppero largamente aiutare le diverse istituzioni alla epoca della loro venuta per degnamente contraccambiare il bene spirituale che da queste comunità religiose se ne ripromettevano.
Un particolare affetto univa quindi la nobiltà tropeana agli ordini Francescani a cui diede pure numerosi elementi. E di questo attaccamento ne abbiamo un altro segno nella confraternita di patrizi che nel secolo XVII si adunava nella chiesa di S. Francesco: non solamente, ma tutte le famiglie vollero in questa chiesa avere le loro cappelle gentilizie.
Citerò solamente quella della famiglia più benemerita verso i frati, ed è quella del Tomacelli che più volte ho ricordato per la sua larga munificenza a pro di più d'un convento nostro francescano. La loro cappella era inoltre la più insigne per richhezze di marmi, tanto che le antiche cronache la additavano come una meraviglia d'arte scultoria, ma di tutto a noi non resta che il ricordo.

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Nella storia dell'Ordine Francescano Tropea per ben sette secoli, cioè fin dalla fondazione degli stessi ordini, ha scritto una pagina magnifica, che a brevi tratti ho cercato ricordare.
Ho richiamato in principio alcuni tristi avvenimenti della nostra diletta città natale e ho pure mostrato come provvedinziale e benefico fu lo spirito francescano che allora cominciava a diffobdersi nella nostra terra.
Ho ricordato il caso triste dei Mumoli in cui si è trovato una esplosione delle divergenze, delle vendette che scindevano le famiglie,
insanguinavano le contrade, e della lotta sorda tra le classi.
Lo stesso ambiente, che era comune a tante altre città d'Italia era ad Assisi. E proprio in questo ambiente procelloso l'Apostolo Umbro iniziò la sua propaganda, facendo risuonare in pubblico e in privato la parola della pace e della carità evangelica.
E dietro il suo esempio abbiamo visto rifiorire anche a Tropea una nuova primavera spirituale, una rinascita di fede e un miglioramento di costumi, mentre nuovi rapporti più civili e più crisstiani correvano fra le classi.
 

NOTE

1 Marafioti - Croniche et Antichità di Calabria - Padova 1601.
2 Fiore - Della Calabria Illustrata - Napoli 1743.
3 Fiore - Opera citata, tom. II pag. 32.
4 P. Roberti - S. Francesco di Paola.
5 Siragusa - Il Regno di Guglielmo I in Sicilia - Palermo 1929.
6 V. Capialbi - Memorie della Chiesa Tropeana - Napoli 1852.
7 Taccone Gallucci - Regesti dei Romani Pontefici per le Chiese della Calabria - Roma 1902.
   Minasi - Le Chiese di Calabria dal V al XII secolo - Napoli 1896.
8 Toraldo F. - Il Sedile e la Nobiltà di Tropea - Pitigliano 1898.
9 Sinopoli C. - Diario del Monastero di S. Chiara in Tropea.
10 Taccone Gallucci - Op. cit..
11 Taccone Gallucci - Op. cit..
12 F. Toraldo - Cappella di San Demetrio - Giornale Vita Nuova 1923.
13 P. Toraldo - Fiumefreddo Bruzio - 1926.
14 Butler - Vita dei Padri, dei Martiri e dei Santi - Venezia 1865.
15 Scrugli - Discorso storico sull'Accademia degli Affaticati di Tropea.
    F. Toraldo - Dell'Accademia degli Affaticati di Tropea - Giornale il Galluppi 1923.
16 Taccone Gallucci - Monografia delle Diocesi di Nicotera e Tropea - Reggio Cal. 1904.
17 A. Frangipane.
18 F. Toraldo - I Calabresi a Lepanto.