LA PITTURA COLTA DI FRANCESCO CAIVANO
di Silvano Onda
Analisi iconografica dell'opera
Cercherò per quanto mi è possibile in questo scritto, di tentare una analisi descrittiva dei contenuti iconografici presenti nell'opera, parlando dei simboli, delle immagini e dei criteri compositivi, nella speranza di decifrare i significati che a prima vista possono apparire, al profano, oscuri e complessi. L'opera è stata realizzata con l'intento di istruire e confermare la salda fede certosina. Da una parte compendia le vicende e lo spirito dell'ordine, dall'altra vuole rinnovare la devozione e la preghiera a quella "Gerarchia" a cui l'ordine si è sottoposto. La tela è stata dipinta dieci anni dopo la santificazione del monaco di Colonia2 con un'iconografia che tende a sottolineare, tra l'altro, che a tutti i fedeli, anche ai più umili, è aperta la via della gloria celeste (vedi certosino a sinistra del quadro mentre indica la Trinità con lo sguardo rivolto verso gli spettatori). E' indubbio, quindi, il suo valore didattico, nel momento in cui ripropone, in chiave pittorica, la storia dell'ordine consacrandola assieme al suo Santo Fondatore. Al di la di ogni divagazione narrativa tutti i simboli presenti nel dipinto rivestono un preciso significato e si inseriscono legittimamente nella liturgia certosina. Si tratta di una grande composizione a forma rettangolare con il centro occupato dalla testa del santo Patriarca che con lo sguardo rivolto verso l'alto, nella direzione della Gerarchia Celeste, suggella il legame tra Cielo e Terra (ierogamia). Intorno al santo fondatore è schierata un'adunanza di Santi Certosini disposti a cerchio mentre il santo, con il suo verticalismo, ne segna l'asse centrale che collega la Sfera Celeste con lo Spirito Santo. Ogni singola figura è rigorosamente subordinata all'insieme in una continua ricerca di simmetrie dove lo spazio stesso diviene simbolo di un universo spirituale gerarchicamente ordinato. I Santi Certosini, (Sei e con s. Bruno Sette), seguono un andamento circolare. Due sono inginocchiati in primo piano di cui, uno nell'atto di scrivere e l'altro in posizione orante, In piedi ne abbiamo quattro distribuiti due per parte, a destra e a sinistra del santo, con in testa la Mitra e in mano il Pastorale, Dei certosini a sinistra uno indica, rivolto al pubblico, la SS. Trinità portando al suo fianco un cigno (simbolo di purezza) che sembra assistere, genuflesso, all'evento sacro, l'altro invece impartisce la Santa Benedizione. Dei due sulla destra, uno regge la candela, volgendo lo sguardo verso la Trinità, e l'altro, con il capo chino, sembra leggere da un libro tenuto con le mani in modo rigido per via della stretta che deve dare, tra braccio e libro, al pastorale per evitare che cada. I personaggi, tutti, di cui alcuni con le teste rasate, sembrano emergere, da abiti monacali ampollosi e rigonfi, quasi metallici, per via del loro trattamento cromatico a forte contrasto di luce e ombra. Le pieghe degli abiti sono rese dal taglio netto, simili a lame affilate compatte e fendenti. I volti presentano un buon disegno con una discreta precisione anatomica. Tutti assumono atteggiamenti diversi nel tentativo, forse, di rompere la rigida struttura compositiva. S. Bruno è rappresentato, nonostante la presenza degli altri certosini, come un'immagine devozionale. Egli, attraverso i suoi attributi, esprime la condizione di beatitudine ergendosi al centro di tutta la composizione. Con la mano destra tiene il ramo d'olivo e con la sinistra il breviario aperto con le pagine rivolte ai fedeli. In basso, se si osserva con attenzione, vi è la presenza di un demonio: simbolo dell'eresia sconfitta che nega il culto dei santi. Questi è rappresentato sottomesso, assediato e chiuso senza via di scampo dentro ad un "Cerchio-sacro" che neutralizza la sua potenza negativa3. I monaci, intorno a s, Bruno sono disposti, come già detto, a forma di cerchio, ma se raccordiamo con dei segmenti tutte le teste dei certosini, essi formano un esagono. Questa forma geometrica ci riporta alla Milizia Celeste: sacerdoti puri, onniscienti e immortali attenti all'evolversi del dramma cosmico. All'interno di questo esagono, con s. Bruno al centro, i certosini rendono innocuo il demonio che a differenza di altre raffigurazioni più tradizionali, laddove il maligno viene schiacciato o infilzato dalla spada dell'Arcangelo o dalla lancia di s. Giorgio, qui è sottomesso senza nessuna violenza fisica. I monaci, dall'aspetto ieratico, ci ricordano le "caste-sacerdotali", un convegno di "uomini-saggi" di elevatura esoterica disposti nella forma magica dell'esagono come uno scudo di protezione. E' questa una forma geometrica cara ai Magi della Cappadocia chiamati: "Sacerdoti del Fuoco". Essi potevano uccidere le vittime sacrificali solamente in presenza del simbolo geometrico delle milizie celesti. Nella pittura del Caivano possiamo vedere il demonio intrappolato nella forma geometrica descritta dalla posizione dei monaci mentre, questi, non praticano su di lui nessuna violenza. Il maligno è tenuto semplicemente a bada nella speranza che possa redimersi e trovare anch'esso finalmente la pace. La sfera della terra, come si può notare, è posta al centro dell'universo mentre ai lati vi siedono il Padre e il Figlio con lo Spirito Santo che discende dall'alto. S. Bruno e i suoi certosini si pongono in basso come "civilizzatori di terre"; figure intermediarie che mantengono il contatto tra la vita terrena e la guida celeste. Il santo con la testa reclinata alla sua destra, volge gli occhi al cielo in sublime contemplazione dall'infinito e dalla trascendenza dell'universo. Mentre due suoi certosini invocano le Grazie da dispensare ai fedeli, inducendoli alla modestia nel rivolgersi a Dio. Sullo sfondo si scorge l'ambiente paesaggistico con la presenza di una chiesetta, (il riferimento è senz'altro a s. Maria della Torre o alla certosa di s. Stefano del Bosco), circondata da pochi alberi lunghi e dritti. S. Bruno è disposto al centro ponendosi come: asse in statica verticalità che ne determina la simmetria. La testa occupa il centro esatto della composizione e sempre dalla testa si dipartono tutti i raggi direzionali che allineano tutti i personaggi tra di loro. Il punto dove il santo ha la testa segna il limite di demarcazione tra Terra e Cielo, Alto e Basso, Naturale Sovrannaturale. In alto a destra possiamo vedere il Dio-Padre-Onnipotente sedere ricurvo sul trono avvolto dentro una sontuosa pianeta stellata e decorata con ricchi ricami in seta a filamenti d'oro e chiusa sul davanti con una spilla gemmata. La sua espressione è severa, e, per i caratteri somatici marcati, fa pensare ad un soggetto tratto dalla realtà. Al posto delle tradizionali chiome bianche, come ci si aspetterebbe dal Padre-Eterno, i capelli sono brizzolati fecendo della figura un personaggio non vecchio ma di mezza età. L'espressione sembra corrucciata mentre la piega che le solca la parte destra del viso tradisce una smorfia di sdegno. Per i tratti fortemente realistici si potrebbe avanzare l'ipotesi che con molta probabilità, l'artista abbia ritratto se stesso nelle vesti del Santo Padre (unica licenza che si sia concesso dentro a tanto rigore formale!) La testa dell'Onnipotente è leggermente china, racchiusa dentro un'aureola triangolare, mentre con la mano sinistra regge lo scettro e con la destra, indicando la trinità, impartisce la benidizione. Ai piedi calza lussuose scarpe di seta ricamate e confuse da un nugolo di angeli troni. A sinistra del quadro, accanto al Cristo-benedicente, vi è la vergine Maria4 (protettice dell'ordine certosino) insieme al s. Giovanni Battista (protettore), posto a destra della composizione, rivolto verso la Trinità in atteggiamento di preghiera5.
Criteri compositivi
Per poter capire meglio l'opera occorre leggerla ed esaminarla attentamente in tutte le sue parti e quindi decodificarla. Allo scopo di comprenderne l'espressione e il contenuto di tutta la composizione. Senza un esame adeguato è impossibile formulare un giudizio estetico e formale. Nella composizione formale, della tela serrese, risiedono comunque tutte le intenzioni espressive dell'artista, una volta ricevuto il soggetto insieme alle componenti simboliche. L'impianto compositivo dell'opera del Caivano è fatto prevalentemente di vuoti e di pieni, di linee attive e passive, di masse (volumi e colori), di andamenti di linee verticali e orizzontali, di linee oblique convergenti, divergenti e parallele, di ritmi ripetuti e alternati. Tutti questi rapporti sono immersi nell'opera e le conferiscono carattere e unicità. La composizione è stata concepita in senso statico poichè le masse, le forme e i colori risultano fermi e silenziosi. Attraverso la distribuzione delle figure, la tela, presenta un buon equilibrio compositivo. Infatti, tutte le figure, è come se ruotassero in un fulcro (la testa del santo) posta al centro della tela e tutte le linee compositive dei personaggi, intorno e sopra al santo certosino, si orientano in una convergenza centrale. Questa convergenza insistente fa si che il prodotto artistico sia in equilibrio, grazie alle direzioni che si determinano vicendevolmente conferendo a tutto l'insieme un carattere di equilibrata armonia. Tutti i soggetti sono inseriti in un preciso schema compositivo dove a ciascuna figura corrisponde un'altra figura, in un avvincente gioco speculare. Il movimento circolare dei certosini è costruito sugli elementi ripetitivi e di uguaglianza per via dell'abito monacale. Essi vengono percepiti come isolati ma si fondono, poi, insieme magistralmente in un lento e timbrato ritmo. Tutte le figure sono organizzate dentro uno spazio tridimensionale con la figura del santo Patriarca stagliata al centro: vero punto di forza di tutta la composizione e che richiama l'attenzione degli osservatori.
Figura A - Sistema dei cerchi concentrici con la ripartizione dei raggi. I punti indicano la posizione, sulla superficie dipinta, occupata da tutti i personaggi compreso il cigno (in basso a sinistra).
Figura B - Lo schema grafico mette in evidenza come la struttura si basi sulla figura geometrica del cerchio e come i raggi si intersecano esattamente nella testa del santo posta al centro come punto di riferimento di tutta la composizione.
L'idea di disporre circolarmente i certosini lasciando s. Bruno al centro è stata, senza dubbio, una buona soluzione compositiva. Il santo, pur non essendo contrastato da un diverso colore, rispetto agli altri monaci, si distacca da essi grazie alla sua centralità e alla misurata equidistanza da ogni certosino. La pala appare regolata da due rettangoli generati dalla linea orizzontale passante sotto il mento di s. Bruno. Questa calcolata ripartizione dello spazio pittorico permise al Caivano di distribuire armonicamente le figure in basso e quelle in alto, attraverso un sistema di cerchi concentrici, come si può vedere nel grafico qui pubblicato (FIG. A). Lo schema grafico mette in evidenza come la struttura si basi sulla figura geometrica del cerchio e come i raggi si intersecano esattamente nella testa del santo, posta al centro come punto di riferimento di tutta la composizione (FIG. B). Quest'opera la possiamo definire: "agiografica" per i suoi riferimenti al santo di Colonia e al suo ordine. L'autore, per la raffigurazione, utilizza tutte le fonti e si serve di tutte le testimonianze di provenienza certosina. Egli rappresenta, per mezzo di personificazioni allusive e simboliche, i concetti che stanno alla base dell'ordine certosino.
Effetti cromatici e plastici
I colori usati dal pittore sono in ogni caso quelli canonici da cui, certamente, l'artista non poteva prescindere. Il bianco per i certosini, il rosso per Cristo e Giovanni, conoscitori della scienza esoterica. L'azzurro, nel manto della Vergine è il simbolo di saggezza in quanto regina e il rosso della veste in quanto madre di Dio. Il giallo e il bianco del creatore sono i colori tipici degli Dei: simboli di forza e di eternità divina. La pianeta decorata in oro, assieme al bianco della tonaca, si uniscono alla purezza originaria. Il soggetto dipinto si muove dentro un complesso gioco di luci e ombre in sintonia con la chiarezza compositiva della pittura religiosa tipica della controriforma. Ma si avvertono, a mio avviso, i sintomi di un'inquietudine, chiaroscurale, che sembra cercare, nell'energia dei contrasti, la fonte per una nuova espressività. Le figure sono robuste e caratterizzate da un forte senso plastico-volumetrico in equilibrio tra il realismo del gioco ombra-luce e la ricercata teatralità dei gesti. In un'unico spazio si uniscono il piano terrestre con quello divino. I personaggi assumono pose articolate, offrendo libero sfogo all'alternanza di ombre profonde e di luci chiarissime sottolineate da colori che vanno dal nero più cupo al bianco più abbagliante (abiti monacali colorati di un bianco candido). La struttura del sistema gerarchico coloristicamente è fissata con l'uso del rosso purpureo nel "segum" sacrificale di Cristo e Giovanni e del bianco-giallo (la pianeta e la tunica) del Dio-Padre. Il rosso risplende anche nelle gemme incastonate con varietà di disegno e composizione sulle mitre dei quattro certosini in piedi. Queste gemme rosse sono alternate con oro metallico e materiale perlaceo. Tra Cristo e il Dio-Padre ci sono le anime del purgatorio; gruppi di bambini risvegliati da una morte temporanea, in stato di peccato, in attesa del battesimo e della penitenza liberatrice. Questo lo si evince dal colore verde dei vestiti, simbolo della nuova vita, colore eminentemente cristiano che accompagna le vicende pastorali della chiesa ed esalta i sacramenti dei "vivi" e dei "candidi" rispetto a quelli dei "morti". I vestiti viola che indossano altri bambini assieme al verde e al bianco che spunta dai loro colli indicano un riemergere della coscienza, l'atto del pentimento, il perdono e la remissione dei peccati. Essi, riuniti in gruppo, sembrano rivolgere delle suppliche con lo sguardo implorante allo Spirito Santo. Questi bambini, come pure alcuni angioletti, sembrano eseguiti da un'altra mano, forse alcuni collaboratori del Caivano, o quantomeno compromessi, linguisticamente, da un probabile cattivo restauro precedente. La Vergine, il Cristo e s. Giovanni sono resi con colori più vivi e delicati. I loro corpi sono più morbidi e aggraziati quasi raffaelleschi. Il Cristo, avvolto nel mantello rosso, scopre la ferita aperta del "costato" e con la mano destra alzata benedice guardando nella direzione dei certosini. La parte in basso è dipinta in monocromo a differenza della parte in alto che è sicuramente più mossa e più viva nell'impiego dei colori.
Riferimenti storici sulla Gerarchia Celeste
La Gerarchia Celeste era un tema conosciuto e proveniente della tradizione medioevale, ripreso, dopo, dalla dottrina controriformista. I monaci potevano benissimo attingere sia al testo di s. Dionigi l'Areopagita che a quello del vescovo di Rodez: Abbelly, come pure all'opera che riproponeva la Gerarchia, con un linguaggio pittorico, che lo stesso vescovo fece eseguire da Licherie, stabilendo, lui stesso, la composizione e i particolari. Ma, nel 1516, in una chiesa di Palermo, consacrata a s. Angelo martire dell'ordine dei Carmelitani, venne scoperto, sotto l'intonaco, un affresco inconsueto che rappresentava sette arcangeli. Questa scoperta suscitò tanto clamore e colpì profondamente l'immaginazione al punto che si volle vedere, in questo, un miracolo da portare, nel 1523, alla costruzione di una chiesa a Palermo, dotata da Carlo V, e dedicata ai sette arcangeli. Con molta probabilità i certosini di Serra non rimasero indifferenti a tale ritrovamento e miracoloso evento. Anzi, al momento opportuno, approfittarono, come aveva fatto in precedenza il vescovo di Abelly, per dare l'incarico al Caivano di eseguire una Gerarchia con l'aggiunta dei Santi Certosini, stabilendo, loro stessi, tutto l'apparato iconografico ed iconologico. Dei sette arcangeli scoperti in Sicilia, tre di essi venivano già da tempo venerati dalla chiesa ed erano: Michele, Gabriele e Raffaele; ma gli altri quattro portavano nomi misteriosi ignorati dai fedeli e si chiamavano: Uriel, Jehudiel, Barachiel, Sealtiel. L'iscrizione chiamava Michele "Victoriosus", Gabriele "Nuncius", Raffaele "Medicus", Barachiel "Adijutor", Jehudiel "Remunerator", Uriel "Fortis-Socius", Sealtiel "Orator". Essi erano caratterizzati da attributi. Michele che schiacciava sotto i piedi Satana porta in mano un ramo di palma e uno stendardo bianco con croce rossa (nel quadro di Serra, il Santo Patriarca, porta in mano un ramo d'olivo6 mentre in basso, alla sua sinistra, vi si scorge la presenza del demonio). Gabriele aveva una lanterna accesa e uno specchio di diaspro punteggiato di macchie rosse (un certosino, accanto a s. Bruno, regge una candela accesa). Raffaele teneva una pisside e dava la mano al giovane Tobia che teneva un pesce (il certosino, rivolto verso i riguardanti, tiene accanto a sè un cigno). Barachiel aveva delle rose bianche nella piega del mantello; Jehudiel aveva in mano una corona d'oro e nell'altra una frusta da cui pendevano tre corde nere; Uriel stringeva una spada sguainata mentre una fiamma gli balzava davanti ai piedi e infine Sealtiel, con le mani giunte sul petto nell'atto di pregare (il certosino inginocchiato a destra del quadro è in atteggiamento di preghiera).
In Fiandra e in Germania
La Fiandra conobbe il tema della Gerarchia Celeste verso gli ultimi anni del sec. XVI, come si può vedere nell'incisione del Wierix (1553-1619) che qui pubblichiamo e che risponde alle descrizioni, fatte precedentemente, dei sette arcangeli.
La Gerarchia celeste e i sette Arcangeli di Gerolamo Wierix (1553-1619). L'incisione è tratta dall'affresco scoperto a Palermo nel 1516..
E' fuori dubbio che il Wierix si sia ispirato all'affresco di Palermo come pure Pierre de Jode e Philippe Galle che ne fecero delle incisioni verso la stessa epoca, ma senza ritrarre gli attributi consacrati7. In Germania la fantasia se ne impadronì al punto da immaginare che ognuno dei sette arcangeli ispirasse uno dei sette elettori: venne dunque associato a Michele l'arcivescovo di Colonia, Uriel al conte Palatino del Reno; Sealtiel al duca di Sassonia, Jehudiel a Margravio di Brandeburgo, e Barachiel al re di Boemia8. La stessa operazione venne compiuta dai certosini di s. Stefano del Bosco. Essi immaginarono di sostituire ad ogni arcangelo un santo certosino. Infatti, nella tela serrese, al centro campeggia s. Bruno associato all'arcangelo Michele. Alla sua destra vi è il Beato Nicolò Albergati, cardinale-vescovo di Bologna, in atto benedicente simile alla raffigurazione che ne fece B. Pocetti, nei santi beati dell'ordine certosino, per la chiesa dei monaci alla certosa del Galluzzo (Firenze). Alla sinistra del santo Patriarca, con la candela accesa, vi è s. Ugo vescovo di Grenoble. In piedi, accanto al certosino orante, vi è il Beato Antelmo vescovo di Belley, a sinistra, accanto al certosino intento a scrivere, vi è San Ugo vescovo di Lincoln con accanto il cigno, anch'egli raffigurato nella certosa del Galluzzo dal Poccetti sempre con il cigno. Nella raffigurazione della certosa toscana ogni santo dell'ordine è affiancato da due priori generali. Nell'opera del Caivano i due certosini inginocchiati, altri non possono essere che Lanuino e Landuiono entrambi beati. La tela della matrice di Serra ricalca fedelmente l'incisione del Wierix. Il soggetto ha un comune impianto compositivo e presenta una identica struttura formale. Ciò che cambia sono i soggetti della Gerarchia Celeste i quali, a secondo della dedicazione, venivano raffigurati. Nell'incisione del Wierix abbiamo: S. Pietro, s. Lorenzo, s. Stefano, s. Giovanni ecc., tutti accanto alla Trinità, mentre nella Gerarchia del Caivano abbiamo: la Vergine e s. Giovanni in quanto protettori dell'ordine certosino.
Tropea. Chiesa di S. Michele Arcangelo, Le Anime Sante del Purgatorio - Pittura ad olio - Francesco Caivano Pingebat (1642)
Ipotesi sulla vita e l'arte del Caivano
Ignoriamo le circostanze che portarono i certosini a richiedere al Caivano la dipintura della tela in questione, poichè nulla sappiamo dei rapporti di questo artista con la certosa calabrese. Le poche notizie che su di lui abbiamo sono quelle riportate da A. Tripodi, in merito ad una dote della monteleonese Gloria Gammo, che comprendeva quattordici quadri grandi e tredici piccoli. Tre dipinti dei grandi erano di Francesco Caivano: s. Domenico, la Disputa di Gesù fra i Dottori e s. Gregorio Taumaturgo9. Come possiamo notare si tratta di quadri a sfondo sacro. E' certo, comunque, che la sua attività viene spesa nell'ambito di una morale cristiana post-tridentina. Nel 1642, nove anni più tardi l'esecuzione della tela di Serra, il Caivano firma un'altra opera conservata, tutt'ora, nella chiesa di s. Michele di Tropea e che raffigura le Anime del Purgatorio. La presenza nella dote della Gammo di un altro pittore: tale Giuseppe Candela, con ben cinque tele, anch'esse di argomento religioso, ci fa pensare ad una probabile "cerchia" di artisti, tecnicamente abili e facilmente plasmabili dagli ambienti religiosi per l'esecuzione di soggetti sacri. Il Caivano, secondo quanto riferisce Tripodi, aveva sposato tale Elisabetta Mazzara e risiedeva a Tropea10. Queste sono le fonti che allo stato attuale sembrano riguardare l'artista e per un autore, da sempre ignorato e sconosciuto alla storiografia artistica calabrese, non è poco. Grazie a queste scarne notizie, fatte per lo più di carteggi notarili, la personalità di questo pittore sta venendo fuori dal suo lungo e per taluni aspetti inspiegabile isolamento. Della sue formazione non sappiamo nulla e ci sfugge uno sviluppo compiuto della sua arte, per la mancanza, appunto, di quelle opere che possono costituire le premesse della sua arte. Niente si sa del suo itinerario artistico. E' stato un autodidatta? Oppure si è formato in qualche scuola napoletana come fa supporre l'origine del suo nome? A Napoli, insieme ad altre esperienze artistiche, all'epoca del Caivano, si era già affermato il linguaggio barocco. Ma osservando le poche opere conosciute dell'artista, si ha l'impressione che egli abbia guardato più alla tradizione tardo-cinquecentesca di area settentrionale, con qualche implicazione caravaggesca (forti contrasti dei chiaroscuri), con richiami, soprattutto ad una sorta di classicismo idealizzato. Non aveva tutti i torti il prof. A. Frangipane nel considerare la tela come opera dello scorcio del sec. XVI, nell'inventario da lui redatto, nel 1933, e qui citato in nota. Egli, ignorandone la data e la firma, poichè nascosti dai bancali lignei, con fine discernimento identificò e giudicò l'opera basandosi solamente sulla fattura pittorica. Il Caivano, quindi sembra opporsi al linguaggio artistico del suo tempo trovandosi, oramai, a vivere in Calabria di esperienze passate dove l'eco di avvenimenti storici arrivavano a lui molto attutiti. La contraddizione stilistica è evidente; da una parte abbiamo un modo calibrato, letterario di esprimersi con l'assimilazione di un linguaggio colto e dall'altra la volontà del pittore di tenersi lontano dalla grande ispirazione barocca che rielabora tutto un ambiente architettonico e soprattutto decorativo. Quanto appena detto ce lo conferma l'altro grande quadro posto proprio di fronte alla tela del Caivano, nel coro della chiesa matrice di Serra: Il Martirio di s. Stefano, eseguito almeno quindici anni prima in un puro linguaggio barocco. Questo significa che il Caivano si è collocato su un registro più modesto rispetto al linguaggio barocco ma è certo che non possiamo definirlo meno intenso. Egli da la sensazione di un artista che si è isolato nel suo genere, e che dotato del mestiere e disponendo di una collaudata tecnica pittorica, convince i certosini, nel momento in cui, questi, riprendono di nuovo in mano la direzione della creazione artistica. I certosini, dai pittori del passato, non pretendevano una cultura elevata, quanto richiedevano, loro, era l'applicazione, tout-court, del talento artistico oltre che lasciarsi guidare, nelle concezioni artistiche, dalle loro menti dotte. L'artista, di Tropea, con molta probabilità, ricevette precise disposizioni dai certosini, circa la realizzazione della tela, del resto tale pratica era comunque in vigore in altre chiese e monasteri. Addirittura, in molti contratti, spesso viene scritto che l'artista deve essere assistito e consigliato da un uomo di chiesa. E' anche probabile che il pittore abbia dipinto il quadro nella certosa serrese a stretto contatto con i certosini. Dopo il concilio di Trento, gli ecclesistici, diventano più responsabili nel disciplinare moralisticamente la prassi dell'iconografia religiosa. Nella diocesi di Bologna, attraverso il "Discorso" del cardinale Paleotti (1582), ci si preoccupa di provvedere all'ignoranza degli artisti, mentre il "De Pictura Sacra" del card. F. Borromeo (1624), rappresenta, il riferimento della pittura lombarda controfirmata. Nel '600 si ha una maggiore libertà inventiva rispetto alla complessità della casistica sulla liceità e gli abusi delle sacre immagini, si veda a tal proposito, tutta una letteratura dopo le norme del secondo concilio di Nicea (1563) che va dal Gilio con i suoi: "Due Dialoghi" (1564) fino al trattato di Pietro da Cortona (1652) scritto in collaborazione con il gesuita Ottonelli. La tela di Serra ci dice che il Caivano si concentrò sull'ampia composizione, senza regalare nulla ad elementi inutili e capricciosi, dove persino la natura appare da una fessura, come una timida citazione, mentre tutti i personaggi sono condensati all'interno dello spazio senza che lo spettatore trovi modo di distrarsi dalla contemplazione a cui viene chiamato. Il Caivano, come pittore del sec. XVI, attraverso i certosini era in rapporto con le norme della controriforma, quindi non ha avuto il problema della "inventio" e non visse neanche l'angoscia di trovarsi il soggetto. Egli lo ricevette già pronto, preparato dalla "Intellighentia" certosina allineata allo spirito religioso di una chiesa che già si preparava ad imporre la sua fisionomia all'arte religiosa del XVII secolo.
NOTE
1 La prima critica che si conosce di quest'opera è quella che fece il sac. B. M. TEDESCHI nella Monografia Storica Descrittiva. Stà in: Serra S. Bruno e i Paesi del Circondario, a cura di B. Pelaia, Ed. F.A.T.A., CZ, p. 90. Egli così scrive: "L'altro quadro a destra (si riferisce alla SS. Trinità)... rappresenta s. Brunone, in mezzo ad una corona di monaci, e nella parte superiore il Paradiso. Alcuni caratteri allegorici un pò difficili a spegarsi; quella profonda e concentrata espressione dei personaggi, quelle tinte sopraccariche di nero, e quel disegno grave e insieme robusto, manifestano i caratteri della scuola fiamminga, sul genere di Roembrant e di Rubens". Lo studioso calabrese ALFONSO FRANGIPANE lo segnala nell'Inventario degli oggetti d'arte in Italia, vol. II, Calabria, Roma, 1933, p. 62, con una riproduzione fotografica nel seguente modo: "..All'interno della chiesa matrice arcipretale (nel coro): SS. Trinità con santi Certosini disposti a semicerchio e preganti". Tela ad olio, M. 3 x 4,80 di altezza. Proviene dalla certosa bruniana. Stato di conservazione discreto. Maniera dello scorcio del Sec. XVI. 2 Gregorio XV fece s. Bruno santo della Chiesa Universale. Acta, oct., t. III pag. 771 e Bull. roman. t. v. p. 93. 3 Questo tipo di rappresentazione era molto congeniale ai Gesuiti ed espressa negli Esercizi Spirituali con l'allegoria dei due eserciti, uno dei quali marcia sotto lo stendardo di Satana e l'altro sotto quello di Cristo. 4 Si narra che quando s. Bruno partì per Roma, i suoi discepoli privi del loro maestro beneamato, furono travolti dalla disperazione; si prepararono ad abbandonare il deserto, quando apparve loro un vecchio e li invitò a mettersi sotto la protezione della Vergine Maria. Recitando tutti i giorni il suo uffizio, disse loro, ritroverete la pace nella vostra solitudine. Quel vecchio era s. Pietro e i certosini seguirono i suoi consigli e da quel giorno la Vergine divenne la protettrice dell'ordine (Surius. t. v. p. 595). 5 Philippe de Champagne raffigurò i certosini che pregano la Vergine e s. Giovanni Battista che stanno ai lati di Gesù Cristo in cielo. Questa immagine è stata molto diffusa per via della riproduzione con la tecnica dell'incisione fatta a Roma. 6 S. Bruno, nella rappresentazione del Caivano, è un messaggero di pace, infatti lo vediamo raffigurato con in mano il ramo d'olivo e il breviario dei certosini, aperto sicuramente alla pagina con l'antifona del suo uffizio che paragona il santo all'ulivo che cresce e fruttifica anche nel terreno meno fertile: grazie a lui la croce fiorisce anche nel deserto. 7 Carlo de Fabri da Mandolfo, Scudo di Cristo, Bracciano, 1621. Libro dedicato al cardinale Orlando Farnese. 8 Cancellieri, De Secretariis Basilicae Vaticanae Veteris, Roma, 1786, p. 1028. 9 Deputaz. di Storia Patria per la Calabria. Pittori e Pitture nelle dimore calabresi dell'età moderna estratt. Riv. Stor. Cal. N. S. X-XI (1989-1990), NN. 1-4. 10 A. TRIPODI, Notizie sulla Storia dell'arte e dell'artigianato in Calabria (III parte), in Butium, LXVII (Luglio-Sett. 1988), n. 3, p. 3.