RITORNO A TROPEA
di Franco Aquilino
Arrivo a sera avanzata e non c'è nessuno ad attendermi alla stazione. Nella discesa verso casa, l'unico saluto che ricevo mi lascia dapprima perplesso e un pò preocupato, ma poi mi ricordo di averlo già sentito tanti anni fa e ne sorrido divertito. Via, è un allegro e puntuale <<bentornato!>> che l'amico cuculo (u cuccu) mi manda da uno dei rari alberi sfuggiti alla furia antiecologica abbattutasi anche qui, a quel che vedo. Nella vecchia casa ad attendermi la mamma. Faccio il giro delle stanze e lei dietro a domandarmi affettuosamente del viaggio e a dirmi che il letto me l'ha preparato, ma prima vorrò mangiare qualcosa, no? Guardo in silenzio la stanza di papà; c'è la sua scrivania tenuta in ordine perfetto, con la chiave che pende dal cassetto centrale, come la teneva lui, come se lui fosse fuori sul corso con gli amici e di lì a poco bussasse alla porta il suo unico colpo. Sono un pò emozionato e quasi me ne irrito con me stesso, quasi mi pento di essere ancora una volta tornato. La mamma forse intuisce e mi dice che ora è come se lei avesse perduto l'equilibrio per sempre, dopo cinquant'anni di matrimonio le sembrava di vivere all'ombra di lui, di esistere perchè lui esisteva. All'indomani i primi passi nel paese sono quelli incerti e maldestri di chi si ritrova in un mondo in gran parte sconosciuto. Bisogna superare il mare di cemento, selvaggio e spietato che da lontano scherma la vista dell'altro mare, su cui da millenni si affaccia Tropea. M'imbatto nei primi conoscenti, che mi rivolgono la solita giaculatoria di domande, dopo avermi scambiato nell'ordine per l'uno e l'altro dei fratelli. Una volta identificato, uno su due mi chiedono, ruotando il pollice con l'indice: <<Nenti?>>, volendo dire: <<Niente figli?>>. <<Nenti>>, e si allontanano delusi e sconsolati. Eccomi al Borgo, una sfilza di casupole in discesa, l'una a ridosso dell'altra, appena fuori della cinta muraria ora ridotta solo al tratto di mura merlate del VI secolo, attribuite al generale Belisario. Gli abitanti del Borgo venivano dal contado ed esercitavano tradizionalmente il mestiere di fabbri, <<forgiari>> (termine che il Rohlfs, infaticabile studioso dei nostri dialetti, riconduce al francese forge, e <<forgia>> è appunto la fucina). Oggi non è rimasto un solo <<forgiaru>>: fino a pochi anni fa era tutto un picchiare ritmato di martelli sul ferro incandescente e un'iradiddio di scintille. Mi piace pensare che proprio qui sia stato <<forgiato>> il proverbio: <<Quandu si 'ncuina statti / e quandu si marteu batti!>> (Quando sei incudine ricevi / e quando sei martello batti). Ora il Borgo è sede di mostre di artisti locali, anche particolarmente dotati: visito quella dello scultore e pittore R. D'Agostino. Suggestivo il quadro della <<vedova bianca>>, stupenda la terracotta della donna curva sulla madia. Un ingegnere torinese, pieno di ammirazione per l'arte, un giorno avrebbe pagato delle sculture con un assegno in bianco (evviva i bogianen!): già la...<<leggenda aurea>> si sovrappone alla realtà. Stupende anche le sculture eseguite in diversi materiali (ferro, alluminio, legno) dall'ex forgiaru Micu Caraia, rappresentanti per lo più tipi locali ormai scomparsi, con i nomi incisi in dialetto e soprattutto un estro e un sapore di cose d'arte che lascia piacevolmente sorpresi. Proseguo nel mio viaggio di riscoperta e comincio a prenderci gusto. Ecco più oltre <<u Coralluni>>, un grumo di vecchissime casupole appollaiate sulla roccia, in vista del mare. Ora mi inoltro nei vicoli (vinee) del centro storico, attraverso i larghi e la piazza principale, ricontemplo la cattedrale normanna e le tipiche chiese settecentesche e il tempo mi sembra davvero essersi fermato. I palazzi nobiliari mi sembrano profilarsi come enormi gusci vuoti; alcuni sono fatiscenti, sbrecciati, come fossero addirittura disabtati, altri serbano nel portale in granito ben conservato e negli scaloni esterni un'atmosfera ovattata d'altri tempi, in cui immagini di sentire da un momento all'altro un minuetto, la traccia impalpabile ma presente di un'antica grandezza. C'è ancora qualche stemma con motto altisonante: ecco quello superbo dei Toraldo, da fare invidia a Francesco I di Francia (Illaesus superest honor), quello... evangelico dei Tranfo, ex cavalieri di Malta (Sicut oliva in Domo Domini). Taluni stemmi hanno forma di mascheroni, per scongiuro pare, perchè c'è sempre a Tropea chi getta <<l'occhiu puju>>, insomma in un menagrano puoi sempre incappare. Questa della jettatura è una delle misteriose presenze che si avvertono ancora nel Sud. Si racconta ad esempio che, nella seconda metà del '700, c'era a Tropea un certo comandante della piazza, in fama di jettatore potente. Fatto sta che da quando era venuto lui, Tropea aveva conosciuto una serie impressionante di terremoti, provvidenzialmente ammorbiditi, anche perchè la città sorge su una roccia, dalla Madonna di Romania. La cittadinanza esasperata ottenne l'allontanamento di quel povero diavolo che fu dislocato in uno dei 24 casali. Si cercherebbe però inutilmente quel casale: una serie di terremoti ne cancellò perfino le fondamenta e anche il nome si perse per sempre. E' uno dei tanti fattarelli che capita di sentire da queste parti. <<Sugnu tutti fissarii!>> (Sono sciocchezze!), dice qualcuno quando si parla di jettatura e allunga furtivamente la mano nella tasca, perchè qui c'è sempre qualcuno che dice che <<sugnu fissarii>>: lo dice a proposito dell'inquinamento marino, della speculazione edilizia, dell'aumento vertiginoso dei prezzi... <<Fissarii, fissarii, ca quandu mai?>>. Negozietti di antiquariato locale sorgono dovunque, come pure le <<boutiques>> ricavate dai bassi di un tempo. Frammenti di presepi, candelabri consunti, monumentali mortai di pietra o di marmo, macinini arrugginiti, bastoni animati, <<navette>> di telai: tutte le consuete cianfrusaglie dei kitsch consumistico internazionale che ti attrae e ti repelle. Anche qui il progresso ha preso la strada sbagliata, ha eliminato i bassi ma non la miseria, ha portato il benessere a chi l'ha sempre goduto, ha dilatato i prezzi ancor più immiserendo gli strati del popolino, sempre più emarginato, sempre più defraudato del suo patrimonio culturale a beneficio di un folklore mistificato e mercificato. Da una casupola schizza fuori un marmocchio piccolissimo inseguito dalla giovane madre furiosa. Il piccolo cade e piange disperato, la donna lo solleva e lo soffoca di baci. Per associazione di idee penso alla maledizione del latte materno, che un tempo le <<chiazzarole>> (popolane) eseguivano in pubblico con <<ostensione>> del seno e terrificanti formule di rito all'indirizzo di figli insopportabili. Molti anni fa, questo show era rappresentato con molta efficacia e con una certa frequenza da una splendida popolana, soprannominata forse per via dei capelli <<a Riccia>>, di statuaria venustà, come ricordano con sorriso da intenditori i pochi sopravvisuti. Era allora un accorrere di popolo (<<magno cum concursu plebis ac nobiltatis>>, avrebbe annotato il diligente cronista abate Sergio... se fosse vissuto qualche secolo dopo di quando in effetti visse) e tutti a vociare: <<Fujiti, fujiti, c'a Riccia si caccia i minni di fora!>> (Accorrete, accorrete, che la Riccia tira fuori i seni!). Erano usanze che esplicavano anche una funzione... stimolante e liberatoria, di antichissima origine, oggi scomparse e dimenticate. D'altronde, oggi come oggi chi si dovrebbe maledire: il latte artificiale? (Nota bene: non è stato mai chiarito se il motivo dello show dipendesse dal fatto che la Riccia avesse figli particolarmente discoli o non anche dei seni particolarmente prosperosi: il quesito lo trasferiamo d'ufficio ai posteri che ne volessero, bontà loro, discettare, sulla base anche di nuovi e più probanti documenti). Col giovane amico Franco Messina, andiamo poi a trovare una anziana signora, per ascoltare un pò di proverbi: è come un libro vivente quello che ci troviamo davanti. Un acre moralismo si sprigiona da questi autentici documenti di una precisa cultura, che è quella delle classi subalterne, istintivamente in contrasto con quella ufficiale. Sono proverbi, modi di dire, apologhi immaginosi e concreti a un tempo, tutti più o meno ritmati sullo scorrere di una esistenza dura e avversa, fatta di rinunce, intessuta di diffidenze, punteggiata d'amarezza, così com'era un tempo e come è in parte ancora oggi, per certi aspetti. Sull'argomento ha scritto acutamente A. M. Cirese in un saggio sui Malavoglia (riportato in Intellettuali, folklore, istinto di classe, Torino, 1976, pag. 17): <<... ogni proverbio è in realtà il risultato di un certo processo mentale: di osservazioni, di esperienze, di giudizi, di connessioni che non si sono dati per mitica rivelazione, ma che sono nati da una storia, entro una storia. Tuttavia la storia vi è come inavvertita, non se ne ha più coscienza;ed ogni proverbio, per chi lo ripete con intima adesione, è ab aeterno: un detto antico appunto>>. Sono testimonianze insostituibili, un patrimonio prezioso minacciato dall'incuria ed è un dovere raccoglierlo integro. Ripartirò fra non molto, ma con cera diversa, se non proprio <<con l'occhio incerto fra il sorriso e il pianto>>, come se da questi luoghi non mi fossi mai allontanato. Mi riprometto di ritornarci appena possibile, per capire sempre di più e farlo capire ad altri un mondo che pure avevo creduto ormai remoto e dimenticato. Della metropoli sotto certi aspetti non saprei fare a meno, ma le radici sono rimaste qui. Puntuale e paziente, l'amico che mi ha salutato all'arrivo mi ripeterà il suo saluto alla partenza. Arrivederci, <<paisà>>.