Vaticano. Cappella Sistina. Michelangelo: Giudizio Universale. Particolare: La barca di Caronte

La traduzione latina di Giuseppe Toraldo
del Canto terzo dell'Inferno
 
 

di Salvatore Libertino


Sicuri di fare cosa gradita agli estimatori della lingua latina e delle cose belle tropeane, riportiamo della traduzione dantesca di Giuseppe Toraldo una significativa quanto appassionata prova d'autore: il III canto dell'Inferno. Siamo in condizione di farlo perchè abbiamo reperito i preziosi componimenti del latinista tropeano apparsi su "Alma Roma".
Sarebbe forse improprio parlare di traduzione e non di interpretazione. Il Toraldo infatti non si limita a traslare in lingua latina supinamente il verso dantesco ma una volta impossessatosi di questo con grande autorevolezza e dopo aver colto e assimilato quel linguaggio già essenzialmente contenuto in eleganti terzine, dimostra la capacità di condensarlo, quando gli è possibile, in armoniosi e ritmici distici elegiaci (due versi). Ecco la forza del tropeano che riesce a convogliare il linguaggio del sommo poeta toscano in brevi parafrasi dando libero sfogo al magico estro e all'irrefrenabile impeto compositivo attraverso una singolare ma efficace creatività poetica.
Abbiamo voluto affiancare il testo latino di Padre Giuseppe a quello originale di Dante per far assaporare al lettore le interessanti quanto affascinanti acrobazie del latinista quando lo si vede avvicinare il più possibile, in senso di rispetto, alla struttura dantesca, fondendo talvolta il verbo latino con quello originario italiano, o quando allontanandosene, per nulla intimidito, lo si avverte assorto e intento a seguire la propria ispirazione poetica riposta nell'anima nei sentimenti più profondi di artista.
Ci sembra, infine, che il Toraldo si trovi maggiormente a suo agio nel mondo dantesco, sia nella lingua sia nella metrica, quest'ultima più disponibile ad essere modellata in distico elegiaco, contrariamente alle scelte praticate da altri autori che si sono cimentati con la traduzione della Commedia i quali hanno preferito l'armoniosa cadenza del solenne esametro1.
Prima di accostarsi all'opera del Toraldo vale la pena di inquadrare gli eventi contenuti nel terzo canto dell'Inferno.

Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.

Sono parole tremende e oscure che Dante vede scolpite sulla porta del mondo delle anime dannate, che sembra parlare al poeta con una propria bocca che predice il destino di coloro che stanno per oltrepassarla. Ma la frase lapidaria che conclude l’epigrafe è forse quella che più si fissa negli occhi di chi legge proprio per la sua ineluttabilità ed eternità:

lasciate ogni speranza, voi ch’entrate,

Il poeta è turbato nel leggere questa promessa di dannazione, ma le sagge parole e il sorriso di Virgilio lo rassicurano. Ciò che gli si prospetta davanti a questo punto è una enorme massa di anime tormentate da mosconi, vespe e vermi. Sono le anime degli ignavi, cioè di coloro che vissero

sanza infamia e sanza lodo,

senza meritare né una punizione né una ricompensa, senza ideali e senza interessi. Queste anime sostano in una zona che si chiama Antinferno, perché neanche i demoni le hanno volute con loro.
Allontanandosi dagli ignavi, Dante si avvicina all’Acheronte, il fiume che delimita l’Inferno vero e proprio, attraverso il quale le anime devono passare per essere poi destinate alla loro punizione eterna. E qui il poeta incontra il loro traghettatore, il demonio Caronte con occhi di bragia. Dante, pur definendolo un ‘demonio’, ce lo descrive però molto umanamente come un vecchio, con barba e capelli bianchi per l’avanzata età. Caronte si rivolge alle anime dei dannati, ricordando loro il destino che le aspetta, e si accorge che fra loro c’è l’anima di un vivo, di Dante. Interviene allora Virgilio a spiegare che la presenza di un’anima viva è voluta dalla volontà superiore di Dio:

vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole

E con queste parole, Caronte tace e riprende il suo eterno compito di nocchiero. Dante, sopraffatto da tanta emozione e tanto turbamento, perde i sensi. Si risveglierà solo nell’Inferno vero e proprio.

DANTIS ALLIGHERII
I  N  F  E  R  I
Carmen III

Ex ineditis
Ioseph Toraldo

quae nobis ultro obtulit Felix Toraldo, Marchio, Iosephi nepos.
Nobili item et clarissimo viro amplissimas gratias publice referimus.



Versione latina 
di Giuseppe Toraldo

 


Versione originale
di Dante Alighieri

 

<<Per me, maerentem penetratur Ditis in urbem,
<<Per me, ubi perpetuo torquet in igne dolor;
<<Per me, in gentem itur pro laeso Numine votam
"Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
<<Aeternis flammis, quas fovet ira Dei.
<<Me Themis effinxit, Sapientia, summa Potestas,
<<Primus Amor fecit, quaeque creata prius
Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e 'l primo amore.
<<Aeternum durant, et ego per saecla manebo.
<<Spes huc ingressis nulla superstes erit>>.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate".
In summis foribus nigro conscripta colore
Verba haec conspexi, territus unde duci
Fatus ego: Est durus mihi, doctor, sensus eorum.
Queste parole di colore oscuro
vid'io scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro».
Vir prudens ut erat sic ait ille mihi:
Nunc animis, vates, opus est, nunc pectore firmo,
Hic decet omnino pellere corde metum.
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Venimus ad loca ubi gentes maerore gementes
Cernes, quae mentis deseruere bonum.
Noi siam venuti al loco ov'i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto».
Meque manu capiens comis vultuque sereno
Duxit in occultas igne flagrante specus.
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Qua gemitus resonant, altique per aera questus,
Et mea principio fletibus ora rigant.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai.
Diversus sermo, horrendaeque tenore loquelae,
Irarum accentus, verba doloris, atrox
Raucarum vocum sonus, et percussio crebra
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d'ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
Palmarum roboant aere luce nigro,
Non secus ac turbo violenter spirat arenam.
facevano un tumulto, il qual s'aggira
sempre in quell'aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
Et duci ego dixi territus hisce sonis:
Quid fragor hic horrens? quae gens sic pressa dolore?
E io ch'avea d'error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo?
e che gent'è che par nel duol sì vinta?».
Qui mihi respondit: Quos ita poena premit
Hi sine laude, sine et fama vixere pudenda.
Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.
Aligerum haec pravo est gens sociata choro,
Quae neque fida Deo, neque aperto marte rebellis,
Sed fertur tantum complacuisse sibe.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Hos repulit caelum, ne perderet inde decorem,
Ima nec excipiunt tartara, ne paribus
Torqueri poenis gauderet turba scelesta.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli».
Atque ego ductori: Quis dolor angit ita
Ut graviter gemitus imo de pectore ducant?
Hoc dicam paucis: Omnis adempta necis
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor, che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Spes est his animis, tum humilis despestaque vita,
Ut misera alterius sors quoque corda premat.
Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che 'nvidiosi son d'ogne altra sorte.

Mundus non meminit nomen, Clementia spernit,
Iustitia haud aliter: praetereamus eos.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».

Convertens oculos celerem vidi inde cohortem
Pracipitis cursus, ferret ut aegra moram,
E io, che riguardai, vidi una 'nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d'ogne posa mi parea indegna;

Innumeramque sequi istius vestigia gentem,
Quam non crediderim caedere posse necem.
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch'i' non averei creduto
che morte tanta n'avesse disfatta.

Vidi illum inter eos potui quos noscere, magna
A quo ex parvo animo facta repulsa fuit.
Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l'ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Novi hos de secta, qui ignavis moribus aeque
Displicuere Deo, hostibus atque suis,
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d'i cattivi,
a Dio spiacenti e a' nemici sui.
Quos nunquam vivos nunc nudos corpore muscae
Et vespae exstimulant, queis locus ille scatet,
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch'eran ivi.
Sanguine et ora rigant, lacrimis qui mixtus acerbis
Vermibus illorum lambitur ante pedes.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a' lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
Lumina contorquens ad magni fluminis oras
Conspexi quod ibi copia gentis erat,
E poi ch'a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d'un gran fiume;
per ch'io dissi: «Maestro, or mi concedi
Quam faceret notam ductorem ac ipse rogavi,
Et quare hanc videam sic celeri ire pede.
ch'i' sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com'io discerno per lo fioco lume».
Rursus et ille mihi: Cum tristem Acherontis ad oram
Nos veniemus, erunt cognita cuncta tibi.
Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d'Acheronte».
Ast illi veritus ne essent mea verba molesta,
Flumen ad usque pudens veni ego, et ore silens,
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no 'l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.
Cum rate vectus homo barba alba crineque cano
Occurrit clamans: Vae mala progenies,
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!
Vae tibi, ne speres summum conscendere caelum.
Huc veni ut veherem litus ad oppositum,
In iuges tenebras, aeternum in frigus, et aestum.
Non isperate mai veder lo cielo:
i' vegno per menarvi a l'altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.
Et tu qui hic vivus sistis, abito procul
Ex his, queis letum iam humanos abstulit artus;
Atque loco ex illo me nec abire videns:
E tu che se' costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch'io non mi partiva,
Diversum per iter, dixit, tu aliam ibis ad oram,
Convenit ut levior te modo cymba vehat.
disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».
Ne irascare, Charon, dux dixit, sic placitum illi
Qui votum omne replet, tu neque plura petas.
E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Hunc siluit stygiae villosus nauta paludis,
Lumina cui circum sunt rubrae ab igne rotae.
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
His duris dictis tenues sine corpore vitae
Infremuere, suo fugit et ore color,
Ma quell'anime, ch'eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che 'nteser le parole crude.
Inque Deum patresque suos maledicta iaciebant,
Ortum exsecrantur, tempus itemque locum:
In genus humanum, ac in semen seminis eius
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Noctes atque dies impia verba vomunt.
Acrius hinc flentes ripam accessere malignam,
Quae foedatum atro crimine quemque manet.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch'attende ciascun uom che Dio non teme.
Igne Charon ardens oculos nutu aggregat illas,
Et caedit remo quas videt ire pigras.
Caron dimonio, con occhi di bragia,
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s'adagia.
Tempore ut autumni labuntur ab arbore frondes,
Atque alia ex alia decidit usta solo,
Come d'autunno si levan le foglie
l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
Sic mala gens Adae ad nutus vectoris Averni
In stygiam cymbam singula proiicitur,
similemente il mal seme d'Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Illecebra ut iacitur protensum in rete volucris,
Et per liventes nave vehuntur aquas.
Et prius in litus quam gens descenderet illinc,
Alterum et hinc etiam protinus agmen adit.
Così sen vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s'auna.
Fili, ductor ait, qui occumbunt Numinis hostes
Terrarum huc omnes undique conveniunt.
«Figliuol mio», disse 'l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l'ira di Dio
tutti convegnon qui d'ogne paese:
Et prompti quaerunt fluvium transmittere, ut horror,
Iusto urgente illos Numine, fiat amor.
e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio.
Postquam ea fatus erat nigrae tremuere cavernae,
Ut mea adhuc madeat mens tremefacta metu.
Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona».

Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
 

Terra dolens flavit, rubicunda et luce refulsit,
Quae me confestim sensibus abripuit.
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento
Et cecidi veluti vir, cui sopor occupat artus. e caddi come l'uom cui sonno piglia.

 

NOTE
1 In esametro sono note le traduzioni del gesuita Carlo d'Aquino (Napoli,1728); dell'abate vicentino Gaetano della Piazza (Lipsia, 1848); di Francesco Testa (Padova, 1835); di Antonio Castellacci (Pisa, 1819); di Nicolò Tommaseo (Padova, 1903); di Giovanni Trufelli (in 'Aevum', 1932). Solo del fiorentino Cosimo della Scarperia (Milano, 1813) troviamo il distico elegiaco del Toraldo.