Gaetano Ippolito, u poeta
di Carmine Cortese (1931)
a cura di Salvatore Libertino
Vale la pena di spendere qualche parola per introdurre la pubblicazione di questo lavoro. Innanzitutto l'immagine, che state vedendo a fianco del titolo, l'ho acquisita dall'amico Franco Aquilino. Ero certo che la persona fotografata fosse Gaetano Ippolito, in quanto tale notizia veniva riportata sulla stampa originale della foto con gli estremi della data di nascita (1813) e di morte (1900), completi della scritta "da Tropea", che ne richiama il paese d'origine. Avevo avviato, senza successo, una ricerca per saperne di più. Ne valeva la pena soprattutto perchè attratto dalla curiosità e dal fascino di quel misterioso signore tropeano dall'aspetto trasognato, prestante, elegantissimo, che provvidenzialmente si è lasciato immortalare, forse all'età di cinquant'anni, non si sa in quale gabinetto fotografico. Qualcuno, come lo stesso Franco Aquilino, aveva avanzato l'ipotesi che l'Ippolito fosse un attore proprio per come era abbigliato e per come posava davanti all'obiettivo. Senonchè, a distanza di qualche mese, trovandomi a parlare con l'amico Antonio Pugliese, il curatore del libro "Diario di guerra 1916-1917" di Don Carmine Cortese, pubblicato nel 1998 dalla Rubbettino, sono venuto a conoscenza - per puro caso - che tra i manoscritti, da lui posseduti, di Don Carmine su personaggi, scrittori, poeti tropeani più o meno noti, figurava "un certo" Ippolito Gaetano, "u poeta". Antonio, su mia richiesta, mi ha gentilmente fotocopiato la parte interessata e poi il resto lo state vedendo. Allora, si tratta di 25 pagine di quaderno a righe, scritte a mano. Il lavoro di Don Cortese non è per nulla definito o portato a termine e si presenta sotto forma di bozza, di studio, di appunti compilati a più riprese con l'intenzione di elaborarne una biografia. Nelle prime sette pagine del quaderno sono riportati in successione brevi singole annotazioni, appunti o enunciati sull'Ippolito e sulle sue opere; nelle seguenti cinque pagine sono trascritti tre sonetti tratti dai poemetti; in quelle rimanenti Don Carmine cerca di riordinare le precedenti note per comporre una biografia che all'inizio, tenuto conto del bello stile dei caratteri, farebbe ben sperare sul prosieguo di una elaborazione esaustiva. Invece poi il testo e la scrittura si fanno sempre molto più confusi specialmente per le correzioni praticate e per i non pochi periodi rimasti incompiuti. Ho cercato quindi - dal materiale a disposizione - di elaborare una possibile monografia, riordinando i vari passaggi del manoscritto e trascrivendoli fedelmente, proprio per mantenere intatta l'atmosfera magica vissuta da Don Carmine alle prese di disseppellire <<dall'oblio e dalla polvere>> quel personaggio tropeano a lui tanto caro, intervenendo solo per completare frasi nelle parti interrotte o ricostruire brevi periodi illegibili. Sono molto felice che questo "scrittarello" abbia potuto vedere la luce, realizzando sostanzialmente quello che Don Carmine aveva desiderato ardentemente e cioè far conoscere l'Ippolito ai tropeani, in particolare alle nuove generazioni, e, si capisce, non solo a quelle del suo tempo. Sicuramente non si sarebbe mai potuto aspettare che la pubblicazione sarebbe andata a finire sulla Rete. E poco importa se la mancanza di organicità da parte della mano dell'Autore si fa sentire in alcuni tratti del testo. E' invece da tenere in conto l'aspetto documentale di una pagina di storia tropeana <<patinata di bellezza>>, evento questo davvero portentoso se si consideri che da questo stesso scritto emerge con prorompente vitalità la bellissima immagine in classica posa "ottocentesca" che ci aiuta a vedere i contorni fisici del protagonista, rendendolo a chi legge più vicino e quindi più familiare. Una pagina, dicevo, ricca di riferimenti storici e letterari, traboccante fino all'inverosimile di patriottismo di cui il valoroso Carmine Cortese si era già distinto, soldato, sui campi di battaglia. Non è significativamente patriottica l'immagine dell'Autore che cerca di scoprire il "natio loco" della densa coltre dell'oblio e della polvere che si vanno accumulando su eventi, scrittori, poeti, musicisti nobilissimi dimenticati "ignominiosamente" dall'indifferenza degli uomini? Anzi, è una vera e propria crociata - silenziosa - condotta fino al punto di farsene una ragione della sua vita. Ce lo dimostrano i tanti quaderni dove Don Carmine trascrive dalle riviste e dai giornali dell'epoca migliaia di notizie e articoli che interessano Tropea e i tropeani illustri. Ma c'è anche da sottolineare l'atteggiamento critico sull'opera dell'Ippolito messo in atto, in vari passi del manoscritto, da parte di un inedito Don Cortese, anche se l'umiltà e la modestia gli fanno dichiarare di non esserne capace. E' ancora da notare che due delle pagine scritte sono moduli ufficiali per la raccolta dei fondi della giornata universitaria dell'anno 1931, da cui appunto ho ricavato il periodo del documento. Questo particolare ci suggerisce anche che l'idea di completare l'opera diviene, nei vari momenti della giornata del "prete soldato" tropeano, un vero e proprio chiodo fisso, anche quando il lavoro lo tiene lontano dalla scrivania. A proposito della foto, ho fatto ricorso a vari piccoli ritocchi per coprire i vuoti, intorno alla figura dell'Ippolito, provocati dal distacco in superficie della velatura della stampa originale. Infine - ma non per ultimo - un grande e sentito ringraziamento va agli amici Franco e Antonio.
Ci gode l'animo di togliere dall'oblio degli uomini e dalla polvere delle cose un poeta tropeano: Gaetano Ippolito. Una pagina questa di storia tropeana che deve essere dissepolta presto, se non si vuole definitivamente perderne la memoria. La nuova generazione studiosa tropeana non lo conosce, sia perchè l'Ippolito morì il 13 giugno 1900 e sia perchè, eccetto qualche rara avis, non ha sempre il senso del gusto e del bello, e non sente il tormento e l'ansito della divina poesia delle cose sepolte. Tropea, di cose sepolte, patinate di bellezza, cariche di storia e aspettanti la mano trepida che vi sollevi il velo fatale, ne ha tante. I vecchi però lo conoscono. La foggia originale del suo vestire inappuntabile, il cappello tondo e dalle falde tirate all'insù, la cravatta ampia e svolazzante, e quell'incedere quasi maestoso e quasi sempre triste e preoccupato, a chi lo scorgeva da lontano, facevano esclamare: "U poeta! ". In questa esclamazione paesana, c'era un non so che di ammirazione, di devozione, di vero compiacimento. In questo scrittarello mettiamo le mani innanzi per avvisare i lettori che non siamo fabbricatori di saggi critici e ciò perchè davvero non ne abbiamo la capacità. Questo compito lo lasciamo ad altri. Ma pur non essendo pochi, ci sentiamo di essere solo ammiratori impenitenti della poesia, anche se non siamo nemmeno poeti, specie di quella che abbondantemente si cantò, schietta, come il carattere suo, limpida come i suoi cieli e sonante e colorita come i suoi mari, in questa nostra terra di Calabria, con una forte punta, spiegabile, di campanilismo tropeano. Niente saggio critico quindi, ma un amore per la nobile figura del natio loco che, ignominiosamente, il tempo e l'indifferenza degli uomini cercano di coprire d'oblio. Vogliamo essere allora il buttafuori (mi si perdoni la parola) di tanti scrittori nobilissimi e dimenticati tropeani. Non sappiamo chiudere queste note senza fare una preghiera alla famiglia del fu notaio Raponsoli. Che non vadano perduti i manoscritti da salvare di Raponsoli! Noi dell'Ippolito abbiamo anche oggi dopo tanti anni, fisso nella memoria un ritratto dalla cintola in sù a carbonello - rassomigliantissimo - che mano esperta e sconosciuta tracciò sul pilastro d'una delle arcate del chiostro del Convento dell'Annunciata di Tropea, e che formava la curiosità di tutti coloro che andavano a meditare sul passato vetusto e glorioso convento, ormai senza preci e senza canti, adibito solo a magazzino di fuochi artificiali, depredato d'ogni reliquia del tempo che fu. S'ammirano ancora oggi le sembianze del poeta tropeano nel pilastro dell'arcata sconnessa e annerita dell'Annunciata? Ma quale fu la vita dell'Ippolito? E quale la sua poesia? Della vita dell'Ippolito abbiamo notizie frammentarie monche e forse non sempre esatte. Quello che oggi ce ne fornisce abbondanti è il Can. D. Antonio Accorinti, che del poeta conserva molti manoscritti e che se ne è fatto editore generoso, mettendo a stampa fino ad ora dalla sua tipografia i poemi: "Rosalia da Lecco", "Matilde e Riccardo", i cento sonetti del "Giobbe filosofo" e il "Canto in morte di P. Galluppi". Si chiamava Gaetano Polito: cognome questo portato da illustri e colti ecclesiastici tropeani. Il poeta lo muta in Ippolito. Perchè mai? Perchè spinto dal solito suol poetico? Oppure, studioso dei Padri della Chiesa e delle lettere greche, lo volle mutare in onor del Martire Cristiano? O perchè attratto dalle tragiche e fatali vicende del figlio di Teseo? Noi incliniamo per quest'ultima ipotesi. E possiamo dire che trascorse la sua vita nello studio e nell'insegnamento privato delle massime della Filosofia, dei SS. Padri e della Bibbia: egli chiamò due delle tre figlie Ester e Debora. L'alba lo trovava curvo sui volumi. Si dice che delle ventiquattro ore era capace di trascorrerne nello studio diciassette! Visse una vita onesta, spesa tutta per il suo miglioramento e, si intende, della sua famiglia. Si legga il sonetto quarantaseiesimo del "Giobbe": <<Io di festa nei dì non isguazzai>>. E anche il quarantottesimo: <<Non sono un santo, un angelo non sono>>. Ed altri ancora per conoscere il sentimento cristiano e morale che adornavano l'anima dell'Ippolito. Sposò fuori della città di Tropea. Viaggiò poco. La morsa del dolore e del bisogno strinse forte la sua anima sensibile e aperta, fin dai primi anni della giovinezza, al canto. Quando l'Ippolito nacque, il 10 agosto 1813, era già sull'orizzonte la seconda e rutilante giovinezza di Pasquale Galluppi; e Francesco Ruffa, il "fabbro armonioso di sonetti" come lo chiamò il De Sanctis, gittava a pieno cuore l'alata sua strofa nei tersi cieli della sua patria tropeana e lungo il golfo incantato di Napoli. Quel clero di Tropea, ahimè, tramonto senza dimani...! Fiorivano maestri di pensiero e rimatori gentili, che nutrivano con la loro dottrina, sacra e profana, le nuove generazioni: maestri, come il Can. Goffredo Fazzari (maestro del Galluppi), il Teologo Raffaele Paladino, il Decano Tommaso Polito, il Can. Giuseppe Scrugli. L'Ippolito trascorse la prima sua giovinezza nel Seminario di Tropea. E' nel sacro luogo che cominciò ad aprirsi la vena della poesia nel cuore del giovane seminarista in Accademie, e in ricorrenze di feste religiose, come quella della Canonizzazione di S. Alfonso. Quando Ferdinando II, Re delle Due Sicilie, nell'aprile del 1833, in giro per la Calabria, si porta a Tropea, l'Ippolito, a 16 anni, fu invitato dal Decurione della Città, o dal Vescovo del luogo Mons. Michele Franchini a comporre in nome della Città il canto di ringraziamento al Re pientissimus, come ci ricorda una lapide marmorea, murata in quell'epoca nel palazzo vescovile di Tropea: "Tropea al Re Borbone". I versi di questi tempi però risentono l'artifizio e la maniera del momento: composizioni dal breve respiro, prive della sincerità interiore, pure esercitazioni retoriche. Bisogna aspettare più tardi, quando il filo d'oro dell'afflatus poetico trova fuori del chiuso ambiente ecclesiastico la sua vera direzione. Allora un mondo nuovo s'agita misteriosamente nel fondo del suo cuore; diventato già da un pezzo sposo e padre, viene a contatto con la vita non allegra ma triste, indigente forse, poi ferma nel suo ambiente casalingo tropeano: è allora che il canto si fa più sentito e più libero dall'emozione sincera della sua anima. La sua Musa è vestita di nero, la Provvidenza lo bersaglia, e nel "Giobbe filosofo" è la Vestale un pò in sepoltura anzi che il Cantore:
Nulla m'illude più per me natura Il sorriso perdè, non ha più incanto; Qual Vestale buttato in sepoltura, Continuo i giorni con la morte accanto.
Soffre e canta. E da quel dolore e da quel canto nasce il "Giobbe filosofo". Il "Giobbe" è composto di cento sonetti che cantano le illusioni, le tristezze, la gioia, chimera dell'anima, la povertà, l'ira di Dio, il peccato, l'ingiustizia, ecc.. Ma mentre ti aspetteresti di sentire la bestemmia contro Dio e la negazione della sua Provvidenza, nel libro non spira che un'aura, sebbene aere di rassegnazione e fiducia. L'Ippolito nell'ultima terzina del primo sonetto canta:
Alme pietose, il misero conforto Di una lacrima da te ad uom sò mesto, Che senza illusioni in vita è morto.
E' di quelli dolori, di quelle sofferenze, di quelle crocifissioni, di quel bisogno che si nutre la sua poesia. Mentre chiude questa rassegna di versi il centesimo sonetto con la seguente terzina:
A torto ognor borbotti, e ti contristi Che oprando il ben patisci, il Nume arcano Flagella i suoni e non risparmia i tristi.
Da che cosa è nato questo "Giobbe" che noi chiamiamo "Cristiano"? L'abbiamo detto: dal cuore del poeta!.. Si pensi alla sua vita agitata, solitaria, ai suoi disagi economici per un patrimonio distrutto, alla morte del figlio avvenuta nel Carcere di Monteleone.
Un patrimonio, un figlio mi hai disfatto (Son. 51).
Allora se dicessi che il "Giobbe" nacque dal mondo misterioso di queste sciagure umane, dove s'agita e grida la divina voce della poesia. E se tu nel sonetto dell'Ippolito non sempre trovi l'ala ansimante che spazia e che si bea del suo volo come nel Sonetto di Francesco Ruffa, o la pacatezza riposante e colorita di Luigi Barone, puoi ammirare la scaltrezza invidiabile d'un poeta che curva e domina il verso secondo come il dolore gli spira. Conosceva l'Ippolito il "Giobbe" di Mario Rapisardi dato alle stampe il 1884? Crediamo di no. Con la caduta dei Borboni la musa dell'Ippolito non potè restare indipendente alle aure di libertà e di patriottismo che respirava la Calabria e che animava il mondo di tanti spiriti gagliardi della nostra terra. Sebbene (ci possiamo anche sbagliare) non avesse vissuta l'idea della liberazione dell'illustre Italia, perchè troppo chiusa la sua vita e troppo ligia all'autorità costituita, quando le catene borboniche si spezzarono egli cantò il nuovo ordine di cose. Il poeta è come si svegliasse alla nuova realtà della patria. E allora compose un Carme per la Morte del fratello di Umberto I "Nuptiae" per le nozze di Vitt. Em. III. Ai tempi di Garibaldi, si porta a Napoli. Diventa entusiasta garibaldino e intorno all'Epopea Garibaldina scrive dei sonetti. Tra le opere rimaste inedite, compose un poema in versi sciolti, in 21 canti (perchè questo numero dispari?) su Il Peccato Originale, Siamo indotti ad affermare che l'Ippolito nel comporre il suo poema abbia preso l'ispirazione dal Paradiso Perduto di John Milton, dal Mondo Creato del Tasso (1594), in sette libri, o giorni, dove è descritta la creazione del mondo (8 mila e più versi) e dal Terrestre Paradiso di Bernardino Mangini, in tre libri (in ottava rima). L'Ippolito, appellandosi alla frase famosa di S. Agostino Felix culpa, compone un lungo poema che possiamo chiamare sacro, per dimostrare quasi la necessità del Peccato di Origine, perchè solo così potè il Cristo rivelare all'umanità la ricchezza del suo cuore. Oltre al "Giobbe filosofo", compose il poemetto "Aria" e un'infinità di sonetti su soggetti diversi e molte poesie d'indole religiosa, rimasti inediti, i cui i manoscritti conserva gelosamente il Can. Accorinti. S'aggiungano i poemetti "Matilde e Riccardo", "Rosalia da Lecco" e il "Canto in morte di Pasquale Galluppi", i quali con il "Giobbe filosofo" vennero date alle stampe in questi ultimi tempi a Tropea, a cura del medesimo Reverendo Accorinti, a trent'anni dalla morte del poeta. Questo filiale interessamento del Can. Accorinti è degno di pubblica stima e di più grande lode. A lui raccomandiamo la stampa degli altri componimenti poetici del suo Maestro. E' per questo che noi perdoniamo il buon Canonico quando nella breve e scheletrica introduzione al "Giobbe filosofo" enfatisticamente scrive: <<L'Ippolito, ora come condotto per mano da Talia, sale il dilettoso monte per assidersi tra i primi poeti italiani novecentisti (?)>>. Come gli perdoniamo quello che leggiamo nell'introduzione ai due poemetti "Rosalia da Lecco" e "Matilde e Riccardo": <<.. sale il dilettoso monte per assidersi tra il Monti e il Parini che lo precedettero.>>. Tuttavia, ti concludo che l'Ippolito può avere anche lui un posto nel consesso delle Muse, ove si leggano i sonetti come:
O Madre, o prole, o sposa del Signore, Il devoto tuo popolo perdona, Se d'almo culto in pegno e santo amore, Il fronte t'adombrò d'aurea corona...
D'Angeli nessun coro in suo favor Per anco ti sciogliea d'onor canzone, Nè da la gloria ancor del Creatore Rinnovo (?) ogni ciel, com'or risuona.
E pia di luce, che non mai declina Corona di terrea di Eterno Padre, E te dei mondi stabilir Regina.
Degli spiriti beati sol nel regno Degne ghirlande e onor ritrovi, o Madre Serto non ha la terra di te degno
A Garibaldi
Chi è Garibaldi? folgorante sole tra i semidei che Clio fastosa inserra: ora prodigi le sue gesta, e sole nei dì venturi le dirà la terra;
mente a cuore dei sapoli, che vuole santi i loro diritti e i troni a terra de' Re tiranni, a al volto e alle parole porta il prestigio del nemico in guerra;
dà corone e per lui tiene in non cale, di patrio amor lo domina, e del tristo di questo traditor, odio immortale.
Chi è Garibaldi? Genio che discese dalla pietà di Dio qual nuovo Cristo il riscatto a compir del bel paese.
Il transito di Francesco d'Assisi
Oro non ebbe mai, nè mai ne volle; seguendo di Gesù gl'insegnamenti; pensò che l'alma a Dio vieppiù s'intolle di povertate in seno e patimento.
Ora per bosco e prato, ed or per colle rompea, rivolta a Cristo in questi accenti: fa, che per te lo faccia mia sia molte, sempre d'amor e lacrime ed ardenti!
Il duol mi giova, ed il piacer mi nuoce: le sante traccie tue seguir io anelo in quella valle, ove spirasti in Croce!
D'Assisi il poverel passar fu visto a le delizie dell'eterno cielo col teschio in mano, ed adorando il Cristo!