di Amedeo Furfaro
Vincenzo De Bonis
La prima volta da De Bonis andai nel '77, data più che certa in quanto rilevata dall'etichetta interna alla chitarra che acquistai in quell'occasione. Nella bottega della judeca lavoravano i fratelli Nicola e Vincenzo, riportati nell'edizione del '51 del Dictionnaire Universel des Luthiers di René Vannes quali ultimi liutai, in ordine di tempo, della dinastia debonisiana di Bisignano. Il vederli all'opera per la prima volta fu uno spettacolo indimenticabile per chi, come me, è appassionato di cose musicali dove cose sta anche nel senso meramente cosale, oggettuale, artigianale. La prima cosa che mi balzò agli occhi furono le mani. Agili, nervose, sembravano muoversi, caricate da forza autonoma, interna, mentre stringevano morsetti, bordini, scalpelli, sgorbie (e cioè scalpelli ricurvi), lime, raspe per farne strumenti musicali. Era un facere coordinato, una manipolazione regolare, un movimento quasi ritmico, quello con cui avveniva la selezione dei materiali, il primo assetto alle parti dello strumento - asse, piano, fondo, catene - il loro iniziale assemblaggio e quello delle fasce laterali, la registrazione delle controfasce, l'innesto del manico; quindi, una volta pronto il corpo della chitarra, del mandolino, del liuto, l'attacco del piano armonico, la filettatura, le ultime cure alla tastiera ed i particolari ulteriori di rifinitura. Un lavoro che durava mesi la cui articolazione era visibile grossomodo: un solo sopralluogo alla bottega in quanto vi si potevano trovare dalle semplici sagome a strumenti in fase più o meno avanzata di costruzione. Altre mani li avrebbero toccati, anch'esse veloci ma abili a produrre suoni premendo i tasti, pizzicando le corde. Mani di musicisti, artigiani a loro volta nel senso di produttori di armonie tramite un'azione manufattiva: l'esecuzione musicale. Ed il liutaio, artigiano d'arte, è creativo, come il musicista, quando intona liberamente melodie sullo strumento che sta per venire alla luce, immedesimandosi nello studente o nel concertista al quale affiderà quella sua creatura, partecipando idealmente al momento amniotico della produzione sonora. Ancora; il liutaio è cretaivo, come il musicista, quando imbraccia la chitarra battente per decorarla mirabilmente, rendendola unica ed inimitabile. Qualcos'altro colpì, già in quella prima visita, la mia curiosità; la bottega. Posta fra quel grumo di case che costituiscono l'antico quartiere degli ebrei della Brutia Besidiae essa poteva apparire, all'avvenire, un comune laboratorio di falegnameria. Uno scaffale carico di colle, lacche, impasti, un tavolo di lavoro, arnesi alla parete, qualche sedia, odoroso legname poggiato, senza ordine apparente, in fondo alla bottega, poco dopo la porta che, sulla destra, fungeva da comunicazione col resto dell'abitazione. La bottega, però, tradiva la sua destinazione nel momento in cui vi si intravedevano, un po qua un po là, forme abbozzate o ben definite di strumenti liutistici. Un avventore meno distratto è più documentato avrebbe avvertito, in quel posto, una qualità che a me è sembrato di avvertire subito: la palpabilità della storia attraverso gli oggetti ed i materiali presenti. A leggere il già ricordato Vannes, il capostipite dei De Bonis, Vincenzo I, morto nel 1850, era nato nel 1780. Ma questa data non è indicativa del momento in cui la bottega sorse. Gaetano Gallo, in un numero di Brutium (XLII,2), faceva riferimento ad un censimento curiale dei <<fuochi>>, cioè dei focolari familiari, riportato, evidentemente, su documenti di molto precedenti quelli contenenti i dati anagrafici ai quali si è rifatto il Vannes per il suo Dictionnaire. In effetti, quando l'arte liutaria ebbe, nel 5-600, il suo periodo d'oro con celebri scuole a Cremona, Bologna, Venezia, Brescia, la produzione liutistica bisignanese era pure affermata per pregio e qualità dalla committenza aristocratica specie in occasione delle rappresentazioni dei melodrammi che si tenevano a corte. Allorchè, nel post-rinascimento l'arte liutaria del centro cosentino, sede, altresì, di fabbricanti di strumenti di metallo e degli organisti Gallo, scadde di livello, si <<popolarizzò>> e perse competitività con l'esterno per varie difficoltà di natura sociale ed economica, la tradizione liutistica non si interruppe, anzi, più avanti nel tempo, sarebbe stata nobilitata dall'attività dei liutai G. Battista Ferrari (1795-1862) e Vincenzo Cariati (1837-1902) imparentati con i De Bonis e, comunque, ruotanti anch'essi attorno alla loro scuola. La sequenza cronologico-anagrafica non è la sola utile a datare o, quantomeno, a stabilire delle scansioni temporali alla attività dei vari De Bonis. Altri dati in questo senso potrebbero fornirli i diplomi conseguiti in manifestazioni e concorsi di liuteria semprechè si siano salvati dall'usanza di una volta per cui si seppellivano i defunti con le onorificenze acquisite durante la vita terrena. Numerosi sono custoditi in bottega, in cornice o chiusi in un baule. Le attestazioni più retrodatate risalgono all'epoca fascista. Comunque il fatto che le certificazioni relativamente più recenti siano maggiori di numero discende principalmente dalle ridotte possibilità di scambio e di comunicazione di un tempo e della limitata esistenza di istituzioni o associazioni finalizzate alla promozione della liuteria, secondo quanto accade oggi. Altri elementi per <<storicizzare>> le vicende della bottega e dei suoi titolari sono rilevabili dai libri e dalla stampa: dagli articoli sulla rivista <<Brutium>> - il primo apparve nel '29 - ai servizi di moderne testate giornalistiche, fino alle brevi puntate saggistiche come quella effettuata, en passant, da R. Curia, nel 1985, nel volume Bisignano nella storia del mezzogiorno. Una storia della bottega la si sarebbe potuta tracciare <<dal di dentro>>, osservandone i visitatori qualora, utopisticamente, vi fosse rimasta nascosta una candid camera a registrare in bobima volti e colloqui di comuni curiosi, semplici acquirenti, insigni studiosi, giornalisti invadenti, strumentisti di fama e non, chitarristi <<classici>> e musicisti d'estrazione leggera, folk, rock. Ma la ricostruzione più puntuale delle tappe della bottega-scuola, teatro di una vicenda umana ed artigianale-artistica inrergenerazionale, dovrebbe esser data dagli stessi strumenti a marchio De Bonis, almeno i più pregiati e significativi, riuniti in un catalogo ovvero, magari, in una mostra. Ma non mi si fraintenda. Il tono di questa nota non è propositivo. Non ce ne sarebbero i presupposti. Durante la mia più recente visita a Vincenzo De Bonis, avvenuta un anno fa quando scattai alcune foto per completare la parte illustrativa di un mio volume sulla storia della musica e dei musicisti in Calabria, la bottega era sempre lì, uguale a se stessa, come se il tempo vi avesse trovato riparo. Ma da qualche anno Nicola non era più e Vincenzo era rimasto solo a lavorare ed a rammaricarsi della sua solitudine. Di uomo e d'artigiano. L'attivismo felice che avevo riscontrato dieci anni prima era un lontano ricordo. E il decennio che andava consumandosi sembrava un'eternità. La bottega mi apparve come meta di un pellegrinaggio in attesa della morte annunciata di una tradizione d'origine plurisecolare. A nulla sono valse le interviste, gli articoli di stampa, gli appelli accorati per tentare di costruire un futuro al passato prestigioso della bottega De Bonis. Vincenzo terrà per sè i segreti della propria arte.