Il frontespizio della raccolta di versi dedicata alla nobildonna Livia Colonna, pubblicata a Roma nel 1555 a cura di M. Francesco Christiani.LE CANZONI DI
LORENZO DARDANO
PER LA NOBIL DONNA
LIVIA COLONNA
 
 

di Salvatore Libertino
 


Il Dardano è appena ricordato dal Marafioti nelle <<Croniche>>, dallo Scrugli nelle <<Notizie archeologiche di Port'Ercole e Tropea>>. Sarebbe vissuto nel XVI secolo: lo Zavarrone lo dice scrittore del XV. Il Capialbi, nelle Memorie della Santa Chiesa Tropeana ci informa di un suo sonetto, inserito a pag. 265 del Tempio alla divina signora Giovanna di Aragona fabbricato da tutti i più gentili spiriti e in tutte le principali lingue del mondo, raccolta di versi a cura di Gerolamo Ruscelli del 1555. Il Minieri ci dice che egli pubblicò un volume di scritti diversi. Il Falcone (Vol. 2, pag. 18) aggiunge che dell'Abate Dardano abbiamo sei bellissime canzoni, cinque in vita ed una in morte di Livia Colonna, riportate fra le Rime di diversi eccellenti autori, in vita e in morte dell'Ill.ma Signora Livia Colonna, raccolte da M. Francesco Christiani e pubblicate a Roma nel 1555 per Antonio Barrè. E' bene ricordare che nell'opera appena indicata i compositori che rendono omaggio a Livia sono più di una trentina, di cui alcuni di grido come Annibal Caro, lo stesso Christiani, Anton Francesco Ranieri e Giovanni Della Casa. E allora chi era Dardano? Sicuramente una persona colta e ricercata e non solo nel territorio d'origine. Il conte Capialbi nelle suddette Memorie gli dedica quattro pagine ma per illustrare i vari capitoli che compongono un manoscritto lasciato da quest'autore e custodito nella propria "domestica biblioteca" in Monteleone, anzi il Capiabi precisa che gli esemplari posseduti sono addirittura due! (Ma quando sarà aperta al pubblico questa benedetta biblioteca, ancora non è dato sapere!!!) Manoscritto dal titolo Del sito della città di Tropea fatta dal signor Lorenzo Dardano di essa città. Tra le pagine delle Memorie troviamo qualche considerazione da parte dell'archeologo monteleonese su quale periodo sarebbe vissuto il nostro personaggio, che senza dubbio appare subito tropeano dal richiamo contenuto già nel titolo della sua opera, anche se il cognome non trova alcun riscontro tra le famiglie tropeane conosciute del tempo. Mentre, i fatti storici narrati - con taluni riferimanti del 1599, come la costruzione del convento dei cappuccini di Tropea - fanno ritenere che la vita del Dardano si sia sviluppata durante la seconda metà del Cinquecento. Il Capialbi conclude che potrebbe darsi che il Nostro sia stato un "uomo di chiesa e poeta" e cioè quell'abate Dardano, autore di quel sonetto che si trova a pag. 265 della citata raccolta del Ruscelli. Ma noi aggiungiamo che si tratti anche dello stesso abate compositore delle sei bellissime canzoni, raccolte e pubblicate da M. Francesco Christiani. Ed allora, se così è, dovremmo evincere che il 1555 sia l'anno in cui per la prima volta viene stampato e pubblicato un testo in versi di un autore tropeano.
Abbiamo così pensato di fare cosa gradita a coloro che intendono approfondire l'aspetto letterario del Dardano, riportando di seguito le sei composizioni della raccolta del Christiani, dando dei veloci cenni storici e biografici su Donna Livia Colonna, una delle signore più in vista ma anche sfortunata della noblesse romana del Cinquecento, che in definitiva è la destinataria dei versi composti in suo onore e memoria.
Intanto, illustrissimi sono i natali di Livia che vede la luce nel 1522, essendo figlia di Marcantonio Colonna (1478 - 1522), protagonista di innumerevoli imprese militari, e della nipote di papa Giulio II, Lucrezia Gara della Rovere. Sposa a diciassette anni, nel 1539, malgrado il rifiuto della propria famiglia, Marzio Colonna, conte di Marieri, che la rapisce conducendola al castello di Fondi, dimora di Donna Isabella Colonna. Ma l'unione, allietata dall'unica figlia Orinzia, che sposerà per motivi dinastici il cugino Pompeo Colonna, figlio di Camillo, è di breve durata. Infatti nel 1546 il marito Marzio perde la vita in battaglia. Ed è proprio il genero Pompeo Colonna che a questo punto progetta, per motivi di successione dei beni spettanti alla moglie Orinzia, l'assassinio di Livia ancora trentaduenne, che avvenne a Roma la sera del 21 gennaio del 1554, nelle stanze di Palazzo Colonna a piazza Santi Apostoli. Venticinque sono le pugnalate inflitte sul corpo di Donna Livia da due sicari che lo stesso Pompeo fa introdurre nottetempo all'interno dell'austero palazzo fino alla camera del letto dove da qualche giorno la nobildonna romana si trova inferma per forti dolori ad una spalla. Al riguardo dell'omicidio, importantissimo sugli aspetti storico-documentali, risulta il saggio di Gian Ludovico Masetti Zannini Livia Colonna tra la storia e le lettere, pubblicato a Roma nel 1973 tra gli atti degli Studi offerti a Giovanni Incisa della Rocchetta, che con, in appendice, una corposa documentazione delle testimonianze dei domestici verbalizzate nel corso del relativo processo, ha modo di fornire agli storici una miniera di notizie riguardanti i possedimenti, la vita di Livia e uno spaccato interessante di una delle famiglie più potenti del tempo, come quella dei Colonna.
La storia dell'uccisione di Livia giace nei faldoni processuali per almeno più di due secoli. E' il piemontese Tommaso Valperga di Caluso che per primo, nel 1803, riesuma il caso, inserendone una memoria storica Di Livia Colonna del cittadino Tommaso Valperga nell'Antologia letteraria Mémoires des Sciences Litérature et Beaux-Arts de Tourin pour les années X et XI. Littérature et Beaux-Arts, Torino (pag. 247 - 257), adattandola alle cronache romantiche dell'epoca. Ed è in quella occasione che Lorenzo Dardano, suo malgrado, ha un quarto d'ora di celebrità per aver descritto, nell'ultima composizione pubblicata di seguito (vedi "Canzone prima, in Vita della S. Livia Colonna"), il momento dell'omicidio con un passaggio tutto da interpretare:

.....................................
Indi'l lacero petto (ohime scoverse)
Che sotto un bianco vel tenea celato,
E la recisa man, l'aperto lato
In si duro spettacolo m'offerse,
Tal che la luce allhora non sofferse
Di star più asciutta, e tal fù la pietate;
.......................................

Infatti, la frase "E la recisa man" si presta a varie interpretazioni, come quella dell'amputazione, al momento dell'uccissione, della mano di Livia per aver questa abbandonato la castità vedovile ed unirsi a un servitore. Ma il Masetti Zannini non è d'accordo nè con questa interpretazione nè con quella del Caluso che si sofferma sull'idea che "la suocera segretamente avesse data la mano di sposa a qualche suo famigliare di bassa nazione". Da qui il disonoramento del casato. Lo stesso Masetti Zanini conclude, anche in considerazione che gli atti del processo non parlano assolutamente del taglio della mano (pena invece riservata a ben altra gente), che occorrerebbe dare alla "mano" del verso del Dardano il senso di "fianco". Infatti Livia scopertosi il "lacero petto" non poteva in tal guisa mostrare una "mano", ma verosimilmente un fianco, con una profonda lacerazione. La versione viene rafforzata dalla ripetizione "e la recisa man, l'aperto lato" che evidenzia l'immagine dello scempio fatto in quella parte del corpo dal ferro dei sicari.
Non è la prima volta che il poeta tropeano è chiamato a rendere omaggio a Livia Colonna. Lo troviamo infatti in un'altra raccolta di versi, questa volta manoscritta, che si trova nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Codice Barberiniano Latino 3693), antecedente a quella di Christiani, dal titolo Composizioni latine et volgari di diversi eccellenti authori sovra gli occhi della Ill. Signora Livia Colonna. L'opera riunisce i contributi di molti poeti, invitati a comporre in occasione della malattia agli occhi che rende momentaneamente cieca del tutto la nobildonna che riesce in breve tempo a recuperare la vista perduta. Questa volta il Dardano compone per la bella nobildonna romana almeno quattro canzoni di eco petrarchesca.
 
 

IN MORTE DELL. S. LIVIA COLONNA

Del Abbate DARDANO, Canzone prima.


A piè del sacro colle,
che con memoria eterna
Serba l'antico nome al gra' Quirino,
Con occhi, e viso molle,
De la pietade interna,
Si stava un sconosciuto pellegrino;
E col ginocchio inchino,
Con le man giunte insieme,
Tutto da sè diviso,
Il ciel mirando fiso,
Com'huom, ch'ivi più spera, ove più teme;
Hor à Giove, hor al sole,
Sospirando volgea volto e parole.

Giove (dicea) se tanto
Altrui giovar ti piace,
Che drittamente indi'l tuo nome e prendi,
Che non riguardi alquanto
In qual tenebre hor giace
La nostra vita? e che non la difendi?
Chè tardi? e che non rendi
La luce à que'bei lumi?
E l'usato vigore?
Ne quai pur regna Amore;
A'suoi pon freno, e da'legge, e costume,
Io per me non sò come
Scusar ti dei, se manchi hor al tuo nome?

Tu come Amor t'invoglia,
Hor volto, hor spetie, hor sesso
Cangiar se' uso, e prender varie forme;
Cosi sotto altrui spoglia,
Fai di bei tratti spesso;
E tutto vienti al tuo desir conforme;
Hor muovi i passi, e l'orme
Già per l'usata via,
Sotto novello aspetto,
D'alcun chiaro, e perfetto
Fisico antiquo, e più bel tratto sia,
Che non quello del Toro,
Ne quel di Beroe, ò quel del nuvol d'oro.

Ben che presumer d'altro,
che di voler à Giove
Di lor salute, una perpetua loda;
Non ti varrebbe, e scaltro
Può ben esser altrove;
Che con costei, non val forza, ne froda:
Assai sia, che tu goda
Del bel sembiante humano,
E del sol, de begliocchi,
E che talhor le tocchi,
Pur in segno d'honor la bianca mano;
Indi, che i lumi santi
T'oblighi insieme, e mille honesti amanti,

Apollo, e tu quel velo
Da l'alme luci sgombra;
Che lor fa' notte, e gli occhi no oscura,
Rompi'l timore, e'l gielo.
Che sì la speme igombra,
Che de lo scampo altrui no è sicura
Scendi s'hai di noi cura,
A' te o fà mestiero
(Essendo Iddio de l'arte)
Finger in tutto, ò in parte
Altra sembianza, che'l tuo volto vero,
De la cui sola vista,
Spesso l'inferno ogni virtù racquista.

Proverbio è fatto antiquo,
Ch'ogni simil mai sempre
Naturalmente brama il suo simile,
Invido atto, e obliquo
Fora, sì stail tempre
Mutar de la natura in vario stile;
Certo ad un cor gentile
Degno di te, no lice
Esser d'invidia offeso;
No pur dic'io che preso
Sia tu del morbo misero infelice;
Anzi credo io ti piaccia
Ch'altri del tuo splendor fede qui faccia.

Che'l vivo, e bel pianeta,
Quasi un'altro Oriente
Rende chiaro, e felice il secolo nostro;
rasserena, e fà lieta
Ogni leggiadra mente,
E purga altrui lo stil rozzo, e l'inchiostro;
Onde nel sacro chiostro,
D'amor mille e mill'anni
Viva si bella Donna,
Vera d'honor Colonna,
Senza mutar mai chiome, ò viso, ò panni;
Et à l'età future,
Largo honor giunga, e à le passate, il fure.

Dunque per monti, e piani,
Herbe, radici, e fiori,
Raccogli ovunque il tuo bel carro gira,
E con le proprie mani,
Opri, sughi, et odori,
Ver chi d'altrui più che'l suo mal sospira,
Per colei, ch'anco spira
Dentro l'amata fronde,
Priego, ch'à giusti prieghi,
Giustamente hor ti pieghi,
Sì che la nave mia d'aure seconde
Sospinta, arrivi al porto;
Et io gratie ti renda e vivo e morto.

Canzon Giove tonò, dal manco lato,
E chiari segni diede
Di luce il sol, tu ne potrai far fede.

 
 
 

Del Abbate DARDANO, Canzone 2.
Al Signor Ascanio.


Cortese spirto, il cui raro valore
Ben mostr'altrui, quanto il suo merto avanzi
Ogni honor di fortuna, ogn'alto stato;
Gli occhi di che parlai mesto pur dianzi,
Come pietà mi spinse, e puro Amore,
O' voler forse di benigno fato,
Di più nobil ingegno, e più lodato
Sono soggetto; e di più chiaro stile,
Che'l mio sopra se stesso non si stende;
Ma quell'alta virtù ch'in voi comprende
L'altre già tutte, e spregia ogni atto vile,
Di bel nodo, e gentile
M'hà stretto sì, ch'io non rifiuto il peso,
Sol di desio, di sodisfarvi acceso.

Il Rè del ciel, che spesso il mondo adorno
Suol far, di chiari e gloriosi numi,
Hora d'un vivo sole ornar lo volse,
In cui non pur soavi, ardenti lumi,
Da sgombrar l'ombre e menar seco il giorno;
Ma d'ogn'altra virtù celeste accolse,
Anzi per maggior pregio, entro v'involse
Tanto del suo splendor, ch'ivi natura
Si specchia, si compiace e il desir queta;
lasso il lungo eclissar di tal pianeta,
Non è senza mestier, che vi pon cura;
Qualhor Phebo s'oscura,
segna strage, e ruina; hor quando mai,
Fù presso Europa à più dogliosi lai?

Ma ben ch'inditio sia d'ira e di pianto,
Giusta cagion di rari effetti e belli;
Esser ne può se sapren bene usarlo,
Che Dio quantunque manda i suoi flagelli,
Ne dà pria segno, accioche l'huomo in tanto,
Con inchinarsi à lui, possa placarlo;
Però di tutto cuor ogn'hor pregarlo
Dovrebbe ogn'uno, e domandar mercede,
Mentre la sua pietà cosi ne sorge,
Ne questo sol, ma ne solleva e porge
La man talhor, quando non altri il chiede;
Deh pur con ferma fede,
Spiegiam là sù de i pensier nostri l'ale,
Si vedrem poi mutarsi in bene il male.

Quante il fato quaggiù grazie comparte,
Tutte l'eterno Amor pose in quest'una;
Ver cui Saturno in van sue forze adopra,
Che mentre in piè staranno e sole, e luna,
vivrà l'alta sua gloria in ogni parte;
Ben che'l mortal di lei terra ricuopra,
Esser non può, ch'in breve ella non scuopra,
L'alme luci divine, per cui fersi
Mille lamenti lagrimosi indarno;
Che'n val di Tebro, e'n sù la riva d'arno,
Chi con leggiadre rime, e chi con versi,
In stili alti, e diversi,
Quasi spente le pianse; e chi di quelle
Privò la terra, e'n ciel ne fè due stelle.

Vano timor, e chi non sà, che'l sole,
Quantunque volte sua soror l'adombra,
In sè non già, non solo à noi vien meno?
Così quella importuna, e torbid'ombra,
Che qual nebbia apparir, e sparir suole,
Celò, non spense il bel lume sereno;
Io non potrei signor mostrar à pieno,
Di quanto, equal piacer l'alma si pasce,
In ragionar di si soave oggetto;
Altro dolce non è, ne par diletto,
Provai dal dì ch'io fui nodrito in fasce,
Quinci nel cuor mi nasce,
Un desio, che crescendo d'anno in anno,
Bear potrebbe altrui s'io non m'inganno.

Non fur pria conosciuti si begliocchi,
Ne lor diè'l mondo degni honori, e pregi
Ch'una aperta bellezza è men gradita;
Ma poi che invido humor d'oscuri fregi
Gli cinse, hebber timor notturni, e sciocchi,
D'eterna notte e di già morta vita;
E qual chè chiede dopo al danno aita,
Corser tutti à quel vago e bianco, e nero;
Poscia, che chiuso havean del dì le porte,
Cosi quel, che non fè benigna sorte,
Ecco l'hà fatto il caso acerbo e fiero;
Human basso o pensiero
Non sale in Giove i suoi screti ascende,
Da cui ne viene il tutto, e non altronde.

Ma che sia mai? che di novelli fiori
S'orna la terra e veste hor d'herbe, quando
Fredda stagion devria recarne il gielo;
E lieti oltra misura andar scherzando
Veggio per l'aria pargoletti Amori,
E seren farsi d'ogn'intorno il cielo,
Certo Madonna havrà disciolto il velo,
Che contendea di que' bei lumi il raggio;
Che soli han qui trà noi tanta virtute;
Hor in riso, chi pianse, il pianto mute;
Hor si sollevi il mio stanco coraggio;
Hor ogni dotto, e saggio
Sacri versi, alte rime, e volga inchiostri,
A' lei, ch'eternar puote i pensier nostri.

Sù la riva del Tebro, ù la superba
Donna s'inchina, al vaticano ogn'hora,
Vedrai Canzon il tuo signor, e mio;
Dilli non hà'l poter pari al desio
Colui, che sì la virtù nostra adora;
Pur come può v'honora,
E nel difetto suo, di scusa è degno,
Là, dove human valor non giunge al segno.
 
 

 

Del DARDANO, III


Ben mi credea, de sacri doni carco
Venir ò Apollo, à visitarti in Delo,
et ivi farti à mio poter honore;
Quando sciorti vidd'io d'oscuro velo
Gl'occhi soavi, ove gli strali, e l'arco
Serba, e accende le sue faci Amore;
Ma da giusto timore,
E da nuova cagion preso hora, e mosso,
Com'io vorrei non posso,
Di miei graditi prieghi haverti gratia;
Che non ben si ringrazia
Chi fatto sano altrui d'un'aspra piaga,
D'un'altra e via maggior al fin l'impiaga.

Io ti pregai per la salute Apollo,
De' begliocchi leggiadri, honesti, e santi;
Onde quella pendea de la mia vita,
Non che rasciutti à pena i lunghi pianti,
Tu ancor ponendo al dolce giogo, il collo,
Piagasti altrui d'una mortal ferita,
Di così fatta aita,
Per me vorrei più tosto esser lontano,
Un tiranno inhumano,
Che più far può, che di soccorso il chiede?
Il qual sotto tal fede,
Di servare à se stesso al tutto intenda
Ciò che con empio ardor guardi e difenda.

Poteva altri soffrir con qualche pace
Il primier colpo, ò senza ingiuria'l meno;
La natura incolpando, ò vero il fato;
Il secondo non già, che'l suo veleno
I sens'ingombra, e come infermo giace;
Portar conviensi con la morte à lato,
Peggio è, ch'in tale stato
Nuoce più l'altrui ben che'l proprio male;
Ahi colpo aspro, e mortale,
Ahi Fisico superbo, ahi crudo inganno,
Ch'un duol causi, e un danno,
Che nol pareggia estremo caso, ò forte;
Ne quel timor, che và'nanzi à la morte.

Ecco, ch'el fiero ardor celar non sai,
Si t'accieca la voglia ingorda e fella,
La qual tu mostri à più d'un segno espressa;
Più volte al freddo, al giel, la tua sorella
La nuova luce hà da fraterni rai
Presa, come dal ciel gli vien concessa;

Ne mai l'arie compressa
D'alcuna nebbia, à te s'oppose in parte;
Tutto per opra, e arte,
Di quel desio che per costei ti muove;
Brami fruire, à tuo bel agio (ahi lasso)
senza ch'altri t'arretri, ò chiunda il passo.

Non tem'io pur, che men, c'honesto effetto
Di sì mal nato Amor, nascer ne possa,
Che tutt'in ciò mena di par costei,
M'agghiacciar sento sangue, polpa, e ossa,
E mancar indi l'anima nel petto,
Quand'io penso al tuo acquisto e à danni miei,
Però, ch'infra gli Dei
Essendo tu'l più bello e'l più gentile,
Et à lei'l più simile,
Di mirar in altrui la sua bellezza,
Prenderà tal vaghezza,
Che terrà sempre in te sì fissi gliocchi,
Ch'altri ne spasmi, e di dolor trabocchi.

A' dar la volta non fostu già lento,
Anzi lasciato à dietro il Capricorno,
A' noi t'appressi con veloce corso,
E quanto ogn'hor ne vai crescendo il giorno,
tanto ancor cresce il mio fiero tormento;
E lo spirto vien meno al fin già corso,
Onde sì punto, e morso
A'l'estremo son gionto, e con me molti
I quai vivi hai sepolti:
Se pietà non soccorri e à tanta doglia,
Frena per Dio tal voglia,
Che troncar in un colpo, dà radice
Il fior de gli anni à mille à te non lice.
Mentre 'è viva costei, degno è, ch'à noi
Che siam di quà, renda i soavi sguardi,
Ond'altri vive e'l cor ciba e la mente,
E tu se ben ver lei d'Amor pur ardi,
Frenando il bel desir attender poi
Fin ch'ella fugga la vita presente;
Più bella, e più lucente
Potrai fruirla in ciel senz'altrui noia,
E se talhor t'annoia,
Un si lungo aspettar, mirala e godi,
Del suo splendor, ma odi,
Fà sì, ch'ella nol vegga, e non si volga
Così ver te, ch'à noi la luce tolga.

Spiega l'ali Canzone,
Tanto ch'arrivi al bel giro del sole,
Ivi accenti, e parole,
Con lagrime accompagna e con sospiri,
Si che gli oltreni martiri
Giungano al fine, e torni'n riso il pianto,
In gioia il duolo, e le querele in Canto.

 
 
 

Del Abbate DARDANO, Canzone Quarta.


Lasso quanto più à noi s'appressa il sole,
Tanto l'alma dal cor più s'allontana,
Misera, e l'ali spiega à l'altra vita,
Che contra i Dei non val difesa humana;
E il superbo rival non sà, ne vuole
Lasciar l'impresa, ah crudeltà inudita;
Opra tu mano ardita,
Ferro, ò foco, ò velen, tronca la doglia,
In cotal guisa, e spoglia
Quella dolente in tutto del mortale,
Pria, che del nostro male,
Novella alcun de suoi ministri apporte,
Che sia dura à soffrir più che la morte

Ma mentre (se mortal non è la piaga
ch'indi sperar salute altri non possa)
Chè non cerco io rimedio à la sua cura?
E chè non so l'estremo di mia possa?
Acciocche l'alma di partir già vaga
Non ceda al men vilmente à la natura?
Di gelata paura
L'audacia di costui m'hà stretto il core;
Da l'altra parte Amore
Di speme il pasce, e vuol, ch'io sper'in lei
Dunque devotò i miei
prieghi volgendo là dov'ei m'informa,
Sciorrò là debil voce in cotal forma.

Donna del cui leggiadro, e bel costume,
Porto accesa la mente, e del cui sguardo,
E parlar saggio, il senso oltra non chiede,
Se vivace la fiamma ond'io sempre ardo,
Serbar procuro à voi mio vivo lume;
Il so, per non mancar di quella fede
Che'l cor lieto vi diede,
Quando sacrò se stesso al vostro nome;
Ei v'ha giurato, e come
Non è del voto suo per venir meno;
Così voi con sereno
volto, à l'incendio mio dovete ogn'hora
Prestar di quel liquor ond'ei non mora.
Non già ch'io mi diffidi del divino
vostro giudicio, e del pietoso affetto,
Ver che, di vostri honori unqua non tace;
Ma forz'è che'l cor tremi nel cospetto
Di si alto avversario, e che'l meschino,
Ricorra à voi, ch'altrove non hà pace:
Quant'ei ne venga audace
Apollo, e ingiurioso e inportuno,
Chiaro sel vede ogni uno;
Ch'al forte suo spronar, pon mente alquanto;
 

Ecco d'ira, e di pianto
Roma, Italia, anzi Europa affatto piena,
Sel valor vostro il suo furor non frena.

Esser non può del costui senno essempio
La figlia di Peneo conversa in fronde,
Tal che sol de pensier neve divegno,
E se gran tema il ver non mi nasconde
Parmi in breve veder con maggior scempio,
Un'atto assai più fiero, e via men degno;
Però che giunto al segno,
Dove addietro voltar bisogna i passi
Che'l Tropico ei non passi,
Chi n'assicura? ò con superba fronte,
L'eccesso di Fetonte
Rinnovando, non metta il mondo in foco,
Si che rimedio alcun non v'abbi loco?
 

O' se non questo, à lui che porrà legge?
Che non si fermi al Cancro, acciò d'appresso
Possa ne be' vostri occhi ogn'hor mirarsi?
Il che sarebbe ancor di danno espresso,
Perchè quanto hor quel segno,
Tanto veggiamo il tempo variarsi,
E freddo, e caldo farsi,
Secondo hor meno, hor più, ne stà lontano:
Si che 'l viver humano,
Non mutando stagion manco verrebbe,
Anz'in ruina andrebbe,
Quanto governa in questo basso il cielo,
Chi per continuo caldo, e chi per gielo.

Hor voi, ch'oltra infinite e rare doti,
Che vi diè insieme e la natura e'l fato,
Non cedete d'ingegno ad alcun saggio,
Volgete gli occhi à l'universo stato,
E chinando gl'orecchi, à l'altrui voti,
Opponete la mano à tanto oltraggio;
Indi col vivo raggio,
vostra mercè, che da begliocchi viene,
Sostenete la speme
Di chi v'adora, e quanto parla, ò scrive
Di voi, tanto in sè vive,
E tanto d'anno in anno e spera, e brama,
Alzar al vostro nome la sua fama.

Canzon, quella mercede
Che non trovò nel ciel la tua sorella,
Già di te non men bella,
Traverrà interra tu, (si com'io spero)
Nel mio vivo sol vero,
In cui risplende in sè di ben nostra etade.


 
 

Canzone V del Detto


Giunto era il sole, al più gra' dì de l'anno,
Indi volgea si lento à dietro i passi,
Che parea in tutto stabile il suo corso;
Et io gliocchi portava humidi, e bassi,
Certo non che presago del mio danno;
Non sperava à miei casi altro soccorso;
Poi che quel m'era scorso,
Ch'esser dovea sostegno à la mia speme;
E qual, che brama e teme,
Di ciò, che men volea saper, cercava;
Ch'ogni dì intento andava,
L'ombra osservando, d'alcun tronco, ò legno,
Che fisso in varij luoghi havea per segno,
Mà inanzi à gli occhi de la mente Amore
Mi s'era opposto, e con si fatto velo,
Che lor togliea la mia virtù visiva,
Ch'io vedea l'ombre ne però del cielo,
Scerneva il moto in quelle; sì'l timore
In giudicando l'anima impediva;
La qual dolente, e priva
Del bel discorso, e del mio mal sicura,
Depost'havea la cura
Di ministrar al corpo manco
tosto venire, ed'ella andarsen'queta,
Ove la si chiamasse il suo pianeta.
Non fù tanto il diluvio, à patir grave,
Quant'io credea, ch'una perpetua estade
Esser dovesse à i miseri mortali,
Che in quai Monti io dicea, in quai contrade,
Potrà rifugio haversi, e con quel nave?
Ch'ivi huom non trovi ancor gl'istessi mali?
Spieghi, chi vuol pur l'ali,
Una ferma stagion vedrà per tutto,
Che le parti con tutto,
Andrà struggendo insieme à poco, à poco,
Tal che non resti loco,
Dove scampando possa accorto, e saggio,
Co' sassi rovinar l'human legnaggio

Hor mentre di pensier si gravi carco,
Piangea me stesso, bestemmiando il giorno
Che prima aperte havea le luci al sole;
Ecco un giovane vago, il capo adorno
Cinto di lauro, e di saette, e d'arco
Armato il fianco come arcier già suole,
Misero ciò che vuole
Crudel huom sempre, ond'à lui lieto il ciglio
Voldi, sperando il figlio
Di Ciprigna veder, ma ratto il torsi,
Poscia ch'in man gli scorsi
La cetra, che Mercurio al tempo antico,
Diè, com'huom dice, à ch'io credea nemico,
Fuggir vols'io, non per desio di vita;

Ch'in un stato si misero il morire,
E' solo il porto de l'altrui tormento;
Ma ciò per man del mio rival soffrire,
Non potè l'alma offesa e sbigottita;
Tanto mi nacque al cor, sdegno, e spavento;
Quand'ei via più che vento,
Veloce al corso, m'arrestò con mano;
E con parlar humano,
Non temer disse, che perche tu sia
Degno de l'ira mia,
L'alta cagion del tuo furor ti scolpa,
E' rende appò me lieve ogni tua colpa.

Ma se ben per Amor di quell'altiera,
Ch'à te la mente hà di ben farsi accesa;
Et specchio à me fà ogn'hor del suo bel volto,
Ti perdono hor il fatto, ond'hai si offesa
La mia Vertù qualhor'dopo non t'era;
Non però vò, che da la pena ascolto
Vada poco ne molto,
Ben che per far altrui la bontà rasa,
Degli Dei vià più chiara,
D'un così grave error qual sia la pena?
Che l'istessa catena,
Ch'amor ti pose, e la tua Donna al collo,
Porti in eterno senza mai dar crollo.

E che per mutar loco, ò cangiar sorte,
Per variar di tempo, ò scorrer d'anni,
Non manchi un'hora mai de la tua fede,
Anzi al riposo insieme, e à gli affanni,
Al bene, al male, à la vita, à la morte,
E quando'l dì si parte, e quando riade;
Lei, che di te possiede
La miglior parte, sola in terra adori;
E più che possi honori,
Hor con la penna in tanto, hor con la lingua,
Tal che saturno estingua,
Tutti i suo'figli, e mai non spenga il nome,
Di quel bel viso, e de le bionde chiome.
Detto questo d'un ramo
De le sue frondi, le mie tempie avvolse
E si ratto si tolse
De la veduta mia, ch'io non potei,
Come voluto harrei,
Canzon bacciarli, reverente i piedi,
Ben sì col core, i me gli offersi, e diedi.


 

IN VITA DELL. S. LIVIA COLONNA

Del Abbate DARDANO, Canzone prima


La notte, che seguì dopò l'occaso
Del Sol, che seco eternamente il giorno,
Se ne portò sotterra, onde ritorno
A' noi non sassi, ò miserabil caso
Il mondo visto sè cieco rimaso,
Ne sperando poter riveder mai
Gli amati, e vivi rai,
Allargò al pianto, e à i sospiri il freno,
Tal che lasso ripieno,
Di tristo humore, e d'alte strida il tutto,
Ogni cosa parea conversa in lutto.

Ma mentre i duri sassi al caso indegno
Le selve, i boschi, l'herbe, e gli animali,
Il ciel, la terra, i miseri mortali
Tutti di giusto duol mostravan segno,
Come vero fedel cortese Amante,
Ch'arsi sol di lei l'alto valore,
Non caduco splendore,
Poi ch'altro non potei gli occhi al ciel volsi,
E in cotai prieghi pij la lingua sciogli.

Sommo fattor' la cui bontà superna,
L'humane colpe in infinito avanza,
Per la tua vera in noi viva sembianza,
Che l'esser nostro (estinto il corpo) eterna:
Piacciati scampar hor di pena eterna,
L'anima bella di colei che spatio
Per lo subito strazio,
De la morte non hebbe, onde ricorso
Al tuo fido soccorso,
Far già potuto havesse in quell'estremo,
Che restò il suo mortal di vita scemo.

Io volea pur pregar quando quella,
Per cui levato col pensiero à volo,
Devoto orava chiuso, e tutto solo
Ne la picciola mia solita cella,
Ratto perdei la voce, e la favella,
Temendo non ciò fusse alcuno inganno,
Del nemico, ch'al danno
De le pie menti pon tutta sua cura,
E d'ella hor t'assicura,
Volgi à me gli occh'io son la tua COLONNA,
Non mi conosci al volto, e à la gonna?

Indi'l lacero petto (ohime scoverse)
Che sotto un bianco vel tenea celato,
E la recisa man, l'aperto lato
In si duro spettacolo m'offerse,
Tal che la luce allhora non sofferse
Di star più asciutta, e tal fù la pietate;
Quella rara beltade
Vedendo chi lasso, annichilita, e morta;
Che se non era accorta
La saggia Donna in consolarmi alhora,
Albor l'alma era presso à girsen fuora.
 

Non ti doler (dicea) che'l corpo frale
Fatt'habbia il corso suo, com'à Dio piacque,
Ne spiaccia quel à te, ch'à lui non spiacque
Egli in qualunque modo era mortale,
Ma rallegrati hor meco, ch'el suo male
Fù per mio ben: però che giunta'l varco,
Ove'l mio grave incarco
Lassar convenne in atto humile, e pio
Rivolta mandai fuor con tanta fede,
Che meritò dinanzi à lui mercede.

E perche i prieghi tuoi giunsero al cielo,
Per via dritta, e spedita ove presente,
Er'io davante à la divina mente
Spirto già sciolto del mortal suo zelo,
E del tuo vero amor si fatta prova
Oltra modo mi giova
D'esser discesa hor qui per consolarti
Di quel che brami, e farti
Dimia salute certo onde si tolga
Altri di dubbio, e'l si scuopra, e sciolga.
Cos'altre assai, diss'ella
Che dir non lice, e con sembiante humano
La bianca, e bella mano
Per sicurtà mi porse; e con un riso
Se ne tornò volando in paradiso.