di Giuseppe Lo Cane
Più di qualcuno si
sarà chiesto quali siano stati i motivi che hanno indotto, undici
anni orsono non calabresi a rendersi promotori di una Fondazione intitolata
ad un prete di Tropea, sollecitandone le adesioni individuali e collettive,
in tutte le altre regioni italiane, riuscendovi.
Si può tentare di
darne una spiegazione, iniziando da molto lontano.
Di recente nel monitoraggio
di chi si domanda dove il mondo stia andando e con quale nuovo vestito
l'uomo debba varcare la soglia del 2000, sembra prendere forma una terra,
la Calabria, nota spesso in negativo, ma sconosciuta nella sua vera dimensione
immateriale. Il solo nome Calabria, con la complicità delle facili
generalizzazioni dei mass-media, evoca immagini di barbarie e di violenza.
Del Papa San Pio X, che
pure amò molto la Calabria e volle l'istituzione del seminario teologico,
apertosi a Catanzaro nel 1912, si riferisce che, ricevendo il seminarista
Pietro Raimondi, portato in premio a Roma, perchè distintosi nella
sua formazione, sentendo che era calabrese, quasi prevedendone la futura
nomina a vescovo di Crotone, gli abbia detto: "Porta tu un pò di
civiltà a quelle canaglie".
Ripensare alla propria
tradizione culturale per i calabresi in questo momento storico diventa
indispensabile, sia ai fini del loro sviluppo, che della riscoperta della
loro missione in un mondo che sembra oscurato dalla tecnica e a rischio
di desertificazione spirituale.
I grandi spiriti della
migliore tradizione della Calabria vanno da Cassiodoro, il quale, ministro
del re Teodorico, ne ispirò la politica di pacifica convivenza tra
Romani e Goti, a San Nilo di Rossano, che nel secolo nono salda a Grottaferrata
Occidente ed Oriente in un abbracciamento cattolico (don Mottola), a San
Francesco di Paola che con i suoi monasteri fondati in Spagna, in Francia,
in Austria e nella Boemia precostituì provvidenzialmente una barriera
spirituale all'espansione del Luteranesimo nell'Europa Meridionale, e fino
allo stesso Servo di Dio don Francesco Mottola, il quale, come si esprime
il bolognese Pino Stancari S. J., riempiva di luce con la sola sua presenza.
Può sorprendere,
ma fino ad un certo punto, che in un grandioso progetto editoriale bilingue,
concepito in Francia col titolo La piété populaire, il primo
volume venga dedicato proprio alla Calabria, a motivo, come afferma Giancarlo
Ravasi, del fascino emanato dai suoi due volti, quello bizantino e quello
latino.
L'occidente è debitore
alla Calabria di molte cose. All'Inghilterra medioevale la conoscenza della
lingua e della cultura greca provenne dal regno normanno. Giovanni di Salisbury
dice di aver ricevuto i primi rudimenti di lingua greca da un graecus interpres
natione Severitanus, cioè di Santa Severina.
Nello stesso secolo di
Giovanni di Salisbury, il XII, Gioacchino da Fiore, di spirito dotato,
esercitò un grande influsso sull'intera cristianità. Il monaco
calabrese, Giovanni Filagato, al seguito della principessa bizantina Teofano,
andata sposa a Ottone II, ne ispirò la politica imperiale. A questo
monaco, lodato da Ottone III per i suoi morigerati costumi, per la scienza
greca posseduta e per fulgore di santità, dallo stesso imperatore
fu affidata la direzione del famoso monastero benedettino di Nonantola,
perchè provvedesse alla sua riforma, mentre all'inizio del 997,
veniva inviato come Ambasciatore alla Corte di Costantinopoli. Filagato
non fu l'unico monaco calabrese ad essere condotto in Germania da Teofano.
La principessa, infatti, dopo il 972 condusse ancora con sè in Germania
San Gregorio di Cassano insieme con 12 suoi monaci, i quali si stabilirono
in una località a breve distanza dalla residenza imperiale di Aquisgrana,
ove gettarono le fondamenta di un monastero greco, intitolato ai SS. Nicola
e Apollinare. Il padre F. Russo, noto autore di molteplici e imprescindibili
lavori sulla storia della Chiesa in Calabria, ha da par suo messo in luce
altra pagina gloriosa della storia del monachesimo calabro-greco, fiorito
nel sec. XI nella Valle del Crati, con numerose abbazie e specialmente
con una Congregazione di Eremiti, i veri precursori del movimento francescano.
S. Stefano, visconte di Thiers, nato a Muret nel 1048, venuto in Italia
e appresa la notizia dell'esistenza in Calabria di una Congregazione di
Eremiti, viventi nel più completo distacco dai beni della terra,
volle raggiungerli, rimanendo con loro per un paio di anni per apprendere
da vicino e assimilare il loro metodo di vita. Al ritorno, passando per
Roma, chiese al papa Gregorio VII l'autorizzazione che ottenne con bolla
del 1 maggio 1074, di fondare in Francia una Congregazione sul modello
dei monaci della Valle del Crati. Il Santo, fatto quindi ritorno in Francia,
condusse con altri discepoli vita eremitica fino alla morte avvenuta l'8
febbraio 1124. La Congregazione, quando i suoi discepoli si trasferirono
a Granmont, da eremitica si trasformò in cenobitica.
Non escluse p. Russo che
Papa Pasquale II, successore di Urbano II nel 1099, provenga anche lui
dalla Valle del Crati, stando alla testimonianza del cronista benedettino
francese Orderivo Vitale.
Negli stessi anni altro
gruppo di monaci muoveva dalla Valle del Crati per raggiungere la Lorena,
nella diocesi di Treviri, all'incrocio di popoli della Germania, della
Francia e delle Fiandre, fermandosi finalmente nelle Ardenne per edificarvi
un monastero, che riuscivano a completare con l'aiuto della Contessa Matilde
di Toscana, vedova del Duca di Lorena Goffredo il Gobbo. A quel sito rimase
il nome di Orval, derivazione di aurea vallis, come era stato definito
dalla stessa Contessa Matilde.
L'Abbazia di Orval fu,
durante i secoli, una delle glorie più illustri della grandezza
religiosa e monastica belga (Maggi). I monasteri fondati dai monaci calabro-greci
in Francia e in Germania introdussero in quelle regioni, secondo la valutazione
del benedettino D. Nicola Huyghebaaert, un principio rivoluzionario, per
aver portato "l'istituto monastica nell'alveo delle sue finalità
strettamente religiose, basandolo sulla preghiera, lo spirito di povertà,
il lavoro manuale e intellettuale, la sobrietà nelle manifestazioni
edilizie". Attraverso questo tipo di manachesimo nelle fredde regioni occidentali
penetra il tal modo, afferma Huyghebaert, quella che il mistico Guillaume
de Thierry avrebbe un giorno chiamato luce orientale (v. Conferenza di
p. F. Russo al Club del Libro di S. Fili, 8 ottobre 1966).
Un altro grande calabrese,
Guglielmo Sirleto, merita di essere ricordato come figura di livello europeo.
Egli pur rimanendo a Roma, pose la sua conoscenza dei testi patristici
e conciliari greci a disposizione del legato pontificio al Concilio di
Trento, Girolamo Seripanto, il quale, ringraziandolo da quella città,
commentò: "Fo questa conclusione che voi, stando costì date
qui maggior aiuto e fate maggior servizio che se vi fossero giunti cinquanta
altri prelati".
I calabresi Campanella
che finì i suoi tormentati giorni in Francia, Gravina, la cui opera
Originum Juris Civilis Libri Tres fu pubblicata a Lipsia il 1708, Galluppi,
socio corrispondente dell'Accademia di Francia, nei secoli successivi rinnoveranno
l'incontro del lume orientale con la concretezza storica. Ricordare il
proprio migliore passato per i calabresi diventa necessario, perchè
essi in tal modo saranno utili a se stessi e al mondo. Il calabrese vuole
essere parlato, diceva Corrado Alvaro. Integrando, si potrebbe aggiungere:
vuole essere parlato anche dall'Assoluto. La Calabria, figliaa dell'orientale
lumen, destinata nel prossimo millennio a ridiventare crocevia dei popoli,
di cui il porto di Gioia Tauro è soltanto un simbolo, è forse
pure chiamata ad adoperarsi in maniera speciale perchè il mondo
impari a parlare con l'Assoluto.
Nella società postindustriale
la crescita delle comunità è affidata ad una molteplicità
di fattori, ma tra di essi tengono il primo posto le conoscenze.
Don Mottola, sognando una
svolta nella storia della Calabria, così scriveva nel 1938: "Vorrei
alzare nella mia Calabria la bandiera di una rivolta ideale".
Sarà possibile che
un centinaio di persone che abbiano il coraggio di pensare, sperare ed
agire, si rendano disponibili per un lavoro decennale, tendente a mettere
il popolo calabrese a contatto col suo insostituibile patrimonio spirituale,
muovendo dalla parrocchia e sanando l'antica piaga della divisione tra
clero e popolo?.
La Fondazione che si sintitola
al nome di Don Mottola potrebbe fare, e bene, la sua parte, guardando non
solo alla Calabria, ma al mondo intero, e non dimenticando l'ammonimento
di Dossetti che non si può darla a bere che i progetti bastino,
senza un confronto quotidiano con la Parola rivelata.
Nei momenti difficili della
storia, lo pensava già Kierkegaard, tocca ai "monaci" -oggi a quelli
della strada- tirare la carretta.